Italia

L’utilità di saper tacere…

Liberazione 1954-2015

“Passeggiando” tra post e commenti dedicati al 25 aprile se ne possono individuare quattro “tipi”.

Il primo, il più corretto e per fortuna maggioritario, quello che cerca di cogliere il senso di una Festa che, grazie anche all’evoluzione del dibattito politico e storiografico, ha cessato di essere una celebrazione di parte (se mai lo è stata) per assumere il valore di un momento di generale riflessione sulla libertà e la democrazia come patrimonio di tutti.

Poi c’è il secondo “tipo”, quello che definirei scettico a tutti i costi, che cerca di sminuire il valore delle celebrazioni tacciandole come retoriche e rituali. Costoro, spesso gli stessi che con grande provincialismo indicano i limiti del nostro Paese proprio nel non Continua a leggere

Leggere l’astensionismo

Astensionismo

Sull’astensionismo che si è manifestato domenica scorsa credo che si debba rifuggire da analisi frettolose e superficiali.

Diciamo subito che in Italia l’astensionismo fa molto più notizia.

Nel nostro Paese, infatti, la partecipazione politica è sempre stata più alta sia rispetto al resto dell’Europa che degli USA.

Ma in quei paesi la politica è vissuta in genere con maggiore distacco senza che questo si traduca in forme di rifiuto delle istituzioni democratiche.

In Italia il calo progressivo dei votanti va avanti da più anni.

Domenica scorsa hanno inciso diversi fattori di carattere generale: il voto fuori da un turno nazionale e quindi scarsa attenzione dei media e la disaffezione verso la politica che viene percepita sempre più come incapace di risolvere i problemi della gente.

Accanto a questi ce ne sono di particolari, come il crollo del centrodestra e la stessa crisi dei M5S.
I loro elettori sono frastornati: i primi non ne possono più di una vicenda politica tutta avvitata attorno ai destini di Berlusconi i secondi sono delusi dalla assoluta inconcludenza di una forza politica che, pur avendo eletto 140 parlamentari, non riesce a cavare il classico ragno dal buco.

Questo dato ha pesato soprattutto in Calabria, dove la tradizione astensionista si è sommata alla debolezza della proposta politica del centrodestra e dei cinque stelle. Accanto a ciò un diffuso sentimento di sfiducia che ha accompagnato queste elezioni regionali non solo nei confronti della classe politica ma della stessa speranza che le istituzioni democratiche possano essere in grado di risolvere i problemi di questa terra. Un sentimento pericoloso, i cui esiti, comprendiamolo bene, non potranno certamente essere forieri di “magnifiche sorti e progressive”, ma di un ulteriore degrado della vita pubblica.

A questo pericolo dovrà dare una risposta la sinistra calabrese, oggi chiamata a responsabilità di governo.

Giovanni Giolitti, un vero statista.

Giovanni Giolitti

Il 17 luglio del 1928 moriva all’età di 86 anni Giovanni Giolitti, uno dei pochi grandi statisti italiani.

Dico pochi, perché l’Italia non ha avuto grandi uomini di Stato: facendo uno sforzo enumerativo non riempiono le dita di una mano: Cavour, lo stesso Giolitti, De Gasperi, in qualche modo Bettino Craxi.

Per altri l’esperienza di governo è stata troppo breve o segnata dall’appartenenza a forze politiche di opposizione o minoritarie (penso a Nenni o allo stesso Togliatti).

Giovanni Giolitti fu, pienamente, un uomo di Stato e di governo.

Giolitti riteneva che l’Italia non avrebbe mai potuto diventare un paese moderno e pienamente inserito nel contesto delle grandi potenze europee del tempo, se non avesse allargato le basi della democrazia, condizione necessaria per lo sviluppo economico e sociale.

Pensava, giustamente, che non ci può essere sviluppo economico senza consenso e senza che a goderne siano tutte le classi sociali.

Era un liberale puro, che individuava nel Parlamento l’unico luogo dove i diversi e spesso contrastanti interessi della società italiana potessero trovare rappresentanza e risposte.

Credeva, in buona sostanza, nella centralità della politica e per questo fu il principale bersaglio delle spinte antipolitiche e irrazionaliste che cominciarono a pervadere la società italiana nel primo decennio del Novecento.

Contro Giolitti ed il giolittismo fu scatenata una vera e propria guerra che riecheggia molte parole d’ordine di oggi: nuovo contro vecchio, politicanti contro popolo (casta e anticasta), piazza contro Parlamento, ecc..

L’Italia antigiolittiana porterà il paese in una guerra sanguinosa e disastrosa e, poi, nel disordine politico e sociale propedeutico all’avvento della dittatura fascista.

Giolitti, dopo un iniziale riconoscimento del Governo di Benito Mussolini (che lo considererà, a ragione, il suo principale avversario politico) si ritirerà a vita privata in un atteggiamento di sempre maggiore ostilità nei confronti del regime che lo sottoporrà ad un’occhiuta vigilanza.

Questo riconoscimento non deve sorprendere in un uomo che aveva fatto del rispetto delle istituzioni e del re un imperativo categorico, arrivando persino a “caricarsi”, lui incolpevole, le responsabilità politiche dello scandalo della Banca romana per evitare che Monarchia e vecchie classi dirigenti liberali ne venissero travolte.

Qualcuno ha detto che i grandi uomini sono tali persino nelle loro contraddizioni: Giovanni Giolitti, anche in questo, non fu un’eccezione.

La verità sulla demonizzazione delle preferenze

liste-bloccate

L’autore di Indignatevi !, Stéphane Hessel,  poco prima di morire l’anno scorso scriveva che “l’attuale sistema dei partiti è in crisi, in Spagna come in altri Paesi. la gente non si fida dei partiti minati dagli scandali, dalla corruzione, e diretti da pesanti apparati che si preoccupano più della propria sopravvivenza politica e della spartizione di quote di potere che non di cambiare davvero le cose. Il sistema elettorale, soffocato in Spagna dal meccanismo delle liste chiuse e bloccate, impedisce il rinnovamento necessario“.

stephane_hessel_elmundo_com-1

Questo passo, tratto dalla sua ultima opera Non arrendetevi ! e che rappresenta un vero e proprio appello al rinnovamento della democrazia e il tentativo di dare una risposta alla crisi della politica e delle istituzioni in Europa (crisi che in Spagna è stata interpretata dal movimento degli indignados che proprio negli scritti di Hessel aveva cercato una base teorica), mi è tornato in mente in questi giorni in cui si discute di legge elettorale in Italia e soprattutto di preferenze si o no.

Il grande provincialismo della politica italiana, dopo l’obbrobrio del porcellum, non è riuscito a far altro che proporre l’imitazione di un sistema elettorale che, dove è applicato, la Spagna, è sottoposto a forte critica e contestazione e addirittura additato come responsabile primo della crisi politico-istituzionale. Insomma, rischiamo di prenderci un vestito che altrove non vedono l’ora di togliersi di dosso.

Il fantasma delle liste bloccate è tornato dunque ad aleggiare nel dibattito politico. Per giustificare ciò si sta riproponendo tutto il vecchio armamentario ideologico contro le preferenze, il sistema con il quale, tradizionalmente, in Italia gli elettori hanno sempre scelto i propri rappresentanti in presenza di liste plurinominali.

Le accuse più frequenti sono: 1) le preferenze esistono solo in Italia, 2) sono generatrici di corruzione perché comportano eccessive spese elettorali, 3) comportano una eccessiva personalizzazione della politica. Ma è tutto vero ? Proviamo a rispondere.

1) Le preferenze esistono solo in Italia. Mica vero. Proprio in Spagna la parte elettiva del Senato spagnolo è eletto con il meccanismo del voto limitato, vale a dire se i candidati in un collegio sono 4 se ne possono votare solo 3, se sono 3 solo due e così via. Meccanismi analoghi sono previsti per la selezione di candidati in liste plurinominali in altri sistemi elettorali (alcuni prevedono anche il voto di candidati di liste diverse) fino al sistema elettorale usato, per esempio, in Australia dove gli elettori sulla scheda trovano una lista di candidati con a fianco degli spazi sui quali scrivono con numeri l’ordine con il quale desiderano siano eletti i deputati di quella circoscrizione. Insomma, delle preferenze.

2) Le preferenze sono generatrici di corruzione perché comportano eccessive spese elettorali. Premesso che a commettere i reati sono le persone e non le leggi, tali difetti possono essere facilmente risolti con l’applicazione più stringente delle norme sui tetti di spesa consentiti e limitando l’ampiezza delle circoscrizioni elettorali. D’altro canto non mi pare che, con le liste bloccate, si sia contribuito poi in maniera così incisiva alla moralizzazione delle istituzioni parlamentari dal momento che persone accusate di essere corrotte o addirittura colluse con organizzazioni criminali hanno continuato ad farvi il loro ingresso e forse in maniera anche più semplice. I Batman, dunque, non sono figli delle preferenze ma della cattiva politica, che trova sempre il modo di farsi eleggere a prescindere dal sistema elettorale vigente.

3) Comportano una eccessiva personalizzazione della politica. Una critica francamente incomprensibile in tempi in cui la personalizzazione della politica è diventata regola e non eccezione, soprattutto in una fase storica in cui i partiti hanno perso il ruolo di organizzatori di interessi collettivi in nome di grandi valori ideali. Anche qui, dunque, fermare la propria attenzione ai soli meccanismi elettorali (senza contare che ce ne sono altri ancora più basati sulla personalizzazione, pensiamo ai collegi uninominali) significa scambiare l’effetto con la causa.

Sulla base di queste considerazioni e premesso che nessun sistema è esente da difetti, mi pare evidente che molte di queste critiche, in realtà, sono strumentali alla difesa del meccanismo delle liste bloccate che, a sua volta, è funzionale alla garanzia di ristrette nomenclature.

Insistere nel voler mantenere le liste bloccate, dunque, non solo significa andare contro la volontà della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica italiana (oltre il 65% non le vuole più e chiede o i collegi uninominali o le preferenze secondo un recente sondaggio Ipsos) ma anche ostinarsi a non comprendere che gran parte della contestazione che oggi investe la politica è il frutto del vero e proprio rifiuto e rigetto nei confronti di un parlamento fatto da “nominati”.

In Italia, del resto, solo in due momenti storici si è fatto ricorso a liste bloccate e gli italiani non hanno potuto scegliere i propri rappresentanti: durante il fascismo (che poi il parlamento finì per abolirlo del tutto) e con il porcellum che, statene certi, se non fosse stato”cassato” dalla Consulta, starebbe ancora tutto in piedi e in mano dei ristrettissimi gruppi dirigenti di partiti sempre più chiusi e autoreferenziali.

PS. Ultima questione di cui si parla: le primarie. Si dice che per far scegliere i cittadini siano sufficienti le primarie. Benissimo, come essere contrari ? A condizione, però che siano imposte per legge a tutti i partiti. Le leggi sono sempre erga omnes. In Germania, ad esempio, dove esistono le liste bloccate, i candidati sono selezionati dai partiti con una sorta di “primaria” che si svolge alla presenza di funzionari dello Stato. Può essere una strada, che deve però partire dal presupposto che i partiti italiani, come in gran parte d’Europa e del mondo democratico siano “costituzionalizzati” fino in fondo e sottoposti ad una legge che ne regoli, almeno in grandi linee, anche la vita interna e gli obblighi nei confronti dei propri aderenti. Si può fare ? Certamente, anche se resta da capire perché darsi tanta pena (ed aumentare anche i costi a carico dello Stato) per organizzare due momenti elettorali per dare al cittadino un possibilità di scelta dei candidati per garantire la quale è sufficiente consentire l’espressione di preferenze sulla scheda.

11 settembre 1973. Quarant’anni dal golpe cileno.

Salvador Allende

L’11 settembre 1973 i militari cileni attaccarono il Palazzo della Moneda a Santiago e rovesciarono con un golpe il governo democratico del Presidente Salvador Allende.

Salvador Allende, socialista a capo di una coalizione di sinistra denominata Unidad Popular, morì difendendo il palazzo presidenziale, probabilmente suicida.

A capo del golpe c’era il generale Augusto Pinochet, che rimarrà al potere fino al 1988, travolto da un referendum popolare da lui stesso voluto con l’intenzione di confermare plebiscitariamente il suo regime.

La sua dittatura, sostenuta dagli USA di Richard Nixon nel clima della contrapposizione della guerra fredda, fu una delle più feroci della storia, con migliaia di arresti, omicidi di massa, persecuzioni, esili.

Oppositori politici rinchiusi nello stadio di SantiagoIl Palazzo del governo, la Moneda, bombardato

Il Cile, paese di tradizioni democratiche, fu proiettato nella spirale delle dittature che, tra gli anni ’60 e ’70, oppressero il Sudamerica in nome della difesa da una inesistente minaccia comunista.

La guerra fredda fece il resto, facendo prosperare in quel continente una pattuglia di tiranni sanguinari e corrotti sotto la protezione degli USA.

La vicenda del Cile ebbe, inoltre, una grande influenza sulla sinistra italiana: se la vittoria di Allende del 1970 aveva incoraggiato la speranza che un’alleanza social-comunista potesse vincere le elezioni e governare un paese democratico senza dover ricorrere ad una rivoluzione violenta, il golpe del 1973 ebbe, invece, l’effetto di uno shock.

Da una parte confermò la sfiducia di una parte della sinistra nelle cosiddette istituzioni “borghesi” spingendola verso la deriva estremista e addirittura eversiva che alimenterà le file del terrorismo, dall’altra convinse il segretario del PCI Enrico Berlinguer a impostare la strategia del compromesso storico, cioè un’alleanza vasta di forze politiche anche non di sinistra per riformare la democrazia, partendo dall’assunto che con il 51% non si governa.

Molti critici hanno inteso mettere in discussione soprattutto questo aspetto della politica berlingueriana, che proprio dalla tragica vicenda del golpe cileno trasse gran parte della sua elaborazione.

La strategia del compromesso storico non produsse effetti positivi sull’evoluzione della sinistra italiana, approfondì, anzi, la distanza tra PSI e PCI spingendo il primo sulla strada di un esasperato autonomismo e di una collocazione praticamente permanente nell’orbita di alleanze della DC.

Inoltre, per ammissione dello stesso Berlinguer, non si verificò neppure quella profonda riforma del Paese e del suo sistema politico ed istituzionale italiano di cui si avvertiva la necessità già a metà degli anni ’70.

Il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, che dalla sponda DC più aveva spinto in direzione dell’incontro con il PCI, ne segnò, drammaticamente la fine.

Di certo, tuttavia, i fatti del Cile ebbero l’effetto di rafforzare in Italia la convinzione che un’uscita dal sistema democratico sarebbe stato disastroso per tutti, moderati e progressisti.

Ecco perché credo valga la pena ricordarli ancora oggi a distanza di quarant’anni, quale monito a considerare la democrazia il bene più prezioso che non bisogna mai cessare di difendere.

La fine di un sogno. Storia di un Italiano di Mario Aloe.

La copertina del libro di Mario Aloe: La Fine di un Sogno. Storia di un Italiano

La copertina del libro di Mario Aloe: La Fine di un Sogno. Storia di un Italiano

Ho terminato di leggere in questi giorni un breve ma intenso romanzo di un autore di Amantea, Mario Aloe, pubblicato con i tipi delle edizioni Mannarino.

Il romanzo, intitolato La fine di un sogno. Storia di un Italiano, narra la vita di un giovane amanteano vissuto nel passaggio cruciale tra il XVIII ed il XIX secolo, figlio di una famiglia di piccola nobiltà provinciale che, attraverso la intraprendenza commerciale, è riuscita a consolidare una buona posizione economica in una realtà dove spesso i titoli nobiliari erano sinonimi di vita parassitaria sulle scarse rendite fondiarie.

Luigi Baffa, è questo il nome del protagonista, riesce così a studiare a Cosenza al Regio Collegio che Carlo III aveva fondato dopo l’espulsione dei gesuiti dal regno e poi a completare i propri studi a Napoli all’accademia militare della Nunziatella.

Il romanzo mostra come il giovane calabrese incontri, nel clima di rinnovamento che l’arrivo di Carlo III di Borbone era riuscito a instaurare nel regno, l’intellettualità illuminista che, com’è noto, proprio nella capitale del Sud ebbe uno dei suoi centri italiani più fiorenti.

Mario Aloe riesce bene a descriverci il clima politico e culturale di quegli anni, fervido di speranze che il regno di Napoli potesse diventare quella monarchia nazionale in grado di giocare un ruolo di primo piano negli equilibri politici e diplomatici non solo della Penisola ma dell’intera Europa.

Nello stesso tempo ci dà il quadro esatto e accurato storicamente di come fosse la Calabria tra Settecento ed Ottocento: una regione con isole culturali di primordine come Cosenza ma priva di strade praticabili, costellata da paludi malsane e coperta di foreste infestate da briganti che rendevano incerte e sempre pericolose le comunicazioni interne, schiacciata sotto lo strapotere di baroni che sfruttavano una massa di contadini costretti ai livelli minimi di sopravvivenza di una agricoltura poverissima e primitiva.

La questione della terra, dei diritti contadini sulle terre demaniali usurpate da questa classe di nuovi feudatari, la mancanza di legge ed autorità rispettate e la prevalenza dell’arbitrio sul diritto, rappresenta lo sfondo del romanzo il cui intreccio tra vicende individuali (con la presenza di tanti personaggi realmente esistiti, come il fondatore della massoneria in Calabria, l’abate Jerocades, il Salfi, il Toscano, la duchessa di Sanfelice, la Pimentel Fonseca, l’ammiraglio Caracciolo, ecc.) e fatti storici (il terribile terremoto del 1783 e le sue conseguenze, le guerre contro la Francia rivoluzionaria e le armate portate in Italia dal giovanissimo generale Bonaparte, l’effimera e drammatica esperienza della repubblica partenopea del 1799 spazzata via dalle masse sanfediste del Cardinale Ruffo, l’eroico episodio del forte della Vigliena in cui i calabresi della Legione Calabra comandati dal cosentino Antonio Toscano preferirono farsi saltare in aria pur di non cedere alla restaurazione assolutista borbonica, ecc.) e ne sono, a mio parere, l’elemento più interessante e significativo.

La Bandiera della Repubblica Partenopea del 1799

La Bandiera della Repubblica Partenopea del 1799

Si aggiungano le straordinarie descrizioni dei luoghi e dei costumi e ne viene fuori un romanzo che vale la pena di leggere e far conoscere.

Un romanzo storico che, e ciò va a merito dell’autore, ci riporta un quadro realistico e verosimile di come, agli albori del nostro Risorgimento nazionale, una intera generazione imparò, anche a costo della propria vita, ad essere italiana ed europea.

Una generazione che i Borbone di Napoli prima incoraggiarono sulla strada del rinnovamento e della modernizzazione e poi, come maldestri apprendisti stregoni, non riuscirono più a controllare mandandola al patibolo senza alcuna remora e pietà.

Prevalsero in quella casa regnante, come in tante altre in tutta Europa, i propri ristretti interessi dinastici.

Per quella generazione un’occasione perduta, la fine di un sogno per il quale bisognerà attendere ancora altri sessant’anni e a vantaggio di un’altra dinastia, quella subalpina dei Savoia.

Per i Borbone, come per altre dinastie italiane ed europee, la perdita dei regni e del potere e l’oblio della storia.

Una ricostruzione quella di Mario Aloe, lasciatemelo dire, che fa giustizia di tante altre, parziali ed esplicitamente revisioniste, che ci descrivono un Regno delle Due Sicilie come un esempio di buona amministrazione per popolazioni ricche e felici almeno fino all’arrivo dei cattivi “piemontesi”.

La storia, nella sua drammaticità, ci parla invece di un Sud e di una Calabria pronti a recepire le grandi idee di cambiamento del mondo ma anche di classi dirigenti miopi e grette, incapaci di guardare al di là dei propri ristrettissimi interessi di classe, di popolazioni contadine disperate nella loro richiesta di terra e migliori condizioni di vita e di lavoro e costrette spesso alla tragica ed individuale rivolta della vita alla macchia come briganti e anche in questa condizione, spesso ingannate nella difesa di interessi non propri.

Un bel libro, dunque, di cui mi sento di consigliare la lettura.

Il Monumento ai martiri del 1799 a Napoli

Il Monumento ai martiri del 1799 a Napoli

 

SE QUALCUNO DICE “TORNIAMO ALLA LIRA” CHIAMO LA NEURO…

Lira euro

Tra le tante emerite stupidaggini che si leggono qui e là da parte di gente che gioca a chi la spara più grossa c’è, in queste ore, l’idea che la Grecia potrebbe uscire dall’euro senza grandi contraccolpi, anzi guadagnandoci.
Non c’è bisogno di essere economisti per capire che, se la Grecia dopo le elezioni di giugno, dovesse decidere di uscire dall’euro e tornare alla dracma sarebbe un disastro soprattutto per i greci, per tutta una serie di ragioni:
1. fuga di capitali. E’ bastata la sola notizia del fallimento delle trattative per un governo che onorasse gli impegni europei della Grecia per provocare l’uscita da quel paese di 700 milioni di euro. Non soltanto i soliti cattivi speculatori che mettono al sicuro i soldi ma anche gente semplice, piccoli risparmiatori preoccupati che il ritorno alla dracma svaluti i propri conti. Sono infatti già pronte per essere varate misure che impediscano prelievi dai conti superiori alle 50-100 euro giornalieri, giusto per le necessità quotidiane.
2. Mancanza di liquidità. Il 1 luglio lo Stato greco non avrà più i soldi per pagare stipendi e pensioni e sarà difficile che possa ottenere prestiti avendo rifiutato di onorare gli impegni assunti in precedenza per la semplice ragione di economia elementare che nessuno presta soldi a chi non è palesemente in grado di poterli restituire, anche in un futuro lontano.
3. Necessità di stampare nuova moneta. Tornare alla dracma significherà, per una semplice ragione pratica, stampare nuova carta moneta con un valore nominale di 1 dracma-1 euro, con la stessa tiratura di moneta metallica e moneta cartacea, anche per non dovere aggiornare tutti i programmi delle banche, dei bancomat, dei registratori di cassa, ecc.. Una operazione costosa di per sé. In caso di uscita dall’euro un venerdì sarà messa in circolo la nuova moneta che il lunedì successivo varrà, se va bene, il 30% in meno (alcuni stimano addirittura il 60%). Le conseguenze sull’inflazione, l’aumento dei prezzi e la perdita del potere di acquisto di salari, stipendi e pensioni sono facilmente intuibili.
4. Importazioni. Il costo delle merci e delle risorse che la Grecia importa (molte) crescerebbe all’improvviso in proporzione alla svalutazione della moneta e anche più con evidenti effetti sull’aumento generalizzato dei prezzi (e quindi ancora più inflazione).
5. Esportazioni. Le esportazioni, poche, in verità, della Grecia, ci guadagneranno, sempre che le imprese greche riescano a sopravvivere al fallimento delle banche ed al generale aumento dei prezzi (cosa assai improbabile visto il contesto). Qualche effetto positivo, ma evidentemente assai limitato, si potrà avere nel turismo, sempre che la tensione sociale che inevitabilmente esploderà in quel paese a causa dell’aggravarsi della crisi economica non scoraggi anche questa possibilità.
Insomma, questo è lo scenario che si prepara per i greci. Se qualcuno lo propone anche per l’Italia io personalmente chiamo la neuro…e voi ?

 

Commenti
    Archivio