Costume
La blogger cubana Yoani Sanchez contestata a Perugia
Domenica scorsa la nota blogger cubana Yoani Sanchez era stata invitata a tenere una conferenza al Festival del giornalismo di Perugia. Proprio nel momento in cui stava per prendere la parola è stata rumorosamente contestata da una trentina di “castristi” italiani.
Che esistessero “castristi” in Italia mi giunge nuova. Non mi sorprende, però, l’intolleranza ideologica di certa parte della sinistra italiana, per fortuna elettoralmente e politicamente ormai assai marginale nel nostro Paese.
La giovane cubana che con grande sacrificio personale e non poche persecuzioni conduce la sua battaglia per la libertà di informazione nel suo Paese, ha espresso un commento che è stata come una lapide per i contestatori: “Anche noi a Cuba vorremmo protestare come hanno fatto loro. E’ bello vedere gente libera di manifestare e per questo li ringrazio. Le loro proteste rendono più alta la mia voce”.
La cosa più sorprendente è che questi “castristi” italiani si sono dimostrati anche più intolleranti di quelli originali, che comunque alla Sanchez hanno concesso un permesso per un ciclo di conferenze in Europa.
A Cuba sono stato anch’io, due volte. Del mito rivoluzionario di Fidel Castro e Che Guevara, sinceramente, ho ritrovato ben poco. Solo molta miseria, una popolazione comunque molto dignitosa e, nonostante tutto, allegra.
La stessa allegria con la quale dico ai “castristi” italiani: “una risata vi seppellirà”.
IL VERO COLPEVOLE…
CLAMOROSO !!!
Finalmente lo abbiamo scoperto. E’ lui il grande vecchio, l’oscuro che trama nell’ombra, il responsabile di tutti i problemi d’Italia, della mafia, della ndrangheta e della camorra, l’artefice della discesa in campo di Berlusconi, quello che sta dietro al problema della monnezza di Napoli e del mare sporco in Calabria. Si, è proprio lui, il malefico, geniale, imprendibile CATTIVIK !!!
Dalla “Calabria barbara” alla Padania familista amorale…
Oggi sono stato a Nocera Terinese ad assistere alla processione di Pasqua e al rito dei “vattienti”. Grazie alla guida accorta e competente del mio caro amico Pasquale Motta, che di quel comune è stato Sindaco, ho potuto vedere da vicino un rito antichissimo, per molti versi emozionante, di cui avevo conoscenze, lo confesso, solo libresche e televisive.
Pasquale mi ha raccontato come talvolta i media nazionali ed internazionali si siano interessati a questa tradizione, che affonda le sue origine in più di mezzo millennio di storia, ma che l’approccio è stato spesso assai simile a quello che avrebbero avuto nei confronti di una tribù di cannibali, se ne esistono ancora sulla faccia della terra. Nessuno sforzo cioè di capire, neppure la fatica di leggersi qualche serio studio antropologico (io ho ancora vivo il ricordo di quello straordinario libro di Lombardi Satriani, Il Ponte di san Giacomo, che si dovrebbe studiare nelle scuole), solo il fermarsi alla superficie, alle immagini, certamente forti, di uomini che si procurano ferite sanguinanti nei giorni che ricordano la Passione di Cristo e giudicarle come rito pagano, barbaro, violento, primitivo. E giù con nuove prove da dare al vecchio pregiudizio sulla Calabria, anch’essa barbara, arcaica, naturalmente violenta.
Quante volte antichissime tradizioni religiose sono state trattate dai media solo per l’uso che di alcune (e in alcuni assai limitati casi) ne hanno fatto le organizzazioni criminali e mafiose. Il tutto messo in un calderone indistinto, in cui Calabria, mafia, sangue, paganesimo, religione cattolica, diventano gli ingredienti di un polpettone alla Mario Puzo.
La cosa più drammatica però è che spesso sono stati alcuni calabresi e meridionali i primi consumatori e propagatori di questo polpettone. Gli stessi, per capirci, che oggi si indignano per le parole di un Crosetto qualsiasi e tessono le lodi di un Giorgio Bocca che sul Sud e sulla Calabria ha detto cose forse peggiori.
No, niente di nuovo sotto il sole di questo nostro sciagurato Paese in cui è più facile giudicare che capire. Un Paese tanto ubriaco dei suoi pregiudizi in cui non c’è nessuno capace di fare come il bambino che dice “il re è nudo”, cioè dire a piena voce che le teorie di Banfield e di Putnam sul “familismo amorale” e sulla mancanza di “senso civico” che sarebbero caratteristiche peculiari e storicamente strutturate del Mezzogiorno si sono dimostrate delle emerite cazzate di fronte ai fatti.
E i fatti oggi ci rappresentano un Paese in cui il malaffare è invece equamente distribuito a tutte le latitudini e che anzi proprio nella sua parte più ricca e più “civile” in questi anni è cresciuto un movimento, questo si, barbaro, arcaico e pagano, che ha trasformato in politica tutti i più truci pregiudizi razzisti nei confronti del Sud con tanto di simbologia celtica e cappelli cornuti (contenti loro) il cui leader, scopriamo oggi, pare si facesse ristrutturare casa e comprare un diploma di laurea per il figlio irrimediabilmente “ciuccio” con i soldi del partito.
No, non ho dimenticato i fiumi di inchiostro né la reverenza rispettosa dei media nazionali di fronte alle pagliacciate delle ampolle, dei raduni di Pontida, persino dei rumori corporali di Bossi scambiati per profonde analisi politiche (sic). Né ho dimenticato che tutta la politica nazionale degli ultimi anni è stata condizionata dalla Lega e dal paradosso della nascita della questione settentrionale che è come se un energumeno prendesse a schiaffi un mingherlino e gli dicesse “chiedimi scusa perché ti meno”.
Nel dire questo non giustifico i nostri difetti di calabresi e meridionali che certamente sono tanti, né sostengo la tesi del “mal comune, mezzo gaudio”. Dico solo che alla Calabria e all’Italia intera bisogna parlare il linguaggio della verità e non più quello del pregiudizio, sforzandosi di capire finalmente quello che siamo, da dove veniamo e scegliendo insieme dove vogliamo andare.
Io credo che su questo si misuri la vera sfida di una nuova classe dirigente. Una classe dirigente che deve imparare ad amare questa terra, smettendola, una volta per tutte, di limitarsi a giudicarla.
QUESTIONE ROM: L’INTEGRAZIONE E’ UN DOVERE SIA PER CHI ARRIVA SIA PER CHI OSPITA.
Diciamoci la verità, per poco non ci è scappato il morto con l’incendio nel “villaggio” ROM sul fiume di Cosenza. Senza contare le condizioni vergognose in cui vivono le persone in quella “favela”, tra sporcizia, topi e il rischio continuo che il fiume se li porti via con un’ondata di piena improvvisa. Oggi apprendiamo del rifiuto dei 60 scampati all’incendio a trasferirsi nella ex scuola “Don Milani” e a voler restare lì, in quelle condizioni degradate. Tutto ciò ci pone di fronte alla domanda: può una città civile consentire che 500-600 persone vivano in quelle condizioni, a rischio della loro stessa incolumità fisica ? Può, nello stesso tempo, accettare la pervicace ostinazione a voler restare in quelle condizioni ? Si può legittimare questa ostinazione, spesso dettata da motivazioni ben poco nobili, con la costruzione di un villaggio (eco, temporaneo o a numero chiuso che sia) che nei fatti diventerà l’ennesimo ghetto ? Massimo Converso, presidente dell’Opera Nomadi, giustamente si batte contro questa soluzione. I villaggi di quel tipo legittimano solo l’evasione scolastica, la volontà di non essere censiti e di occultare attività spesso “utilizzate” come manovalanza a basso costo dalla malavita.
Dovunque l’integrazione è avvenuta quando culture si sono mescolate, tollerandosi ed accettandosi con quella ospite, rinunciando certo, a parte di sé ma per il supremo bene della convivenza e della sicurezza collettive. Il nostro ordinamento, ad esempio, non consente, giustamente, la poligamia o il burka, pur difendendo il diritto di tutti a professare la propria fede.
Se la nostra casa è pericolante e mette in pericolo la nostra sicurezza e quella degli altri il nostro ordinamento prevede, giustamente, l’evacuazione di quella casa anche in deroga al nostro diritto di proprietà su quell’immobile.
Sono regole elementari che tutti, nel nostro territorio, sono tenuti a rispettare. E se persisto nel volerle non rispettare posso essere, legittimamente, invitato ad andar via.
Nel 2007 il “villaggio” sul fiume Crati fu sgombrato e i suoi abitanti, grazie ad un’azione congiunta di Prefettura, Comune, Provincia e Curia furono trasferiti in case reperite (non senza difficoltà) dal Comune e nei comuni dell’hinterland. Non durò molto perché i rom abbandonarono le case e tornarono sul fiume, con alterchi e risse scoppiate tra coloro che volevano comunque accettare le soluzioni offerte e quelli che invece si ostinavano a restare nella baraccopoli. Ci fu anche una polemica, che coinvolse il sottoscritto, che ribadiva la bontà della scelta del 2007, e alcune cosiddette associazioni “antirazziste” che chiedevano l’allestimento di un villaggio perché i rom sono naturalmente “nomadi” e quindi naturalmente portati ad abitare in baracche. Fui preso a male parole anche quando criticai la cosiddetta “scuola del vento” messa in piedi da queste associazioni, una iniziativa che allestiva una scuola per i bambini nella baraccopoli mentre gli scuolabus del Comune continuavano a viaggiare vuoti, nonostante l’impegno degli amministratori e di alcuni dirigenti scolastici di allora di dotare alcuni istituti di una politica di accoglienza e persino di docce per dei bambini che, vivendo all’addiaccio, non potevano certamente essere al massimo dell’igiene (una decisione presa tra le proteste dei genitori dei bambini italiani che inscenarono vivaci manifestazioni). Ma questa è la strada dell’integrazione, difficile, ma senza alternative.
Sarò antico, potrò non essere un esperto di antropologia, ma io continuo a pensare che vivere in una baracca in campi-ghetto, anche se dotati di minimi servizi essenziali, non possa essere un esempio di integrazione. Continuo a pensare che l’integrazione scolastica si svolga nelle scuole, mettendo insieme bambini di diversa cultura ed etnia e sia inaccettabile che possano esistere scuole diverse per bambini diversi. Io continuo a credere che abbia ragione Massimo Converso quando propone di persistere sulla soluzione del 2007 e a rifiutare la logica dei ghetti. Perché a nessuno è consentito di rifiutare le regole del posto in cui vive e pretendere la legittimazione di una illegittimità. Perché integrarsi è un dovere sia per chi arriva sia per chi ospita, sempre.
Si può sovrapporre un’etica astratta alla legge ?
Alcune vicende di questi mesi mi hanno portato a svolgere una riflessione più stringente su di una questione che si può riassumere nella domanda: “esiste un’etica che si sovrappone alla legge ?”, vale a dire, al di là di ciò che i codici stabiliscono essere un reato, c’è un’etica superiore che stabilisce l’illiceità o la non opportunità di alcuni comportamenti soprattutto per quanto riguarda persone che ricoprono ruoli di evidenza pubblica ? I recenti casi di Strauss Khan ma anche quello della ragazza segretaria di circolo del PD dimessa perché scoperta nel suo privato in alcuni filmetti porno (anche se pare che si tratti di una non notizia, perché la ragazza in questione si era dimessa molto prima per altre ragioni), e tanti altri, pongono una questione inedita nel dibattito politico italiano e non solo.
Inedita perché la società della comunicazione, il diffondersi della pratica di pubblicare intercettazioni telefoniche, la tendenza cioè a rendere pubblico anche aspetti assai privati degli uomini e delle donne che hanno ruoli e funzioni pubbliche hanno posto con urgenza il tema.
Non ci si deve nascondere, inoltre, il fatto che la lotta politica fa ricorso ampliamente a questi mezzi e una parte del giornalismo (sia a destra che a sinistra) si presta volentieri a questo meccanismo che è stato efficacemente definito “macchina del fango”.
Ora io credo che la questione vada ricondotta nei limiti di un principio che mi sembra essenziale per chi ha ruoli e funzioni di evidenza pubblica (cioè politici, ma non solo, tutti coloro che hanno responsabilità che li portano a decidere o ad avere influenza sul destino della collettività): chi ha responsabilità di questo genere è tenuto, innanzitutto, a non mentire.
Ciò che infatti rende una donna o un uomo pubblico non credibile non è il suo comportamento privato, che è di per sé insindacabile laddove non commetta specifici reati, ma la sua ipocrisia, il predicar bene e razzolare male. Faccio un esempio: non si può predicare contro divorzio e aborto e poi nel proprio privato essere divorziato o praticare l’aborto; non si può essere per la difesa della famiglia tradizionale e nel proprio privato cercare la compagnia di gay, trans o prostitute; non si può essere contro la pornografia e nel proprio privato acquistare materiale pornografico o praticare la pornografia.
Ciò vale per tutti. Un avvocato, un medico, un insegnante sono giustamente sottoposti, oltre che alla legge, come tutti, anche ad un’etica professionale che impone loro comportamenti conseguenti a non danneggiare in qualsiasi modo le persone che si rivolgono a loro. Nel loro privato possono fare ciò che vogliono in base alle loro convinzioni, gusti e orientamenti, ma nello svolgimento della loro professione sono tenuti a fare in modo che tali convinzioni, gusti ed orientamenti non abbiano alcuna influenza sulla vita e le vicende delle persone con cui hanno a che fare, a cui devono offrire un servizio efficiente, qualificato e soprattutto rispettoso soprattutto di quelle persone le cui convinzioni, gusti ed orientamenti non coincidono con i loro. Allo stesso modo una donna e un uomo pubblica devono tenere un comportamento che sia in linea con la funzione che svolgono e con le cose che proclamano di voler difendere.
In questo senso l’unica etica possibile è quella della responsabilità, che intanto si basa sulla necessità di non mentire, di avere un comportamento coerente con i principi che si sostengono. Nel caso Strauss Khan, ad esempio, questi non ha mai nascosto la sua natura di “libertino” e quindi, atteso che non ha commesso reati, ha tutto il diritto di rientrare nelle sue funzioni e di concorrere alla lotta politica del suo Paese sempre che abbia il consenso necessario. Ciò che è invece inaccettabile è un’etica astratta, senza aggettivi, non si sa stabilita da chi, utile strumento di lotta per eliminare avversari scomodi e magari perpetuare potere e, ipocritamente, comportamenti ancora peggiori.
Il confine tra etica della responsabilità ed etica astratta e senza aggettivi è assai labile ma è in quel confine che spesso si celano le aberrazioni che danno vita alle persecuzioni, ai roghi, alle gogne.
L’etica senza aggettivi è contraria ai principi democratici, visto che la democrazia, non a caso, si regge sul rispetto della legge e basta. Non può far scandalo che un deputato sia gay o ami andare a prostitute, l’importante è che nella sua attività parlamentare non si impegni contro gay e prostitute e anzi ne difenda i diritti di cittadini come tutti gli altri.
E’ l’ipocrisia il male peggiore, da sempre. La stessa ipocrisia che erigeva i roghi per streghe, gay e prostitute ai tempi dell’Inquisizione. Quel tempo è finito, anche se roghi e gogne non sono, purtroppo spariti, anzi.
L’ideologia della SPECTRE…
Esiste una tendenza antica nella politica, nel giornalismo e più in generale nel mondo culturale italiano e non solo, a cercare la ragione di tanti guai in oscure trame, in complotti orditi da misteriosi personaggi, da occulte cupole di potere, da oscure organizzazioni globali che, come la SPECTRE di James Bond, tramano contro la sicurezza e la pace mondiale.
Intendiamoci, mafia, camorra, ‘ndrangheta, le mafie cinesi, giapponesi, russe e in generale la criminalità organizzata a livello internazionale, certe logge massoniche deviate, il terrorismo internazionale, ecc. sono cose assai concrete, che hanno nome e cognome e costituiscono realmente un pericolo. Sono realtà solide, fatte da persone in carne ed ossa che muovono interessi reali, spesso non divergenti da quelli legali e per questo assai insidiose perché mimetizzate e coperte da situazioni che spesso rendono la lotta contro di esse “non utile”.
Contro di queste, le forze democratiche del mondo combattono conseguendo anche importanti successi.
Altra cosa, invece, è la tendenza di cui parlavo prima: essa rappresenta spesso una copertura ideologica all’incapacità, o peggio, alla non volontà di affrontare con coerenza o continuità un problema. Attribuire tutti i problemi e gli insuccessi ai complotti di forze oscure ed invincibili assomiglia molto al “complotto demo-plutocratico giudaico-massonico” delle dittature nazifasciste degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. Una risposta ideologica ai problemi sociali, la creazione di un nemico che spesso copre i nemici veri consentendo loro, comunque, di continuare a fare allegramente i propri affari.
Ecco perché quando sento parlare di forze occulte, quando sento comizi general-generici contro le mafie, quando si parla senza fare nomi e cognomi, denunciare circostanze precise e concrete, diffido.
Parlare di forze occulte che frenano il cambiamento senza dire quali sono e dove e come operano, è come credere che dietro queste trame, alla fine, ci sia solo il popolare personaggio dei fumetti di Silver, Cattivik o, per i più raffinati, la mitica SPECTRE di 007.
Malagiustizia, lombrosismo, processo mediatico. Il caso di Ciccio e Tore di Gravina di Puglia
Pubblicato su “Processo Mediatico” marzo 2011 href=”http://www.gabrielepetrone.it/wp-content/uploads/2011/03/Salvatore-Pappalardi.jpg”>
Il tema giustizia è assai controverso e dà spesso origine a scontri epocali tra i cosiddetti giustizialisti e i cosiddetti garantisti.
La presenza di Berlusconi, politico che sulla giustizia spesso proclama un garantismo peloso che egli traduce con richiesta di impunità e l’idea che il consenso lo metta al di sopra delle regole dello Stato di diritto non aiuta una discussione serena, anzi la ideologizza fino all’estremo.
Eppure il problema giustizia in Italia esiste a prescindere da Berlusconi ed è un tema che riguarda i cittadini comuni e non solo i politici e i potenti.
Porterò un esempio concreto per comprenderci, un fatto che non riguarda un politico ma una persona comune, un lavoratore di Gravina di Puglia accusato di una cosa terribile, di aver ucciso i suoi figli, forse lo ricorderete, ne parlarono TV e giornali, una cosa terribile.
Due bambini, Ciccio e Tore, assai vivaci come ce ne sono tanti, come potrebbero essere i nostri figli, appartenenti ad una famiglia di separati in lite fra di loro, ad un contesto familiare difficile, spariscono la sera del 5 giugno del 2006.
Il padre, Filippo Pappalardi, li cerca tutta la notte e la mattina va dai carabinieri a denunciarne la scomparsa e si reca al lavoro.
Le ricerche si sviluppano tutto intorno a Gravina e arrivano fino in Romania nell’ipotesi del rapimento da parte dei soliti “zingari”.
Nel frattempo i due genitori separati cominciano ad accusarsi vicendevolmente di essere responsabili della sparizione dei figli. Comincia la caccia al “mostro” in una comunità che si trova proiettata sulla ribalta televisiva in cui tutti esprimono opinioni a cronisti disponibili a raccogliere qualsiasi voce, qualsiasi congettura.
Perfino il parroco del paese si lascia andare ad analisi da investigatore e invita ad “indagare sulla madre”, che sembra troppo “fredda” e indica persino due piste: “o lei o la malavita”.
La pressione mediatica cresce, le immagini dei due bambini imperversano su giornali e TV, l’Italia è commossa e attonita, si appassiona ad una vicenda di violenza, di degrado familiare, si alimenta nei talk show e nella morbosa ricerca del colpevole, l’ipotesi della sparizione accidentale, dell’allontanamento accidentale o dell’incidente fortuito sparisce, non tira mediaticamente.
Gli inquirenti ne sono travolti, trascurano le ricerche nei posti più ovvii, intanto quelli dove i due ragazzini sono stati visti l’ultima volta, si convincono della tesi del delitto maturato in famiglia. Vengono compiuti scavi attorno alla casa della madre, Rosa Carlucci, perché una segnalazione indica che lì sarebbero stati sepolti i cadaveri dei due bambini. Intanto tutte le TV trasmettono un video in cui si vede il piccolo Francesco ripreso da una telecamera di sorveglianza di una banca del paese la sera della scomparsa.
Il 7 settembre del 2006 Filippo Pappalardi riceve un avviso di garanzia dopo essere stato iscritto nel registro degli indagati per sequestro di persona. Emilio Marzano, procuratore della Repubblica di Bari, riferisce inoltre di perquisizioni e del sequestro a Pappalardi dell’auto, del camion e di alcuni terreni sui quali si stanno svolgendo ricerche accurate con particolari tecnologie.
Spuntano inoltre testimonianze come quella di un bambino, compagno di giochi di Ciccio e Tore, che riferisce che la sera della scomparsa stavano giocando a palloncini d’acqua davanti alla Cattedrale di Gravina e che il padre li avrebbe raggiunti, sgridati e caricati in macchina con lui portandoli via, circostanza sempre negata da Pappalardi.
L’avvocato di Pappalardi, inoltre, annuncia l’intenzione del suo assistito di presentare una formale denuncia contro un dirigente della squadra mobile di Bari, Luigi Liguori, per metodi non ortodossi nella conduzione delle testimonianze di persone informate dei fatti.
Il 24 ottobre 2006 si aggiunge anche la dichiarazione del Sindaco di Gravina che dice che i due bambini sono vivi secondo una fonte che non può rivelare.
Il 27 novembre 2007, dopo ben 17 mesi di indagine, Filippo Pappalardi viene arrestato con l’accusa di sequestro di persona, duplice omicidio volontario aggravato dal vincolo di parentela ed occultamento di cadavere. L’uomo avrebbe ucciso i suoi due figli lo stesso giorno in cui ne aveva denunciato la scomparsa, nascondendo poi accuratamente i loro cadaveri. Pappalardi è inoltre indagato per aver indotto la convivente a rendere dichiarazioni false alla magistratura.
Secondo la ricostruzione fornita dal procuratore della Repubblica presso il tribunale di Bari, Emilio Marzano, Pappalardi non voleva più quei due figli. “Non li sopportava più. La nuova famiglia di Pappalardi, quella formata con Maria Ricupero, era già gravata da altri tre figli, Ciccio e Tore davano fastidio, disobbedivano, mentre Pappalardi voleva che rispettassero le regole”.
L’uomo continua a proclamarsi innocente e a nulla valgono le iniziative del suo difensore tendenti a denunciare non solo la debolezza del movente ma anche di tutto l’impianto investigativo. Resta in carcere, in isolamento.
Il 25 febbraio 2008, a quasi tre mesi dall’arresto del padre e quasi due anni dalla scomparsa dei due bambini, vengono ritrovati i cadaveri nel pozzo di uno stabile abbandonato nel pieno centro di Gravina. Sin dai riscontri e dalle autopsie si delinea con nettezza la dinamica accidentale della morte: i due cadaveri non hanno su di sé segni di violenza a parte le ferite procuratesi nella caduta. La cosa più agghiacciante è che i due avevano avuto una lunga e terribile agonia.
Com’è possibile che a nessuno era venuto in mente di andare a cercare nei pozzi e negli stabili abbandonati, almeno in quelli nelle immediate vicinanze dove i bambini erano stati visti l’ultima volta ? Come si faceva ad ignorare che esistevano posti così pericolosi dove due bambini vivaci potessero cadere ? Come si faceva ad ignorare che lo stesso nome Gravina deriva dalla presenza di crepacci erosi in terreni calcarei ?
Nonostante questi riscontri il povero Filippo Pappalardi rimane in carcere da dove esce solo il 4 aprile 2008. Nel mezzo la Procura resiste attaccandosi al baby-super-testimone: l’ipotesi adesso è che i due bambini sarebbero caduti nel pozzo per sfuggire alla punizione del padre che li cercava e che quindi si configurerebbe quantomeno l’omicidio colposo o l’eccesso di mezzi di correzione o la negligenza grave.
Intanto crolla anche la testimonianza del baby-super-testimone: dice che sin dall’inizio aveva dichiarato di non ricordare se il giorno era proprio quello della scomparsa, ma che loro (gli inquirenti) volevano “cose precise”, erano passati due mesi e noi abbiamo raccontato “quello che avevamo in mente”.
Ma la Procura resiste, nonostante le prove dell’innocenza di Pappalardi si accumulino ora dopo ora. Questi, ancora in carcere, denuncia, “l’avevo detto di cercare lì”, ma la Procura insiste: l’ipotesi dell’incidente è stata scartata sin da subito perché “’l'ipotesi di duplice e contemporanea disgrazia appariva scarsamente probabile dato che, salvo pensare a un crollo che avesse coinvolto entrambi o all’ipotesi di una disgrazia accorsa al secondo che magari tentava di soccorrere il primo (per esempio caduto in un vascone per l’irrigazione), resta il fatto insuperabile che Gravina di Puglia non e’ un comune di alta montagna, con crepacci, burroni e slavine pronti a seppellire per sempre i corpi dei malcapitati” (e allora perché si chiama Gravina ?).
Alla fine il GIP è costretto a prendere atto dell’innocenza del Pappalardi e riconoscere la tesi dell’incidente, nonostante la Procura continui ad insistere e per giustificare le evidenti discrepanze investigative, se la prende con i due poveri genitori, con la gente di Gravina. La dottoressa Romanazzi ne ha per tutti. Dice a pagina 12 della sua ordinanza: “si è profilato sin dalla primissima fase delle indagini, un groviglio di omissioni, reticenze, bugie, indugi, con inevitabili ripercussioni negative sull’attività investigativa”.
Questa vicenda non credo abbia bisogno di commenti: un padre accusato ingiustamente di aver ucciso i propri figli che intanto morivano orribilmente perché nessuno li cercava in quanto tutti si erano appassionati alla tesi dell’orco, una lunga pena detentiva e la pervicacia nel sostenere, anche di fronte all’evidenza dei fatti una tesi accusatoria che non stava in piedi sin dall’inizio soltanto se si fosse lavorato con scrupolo, evitando scorciatoie investigative e la ricerca di facili capri espiatori.
Ma ci dice anche un’altra cosa, che è più terribile, se vogliamo, di tutto il resto: Filippo Pappalardi è stato vittima di uno stereotipo quasi lobrosiano: era il colpevole perfetto, un semianalfabeta con una vita familiare confusa, severo con i figli cresciuti in un ambiente degradato in una piccola comunità del Sud, scorbutico e manesco, magari antipatico a tanti.
Quanti ne conosciamo di persone così ? Quante ne incontriamo ? E sono tutte potenziali assassini ?
Sulla base di questo è stata costruita l’inchiesta, non sulla effettiva rilevazione di reati e di riscontri indiziari.
Contro Pappalardi, non c’era nulla sin dall’inizio, solo questo teorema che, per colpevole faciloneria, per rispondere alla pressione mediatica, per soddisfare la “piazza”, è diventata un’accusa, un’inchiesta e una prova. E’ agghiacciante pensare che, se i corpi di Ciccio e Tore non fossero stati ritrovati Filippo Pappalardi sarebbe ancora in galera oppresso dal dolore per i figli perduti e dall’accusa drammatica di averli uccisi.
Per la cronaca i magistrati protagonisti di tutto ciò sono ancora lì, al loro posto, non essendone stato disposto neanche il trasferimento.
Ma Cetto La Qualunque doveva essere per forza calabrese ?
Pubblicato su Calabria Ora il 22 gennaio 2011
In questi giorni si fa un gran parlare del film di Antonio Albanese “Qualunquemente”.
Il film, preceduto dal grande successo del personaggio di Cetto La Qualunque in TV nella trasmissione di Fazio, si preannuncia come campione di incassi. Qualcuno l’ha definito l’evento satirico del 2011, rilevando riferimenti tra il personaggio laido, corrotto e ladro di Cetto con le cronache quotidiane che riguardano il Presidente del Consiglio. Lo stesso Albanese non ha mancato di sottolineare come la cronaca spesso supera la fantasia cinematografica. Il film sarà certamente divertente e andrò a vederlo, anche se, a mio parere, è solo un film comico, una commedia, e non un’opera satirica.
La satira infatti è una forma artistica caratterizzata dall’attenzione critica alla politica e alla società, perché ne mostra le contraddizioni e soprattutto cerca di promuovere il cambiamento. Per essere satirico, quindi, un film o una qualunque forma di espressione artistica, non è sufficiente che contenga una critica e faccia sorridere sui mali della politica e della società, ma deve anche contenere una forma di “proposta” che possa suscitare quella famosa volontà di cambiamento.
La satira, nei secoli, è stata temuta dal potere soprattutto per questo: è la voce del bambino che urla il re è nudo, e ne svela irrimediabilmente le debolezze.
Fatta questa premessa che ritengo essenziale vengo al merito del film del lombardo Albanese: Cetto La Qualunque è quanto di più disprezzabile rappresenti certa politica oggi: è corrotto, clientelare, tangentista, evasore fiscale, maschilista, ecc.. Caratteristiche che sono presenti in egual misura a tutte le latitudini del nostro Paese. Mi chiedo, quindi, assai retoricamente, perché esso dovesse essere per forza calabrese.
Dicendo questo non intendo fare il solito discorso di calabresità offesa o ferita né negare che certa politica calabrese spesso superi nella realtà la caricatura di Albanese. Sono però convinto che se La Qualunque si chiamasse Brambilla e parlasse padano non sarebbe meno comico.
Ma Cetto La Qualunque è calabrese, diciamocelo con franchezza, perché la Calabria oggi è vista, è rappresentata (e, perché no, spesso si autorappresenta) come il peggio nazionale, la Gomorra d’Italia.
Guardando Cetto si è indotti a pensare, però, fuori dalla nostra regione, che tutti i politici ed amministratori siano come quella caricatura e magari sfugge la realtà di tanti politici ed amministratori, la maggioranza, che non solo non sono come Cetto, ma che quotidianamente si sforzano di fare il loro dovere come dimostrano le centinaia di intimidazioni mafiose o criminali (la Calabria ha anche questo triste primato, purtroppo) che subiscono.
Cetto quindi è una facile caricatura perché, in fondo rassicura, conferma pregiudizi e stereotipi: lombardi, veneti, piemontesi o toscani si sentono rassicurati perché possono continuare a pensare che la malapolitica sia solo un problema meridionale e calabrese. Ma rassicura anche certa sinistra giacobina e radical-giustizialista (dislocata in tutto il Paese e anche al Sud) perché le consente di restare rinchiusa nella propria visione manichea di un bene contrapposto al male, nella orgogliosa presunzione della propria diversità etica e morale. Cetto La Qualunque, infine, non fa paura al potere (che oggi è di destra, populista e berlusconiano) perché colloca la malapolitica in una dimensione comica e caricaturale, quindi sostanzialmente non riferibile a fatti concreti.
“Qualunquemente” è dunque un film comico, non una satira politica o di costume: dopo averlo visto e averci riso sopra ai calabresi e agli italiani resta il problema tutto aperto di rinnovare e cambiare la politica superando pregiudizi e stereotipi e guardando il merito delle questioni, una volta tanto.