Gabriele Petrone
Ideologia e stupidità di chi ancora difende la Bossi-Fini e si oppone all’amnistia.
Prima scena: centinaia di immigrati muoiono in mare…uomini, donne e bambini. I superstiti si trovano indagati per il reato di immigrazione clandestina introdotta da una legge stupida e propagandistica come la Bossi-Fini.
Da più parti, giustamente, si fa notare come questa cosa oltre che stupida è anche vergognosa per un paese civile. Eppure ancora oggi Alfano, mentre Barroso e Letta visitavano Lampedusa per rendere omaggio alle vittime e cercare soluzioni al problema, si è sentito in dovere di difenderla.
Seconda scena: il Presidente della Repubblica giustamente manda un messaggio alle Camere per proporre un provvedimento di clemenza nei confronti dei detenuti che, nelle carceri italiane ormai sovraffollate, vivono in condizioni al limite dei più elementari diritti umani.
Ad opporsi i grillini, che in questo provvedimento vedrebbero un favore a Berlusconi. Cosa c’entri il vecchietto di Arcore con un provvedimento di amnistia che riguarda i carcerati è inspiegabile, anche perché, se fosse vero ciò bisognerebbe chiedersi perché la Lega di Maroni e Fratelli d’Italia, vale a dire i migliori e unici alleati di Berlusconi, hanno annunciato barricate contro questo eventuale provvedimento.
L’unica spiegazione è sempre quella vecchia: l’ideologia si nutre di propaganda, è falsa coscienza e spesso va a braccetto con la stupidità.
Responsabilità civile dei giudici: why not ?
Un giudice ha condotto un’inchiesta che è costata 10 milioni di euro.
Questa inchiesta ha indagato e sottoposto a processo decine e decine di persone che alla fine sono state tutte assolte con formula piena.
Alcune di queste persone hanno avuto la vita personale e professionale rovinata e per anni sono stati additati al pubblico ludibrio della gogna mediatica.
Addirittura questa inchiesta è stata la causa della caduta di un governo della repubblica.
L’intera inchiesta, oggi lo dimostrano anche le sentenze, era soltanto una fantomatica bufala.
Nonostante questo il giudice in questione, grazie alla notorietà mediatica acquistata durante le indagini, è riuscito a farsi eleggere prima deputato europeo e poi Sindaco di una delle più grandi città d’Italia.
Dei suoi evidenti errori non risponderà mai davanti a nessun tribunale.
Se invece un medico, un insegnante, un ingegnere o un qualsiasi cittadino che guida la sua macchina sbaglia, è condannato quantomeno al risarcimento del danno che provoca.
In tutto il mondo democratico esistono leggi che stabiliscono la responsabilità civile dei giudici.
Per questi motivi ho firmato il referendum proposto dai radicali.
La fine del populismo e la ricerca del “quid”.
Una mia riflessione sulla giornata di ieri al Senato.
Senza voler esagerare ciò che è successo ieri al Senato rappresenta certamente una svolta politica rilevante. Se sarà anche una svolta storica dipenderà dagli effetti che avrà sull’assetto politico-istituzionale del Paese. Le novità mi sembrano, tuttavia, rilevanti e proverò ad evidenziarle qui di seguito.
Rottura dello schema leaderistico-populistico
Quello di ieri non è stato solo un passaggio parlamentare che ha sancito la rinnovata fiducia ad uno dei tanti governi della Repubblica, ma l’esemplificazione plastica di come antipolitica e populismo siano insufficienti e totalmente inadeguati quando è necessario misurarsi con problemi politico-istituzionali seri. Per dirla in altre parole è apparso evidente come i partiti personali e del leader non ce la fanno a reggere la sfida della complessità.
Ciò vale per Berlusconi che, dopo avere tentato di derubricare la fronda interna sotto l’epiteto semplicistico e populistico dei “traditori”, ha finito per scoprire di essere politicamente in minoranza nel suo stesso partito, la creatura che per vent’anni, sotto le diverse denominazioni, è stata una sua proprietà personale, i suoi aderenti dei semplici dipendenti.
Ma vale anche per Grillo e le sue truppe sempre più spaesate e confuse che tutto avevano scommesso sullo showdown, pronti ad andare al voto anche con quel porcellum solo a parole vituperato ma assolutamente funzionale alle formazioni politiche populiste e leaderistiche.
Se si vuole avere contezza di ciò si può andare a quanto diceva ieri in TV Daniela Santaché, la quale affermava di aver votato la fiducia a Berlusconi e non a Letta e esprimeva disprezzo per i colleghi di partito “traditori” irriconoscenti al “Caro Leader” che li aveva “nominati” in parlamento.
Lo stessa intolleranza, lo stesso disprezzo dimostrati nei confronti della senatrice Paola De Pin dai suoi colleghi 5 stelle perché colpevole di votare la fiducia in dissenso con il “Leader assente”.
C’è in queste parole tutta l’incapacità di comprendere l’essenza stessa della politica per quella che è, vale a dire la più alta forma di direzione delle cose umane e anche la più complessa.
La politica non si fa dando ordini ma discutendo posizioni diverse e portandole a sintesi se è possibile, oppure scegliendo secondo il principio della maggioranza e della minoranza che è l’essenza stessa della democrazia. Ieri nel PDL è avvenuto quello che fino a solo qualche settimana fa sembrava impossibile: si è sviluppato un vero dibattito politico tra posizioni diverse ed opposte. Il suo leader incontrastato, quello stesso che spesso ha tuonato contro il “teatrino della politica” è stato costretto ad una retromarcia degna dei più consumati “politicanti”.
Lo stesso avverrà quanto prima anche nel Movimento 5 Stelle: è solo questione di tempo.
Perché chi dissente non sempre è uno Scilipoti, un opportunista, un traditore, ma semplicemente uno che discute ed ha deciso di non mandare il proprio cervello all’ammasso.
La paura della DC
Molti hanno paventato nell’asse dei quarantenni Letta-Alfano il “ritorno della DC”.
Francamente non vedo perché dovrebbe fare paura ad ogni sincero democratico la nascita finalmente in Italia di un partito veramente moderato come esistono in tutta Europa e che generalmente fanno riferimento al PPE.
Sarebbe questa l’evoluzione più giusta per correggere l’anomalia populista berlusconiana, che il PPE per realpolitik ha tenuto comunque dentro di sé.
Anzi, e lo dice uno che democristiano non è mai stato, questa evoluzione sarebbe utile anche per completare la transizione del campo progressista, per fare finalmente in Italia un partito che non trova ragione di essere soltanto nel suo essere alternativo al berlusconismo.
Se la fase che si è aperta ieri servirà a far fare passi in avanti a questa evoluzione, ben venga.
Anzi, la sinistra, ora che non ha più l’alibi e la coperta ideologica del “nemico” sotto cui nascondersi, deve essere all’altezza di questa sfida e, come scrive giustamente Peppino Caldarola, deve essere in grado di trovare anche lei il suo “quid”.
Irresponsabili non solo verso il Paese ma anche verso se stessi e chi li ha votati.
Quanto è successo stasera con il ritiro della delegazione PDL dal Governo Letta è l’epilogo di una vicenda che sfugge ad ogni analisi politica.
Atteso che solo ingenui o in malafede possono credere alla motivazione data da Berlusconi per uscire dal Governo Letta (l’IVA aumenta perché Berlusconi ha aperto la crisi, non il contrario) ci troviamo di fronte ad uno scenario assai inquietante.
C’è un uomo, leader ventennale del centrodestra italiano che è stato condannato, a torto o a ragione (non ci interessa dibattere ancora su questo) in maniera comunque definitiva per un reato.
Quest’uomo, a prescindere da Giunte per le elezioni e voti d’aula, il 16 ottobre andrà o ai domiciliari o ai servizi sociali. La sua libertà personale sarà comunque limitata per un periodo abbastanza lungo. In ogni caso, con quella condanna, non potrà ricandidarsi alle elezioni e non potrà per un periodo di tempo anch’esso più o meno lungo, ricoprire cariche pubbliche.
Questa, può piacere o non piacere, è la nuda e cruda realtà. Una realtà che conoscono tutti, a cominciare dall’interessato passando per Alfano, Santachè, Brunetta, Cicchitto e Schifani.
Si può urlare quanto si vuole, dibattersi fino all’inverosimile, agitare lo spettro della persecuzione giudiziaria, ma nulla potrà cambiare questa realtà.
Ora, se è comprensibile che Berlusconi non voglia riconoscerla e magari dia anche di matto incomprensibile è l’atteggiamento dei suoi seguaci.
Questi non solo non si preoccupano di vedere come uscire dalla crisi terribile che il nostro Paese sta attraversando, ma neppure di come continuare a dare agli elettori di centrodestra una rappresentanza anche al di là delle vicende personali del loro leader.
Perché comunque in questo Paese ci dovrà essere un centrodestra che si confronta democraticamente con un centrosinistra, come avviene in tutto il resto del mondo.
Sia che preferiscano la “bella morte” nella ridotta di Arcore, sia che sperino in tardivi ripensamenti di un Capo che non comprendono più o, infine, perché sperano di portarsi a casa qualche pezzo di piccola e improbabile rendita di posizione politico-elettorale, stanno mandando tutto a puttane, compreso se stessi e quello stesso popolo di centrodestra che pure li aveva mandati a rappresentarli e a governare il Paese.
La Resistenza partì dal Sud 27-30 settembre 1943. Le quattro giornate di Napoli
Pubblicato su “L’Ora della Calabria” del 28 settembre 2013, p. 33.
La Resistenza è stata spesso rappresentata come un fenomeno prevalentemente centro-settentrionale per la semplice circostanza che in quell’area geografica si verificarono gli episodi più significativi dello scontro con i fascisti della Repubblica di Salò e l’esercito tedesco di occupazione. Il Sud, invece, non conobbe la lotta partigiana perché occupato in gran parte dalle truppe alleate anglo-americane già nel settembre del 1943, e per la presenza del governo Badoglio e del re Vittorio Emanuele III.
Le settimane che vanno dalla fuga del re e del governo da Roma (8-9 settembre), gli sbarchi alleati a Salerno e a Taranto (9 settembre), la disperata resistenza di reparti dell’esercito italiano in difesa della capitale a Porta San Paolo (10 settembre), la liberazione di Mussolini dalla sua prigione sul Gran Sasso (12 settembre) e la costituzione della Repubblica di Salò (23 settembre), sono state ricordate come quelle in cui “la Patria morì”.
L’8 settembre fu, indubbiamente, il punto più basso della “catastrofe dell’Italia” e delle sue classi dirigenti. La fuga del re e del governo lasciò l’esercito italiano dislocato in Italia e nei vari teatri di guerra senza ordini e direttive, alla mercé dei tedeschi trasformati d’un tratto da alleati in nemici.
Infatti le trattative con gli alleati sbarcati in Sicilia il 10 luglio, avviate subito dopo la caduta di Mussolini (25 luglio), erano state condotte tra mille astuzie e bizantinismi. Vittorio Emanuele III e il primo ministro Pietro Badoglio dimostrarono di non avere alcuna consapevolezza di quanto il fascismo fosse inviso al popolo italiano e di quanto forte fosse il desiderio di porre fino ad una guerra disastrosa in cui la dittatura aveva trascinato un Paese riluttante e impreparato. Si preferì proseguire invece per settimane con la formula “la guerra continua a fianco dell’alleato germanico” senza impedire e addirittura favorendo l’occupazione della Penisola da parte dell’esercito tedesco e soprattutto senza predisporre, una volta firmato l’armistizio (2 settembre), un adeguato piano per difendersi dalla più che prevedibile reazione tedesca.
All’annuncio dell’ armistizio (anche questo proclamato da Badoglio con la formula ipocrita secondo la quale le truppe italiane avrebbero reagito “ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”) lo Stato cessò praticamente di esistere da un momento all’altro. Alla coscienza individuale di ciascun italiano fu lasciata la responsabilità di scegliere. Ci furono così coloro che colsero l’occasione per tornare a casa e altri che invece decisero di assumersi comunque la responsabilità per molti e per tutti, quelle responsabilità da cui il re e il governo erano invece fuggiti. Quelle responsabilità che seppe assumersi, tra i tanti in quei giorni e negli anni successivi, Gennarino Capuozzo di appena 12 anni, uno scugnizzo morto a Napoli il 29 settembre dopo aver tirato una bomba a mano contro un carro armato tedesco.
In questo senso si può dire che le quattro giornate di Napoli rappresentarono il momento della scelta per un’intera popolazione. Ridotta ad un cumulo di macerie dai bombardamenti alleati, occupata dall’esercito tedesco che compiva quotidiani rastrellamenti per il lavoro forzato e la deportazione in Germania di tutti gli uomini validi e degli sbandati delle forze armate italiane, terrorizzata dalle feroci e indiscriminate rappresaglie, Napoli si sollevò come un solo uomo combattendo per quattro lunghe giornate contro un nemico armato ed organizzato e costringendolo ad abbandonare la città. Lo splendido film di Nanni Loy del 1962 (Le quattro giornate di Napoli) rappresenta bene il momento in cui tutti insieme, popolani e borghesi, vecchi e ragazzini, donne ed uomini, ex soldati e persino uomini di Chiesa decisero di ribellarsi e combattere.
La sera del 29 settembre il comandante tedesco di Napoli, il colonnello Walter Schöll, trattò la liberazione dei prigionieri italiani detenuti nello Stadio del Littorio ottenendo in cambio la possibilità di abbandonare la città. L’evacuazione delle truppe tedesche fu completata nella giornata del 30 anche se queste non rispettarono l’impegno a cessare le ostilità continuando a bombardare la città ed a sparare sugli insorti. Il 1 ottobre le truppe alleate entrarono in una città ormai liberata dai soldati tedeschi. Settant’anni fa. Per quanto accaduto tra il 27 ed il 30 settembre 1943 Napoli è medaglia d’oro della Resistenza italiana.
L’epilogo misero e rancoroso del berlusconismo.
Anch’io, come scrive lucidamente oggi Peppino Caldarola, ho sempre pensato che la storia di Berlusconi non possa essere derubricata ad una vicenda criminale e che la maggioranza del popolo italiano non può essere considerata una massa di ingenui o peggio delinquenti che nel principe dei criminali hanno trovato la loro naturale rappresentanza.
Anch’io ho sempre pensato che una sinistra moderna che voglia cambiare davvero le cose e produrre in Italia finalmente quella modernizzazione diventata ormai ineludibile debba rifuggire dalla logica ideologica dello scontro amico/nemico.
Anch’io ho sempre pensato che il berlusconismo è stata qualcosa di più profondo e complesso, che richiede un’analisi più seria di quella che si può esprimere nell’urlo scomposto o nell’invettiva nei talk show o sui social network. E tuttavia questa commedia popolata da nani, ballerine e improbabili comparse in cerca di autore, mi lascia sconcertato.
L’uomo di Arcore sta trascinando inesorabilmente se stesso e il suo partito (e temo anche il Paese) nel vortice di inconcludente rancore in cui evidentemente si dibatte da settimane.
Se ne sta lì, nel chiuso della sua villa, circondato da yesmen e yeswomen che continuano ad adularlo nella speranza di lucrare improbabili rendite di posizione politica o personale o da coloro che comunque non hanno il coraggio di dirgli che sta sbagliando tutto. Entrambi, c’è da star sicuri, girano le dita sulle tempie appena non vede, come si fa con i parenti che hanno perso il senno.
Da qui le ultime mosse: le dimissioni in massa dei parlamentari (ma non dei ministri) consegnate ai capigruppo, le sparate sul golpe, le proposte di occupazione delle Camere…propaganda dettata dal Capo che spera in un qualcosa che non esiste, che il Presidente della Repubblica, anche se volesse, non potrebbe mai concedere.
Il berlusconismo si avvia così ad un declino popolato di miserie e rancori, con l’effetto probabile che proprio quello che si era proclamato di voler realizzare sostenendo il governo Letta, la pacificazione e l’uscita politica da un ventennio fatto di contrapposizione violenta e di danni profondi al Paese, evapori nei vaneggiamenti di un vecchio che non vuole accettare la semplice realtà del tempo che passa.
Un cupio dissolvi popolato dalle facce di Brunetta e Santachè, candidati eredi del nulla.
L’ESSENZA DELL’ANTIPOLITICA
L’essenza dell’antipolitica in fondo è semplice. Preferire ascoltarsi invece che ascoltare e giocare a chi grida più forte chiedendo conto sempre di tutto, soprattutto di ciò di cui non gli importa assolutamente nulla. Antipolitica significa, infatti, nascondersi dietro chi invece si assume le responsabilità prendendosi onori che solo in pochi gli riconosceranno ed oneri di cui in molti chiederanno conto.
I veri riformisti
I parlamentari 5 stelle sono saliti sul tetto di Montecitorio per protestare contro le possibili riforme costituzionali. Singolare che chi ha preso i voti per cambiare tutto oggi protesti per non cambiare niente, neanche la legge elettorale. In realtà sono veri riformisti: dal momento che il Parlamento fa acqua da tutte le parti sono andati ad aggiustare le grondaie.
L’incapacità di Berlusconi a comportarsi da vero leader
Chi ha la bontà di leggere le cose che ogni tanto scrivo sa che rispetto a Berlusconi non ho mai avuto alcun atteggiamento pregiudiziale o ideologico.
Per me resta un avversario politico che va battuto con l’arma della politica, cioè prendendo più voti di lui alle elezioni.
Ho sempre aborrito le scorciatoie giudiziarie e credo anche che, in qualche misura, su di lui un certo accanimento da parte di alcuni settori della magistratura c’è pure stato.
Aggiungo che anche questo è frutto dei suoi macroscopici errori politici. Se in questi anni, infatti, invece di procedere con leggine ad personam suggerite dai suoi avvocati, avesse invece perseguito, per il bene di tutti i cittadini, una profonda riforma della giustizia oggi non si troverebbe nelle condizioni in cui è. E magari tanti cittadini potrebbero oggi avere una giustizia che garantisce tutti, ricchi e poveri, potenti e deboli.
Ma il limite vero di Berlusconi è proprio questo, non sapere guardare oltre il ristretto orizzonte dei suoi interessi personali.
D’altro canto il suo è sempre stato un garantismo peloso, senza se e senza ma per sé e per i suoi, forcaiolo e giustizialista per gli avversari politici e per i poveri cristi.
Comunque oggi è stato condannato con sentenza definitiva. Le sentenze definitive, quando cioè sono stati espletati tutti i gradi di giudizio previsti dal nostro ordinamento nel pieno delle garanzie di uno stato di diritto, possono anche non piacere, si possono anche discutere, ma si devono rispettare. Ciò vale per tutti i cittadini ma vale soprattutto per chi ricopre incarichi politici.
Un vero leader politico che ha davvero a cuore i destini del suo Paese e della sua stessa parte politica dovrebbe, a questo punto, fare la cosa più giusta, mettersi da parte e favorire l’apertura di una nuova fase.
Ma così non è: da settimane si assiste, invece, a questo teatrino attorno al voto in Commissione per la sua decadenza da senatore e alle minacce di ritorsione sul governo Letta.
Si tratta, è bene ribadirlo, di questione alla fine ininfluente sul piano pratico: anche un voto contrario alla sua immediata decadenza non cancellerebbe la condanna e la pena che dovrà comunque scontare e, dopo la riformulazione di quella accessoria da parte della Corte d’Appello di Milano, la stessa questione si ripresenterebbe nei medesimi termini.
Persino l’eventuale ricorso alla Consulta sulla presunta incostituzionalità della retroattività della sentenza sarebbe ininfluente, perché non cancellerebbe né la condanna né la pena accessoria. E comunque Berlusconi, alle prossime elezioni, non è ricandidabile. Se ne facciano una ragione tutti, pitonesse e paggi.
Da parte sua il PD dovrebbe fare come si fa con certi vecchi molesti, che non vogliono proprio saperne di accettare la realtà. Ricorra pure alla Consulta, all’ONU e persino al Consiglio della Galassia. Primo o poi qualcuno troverà il coraggio di dirgli che sta sulle balle proprio a tutti, compresi quelli che gli gridano ancora “forza Silvio”.
La fine di un sogno. Storia di un Italiano di Mario Aloe.
Ho terminato di leggere in questi giorni un breve ma intenso romanzo di un autore di Amantea, Mario Aloe, pubblicato con i tipi delle edizioni Mannarino.
Il romanzo, intitolato La fine di un sogno. Storia di un Italiano, narra la vita di un giovane amanteano vissuto nel passaggio cruciale tra il XVIII ed il XIX secolo, figlio di una famiglia di piccola nobiltà provinciale che, attraverso la intraprendenza commerciale, è riuscita a consolidare una buona posizione economica in una realtà dove spesso i titoli nobiliari erano sinonimi di vita parassitaria sulle scarse rendite fondiarie.
Luigi Baffa, è questo il nome del protagonista, riesce così a studiare a Cosenza al Regio Collegio che Carlo III aveva fondato dopo l’espulsione dei gesuiti dal regno e poi a completare i propri studi a Napoli all’accademia militare della Nunziatella.
Il romanzo mostra come il giovane calabrese incontri, nel clima di rinnovamento che l’arrivo di Carlo III di Borbone era riuscito a instaurare nel regno, l’intellettualità illuminista che, com’è noto, proprio nella capitale del Sud ebbe uno dei suoi centri italiani più fiorenti.
Mario Aloe riesce bene a descriverci il clima politico e culturale di quegli anni, fervido di speranze che il regno di Napoli potesse diventare quella monarchia nazionale in grado di giocare un ruolo di primo piano negli equilibri politici e diplomatici non solo della Penisola ma dell’intera Europa.
Nello stesso tempo ci dà il quadro esatto e accurato storicamente di come fosse la Calabria tra Settecento ed Ottocento: una regione con isole culturali di primordine come Cosenza ma priva di strade praticabili, costellata da paludi malsane e coperta di foreste infestate da briganti che rendevano incerte e sempre pericolose le comunicazioni interne, schiacciata sotto lo strapotere di baroni che sfruttavano una massa di contadini costretti ai livelli minimi di sopravvivenza di una agricoltura poverissima e primitiva.
La questione della terra, dei diritti contadini sulle terre demaniali usurpate da questa classe di nuovi feudatari, la mancanza di legge ed autorità rispettate e la prevalenza dell’arbitrio sul diritto, rappresenta lo sfondo del romanzo il cui intreccio tra vicende individuali (con la presenza di tanti personaggi realmente esistiti, come il fondatore della massoneria in Calabria, l’abate Jerocades, il Salfi, il Toscano, la duchessa di Sanfelice, la Pimentel Fonseca, l’ammiraglio Caracciolo, ecc.) e fatti storici (il terribile terremoto del 1783 e le sue conseguenze, le guerre contro la Francia rivoluzionaria e le armate portate in Italia dal giovanissimo generale Bonaparte, l’effimera e drammatica esperienza della repubblica partenopea del 1799 spazzata via dalle masse sanfediste del Cardinale Ruffo, l’eroico episodio del forte della Vigliena in cui i calabresi della Legione Calabra comandati dal cosentino Antonio Toscano preferirono farsi saltare in aria pur di non cedere alla restaurazione assolutista borbonica, ecc.) e ne sono, a mio parere, l’elemento più interessante e significativo.
Si aggiungano le straordinarie descrizioni dei luoghi e dei costumi e ne viene fuori un romanzo che vale la pena di leggere e far conoscere.
Un romanzo storico che, e ciò va a merito dell’autore, ci riporta un quadro realistico e verosimile di come, agli albori del nostro Risorgimento nazionale, una intera generazione imparò, anche a costo della propria vita, ad essere italiana ed europea.
Una generazione che i Borbone di Napoli prima incoraggiarono sulla strada del rinnovamento e della modernizzazione e poi, come maldestri apprendisti stregoni, non riuscirono più a controllare mandandola al patibolo senza alcuna remora e pietà.
Prevalsero in quella casa regnante, come in tante altre in tutta Europa, i propri ristretti interessi dinastici.
Per quella generazione un’occasione perduta, la fine di un sogno per il quale bisognerà attendere ancora altri sessant’anni e a vantaggio di un’altra dinastia, quella subalpina dei Savoia.
Per i Borbone, come per altre dinastie italiane ed europee, la perdita dei regni e del potere e l’oblio della storia.
Una ricostruzione quella di Mario Aloe, lasciatemelo dire, che fa giustizia di tante altre, parziali ed esplicitamente revisioniste, che ci descrivono un Regno delle Due Sicilie come un esempio di buona amministrazione per popolazioni ricche e felici almeno fino all’arrivo dei cattivi “piemontesi”.
La storia, nella sua drammaticità, ci parla invece di un Sud e di una Calabria pronti a recepire le grandi idee di cambiamento del mondo ma anche di classi dirigenti miopi e grette, incapaci di guardare al di là dei propri ristrettissimi interessi di classe, di popolazioni contadine disperate nella loro richiesta di terra e migliori condizioni di vita e di lavoro e costrette spesso alla tragica ed individuale rivolta della vita alla macchia come briganti e anche in questa condizione, spesso ingannate nella difesa di interessi non propri.
Un bel libro, dunque, di cui mi sento di consigliare la lettura.