Archivi del mese: novembre 2010
Volevano candidare Angelo Vassallo alla Camera, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra, Veltroni e Bettini lo ignorarono.
In un articolo pubblicato oggi su il Venerdì di Repubblica, si apprende che nel 2008 il PD di Pollica aveva scritto a Veltroni e Bettini per proporre la candidatura del sindaco Angelo Vassallo, alla Camera.
In quell’occasione i dirigenti democratici di Pollica non ebbero neanche la “confidenza” di una risposta. Pare che il Sindaco, all’oscuro dell’iniziativa assunta dai suoi amici si arrabbiò moltissimo con loro quando venne a saperlo e ci rimase ancora più male sapendo che essa non aveva avuto alcun riscontro.
In verità in quei mesi le liste venivano gestite come un “casting” per usare l’espressione di Matteo Renzi (mettiamo l’operaio, l’imprenditore, il giovane, lo scrittore…) e in Campania si scatenò la battaglia contro Bassolino e contro De Mita, il “vecchio” che aveva la pretesa di ricandidarsi con il PD (finendo poi parlamentare europeo con l’UDC).
Si inseguì la candidatura di Roberto Saviano che rifiutò parlando di un PD altrettanto camorrista del PDL…ma questa è storia.
L’episodio però deve farci riflettere al di là del merito della vicenda. Il povero Vassallo, un sindaco che nella Campania dell’emergenza rifiuti aveva realizzato uno dei comuni più avanzati dal punto di vista dell’ecosostenibilità e anche per questo inviso alle organizzazioni criminali che ordinarono la sua brutale eliminazione, non fu candidato nonostante avrebbe potuto dare molto al PD e al Centrosinistra.
Al suo funerale c’erano tutti, anche coloro che all’epoca non lo degnarono neanche di una risposta, a piangerlo, giustamente, e ad indicarlo come esempio di una buona amministrazione possibile anche nel Sud e come coerente testimonianza di lotta alla criminalità.
Non c’è in questo mio dire un giudizio di valore: solo l’amara constatazione che il Sud non è tutto “Gomorra” e che forse un atteggiamento meno “liquidatorio” su quanto esprime la politica del Mezzogiorno avrebbe consentito di valorizzare.
Un problema di approccio, quindi, che continua ad essere condizionato da pregiudizi e preconcetti, che non aiuta nella lotta contro i mali del Sud, a partire dalla criminalità organizzata. Ma è anche un problema, grande quanto una casa, di democrazia. Se ci fosse stata un’altra legge elettorale probabilmente Vassallo sarebbe stato in Parlamento a portare la sua esperienza in un contesto nazionale, meglio di tanti altri che sono stati “nominati” secondo il criterio della fedeltà ai gruppi dirigenti nazionali.
Dico di più, forse sarebbero bastate anche le primarie per farlo candidare e dare un contributo positivo ad una campagna elettorale difficile.
Questo episodio è la prova drammatica, che fermo restando questa legge, i parlamentari non possono più essere nominati né indicati attraverso “casting”, ma scelti dai cittadini attraverso le primarie.
SLOGAN PER UNA BATTAGLIA DEMOCRATICA AL SUD
Sta facendo molto discutere l’iniziativa assunta da Piero Sansonetti di mettere in campo lo slogan Boia chi Molla per definire la sua battaglia che, in qualità di Direttore di “Calabria Ora”, sta conducendo per affermare le ragioni del Sud e della Calabria al di là di una certa impostazione mediatica che, anche “da sinistra”, tende a porli sotto la luce della sola “emergenza criminale”.
La coraggiosa battaglia di Sansonetti per ridefinire i termini di una questione politica che pone il Mezzogiorno e la Calabria rappresentandolo solo o prevalentemente come “Gomorra” è stato sintetizzato con uno slogan che nella nostra regione evoca, essenzialmente, la rivolta di Reggio Calabria e l’egemonia che seppero conquistarvi i neofascisti di Ciccio Franco.
Sansonetti ha spiegato bene l’origine di quello slogan che è tutt’altro che legato alla storia della destra italiana: campeggiava nelle manifestazioni della repubblica partenopea e nelle riflessioni di una donna straordinaria come Eleonora De Fonseca Pimentel, prima intellettuale-giornalista del Mezzogiorno. Lo stesso slogan fu utilizzato da Giustizia e Libertà, la formazione di due illustri vittime del fascismo, i fratelli Rosselli.
D’altro canto non è la prima volta che la destra si impossessa di slogan e simboli della sinistra per piegarli alle sue impostazioni ideologiche. Come dimenticare, ad esempio, che Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà durante la guerra era una formazione antifascista e partigiana, mentre nel 1972 il nome Fronte della Gioventù fu assunto dall’organizzazione giovanile neofascista del MSI !
Lo slogan Boia chi Molla potrà anche non piacere ma il suo significato originario era legato alla lotta contro l’assolutismo e l’autoritarismo per la libertà e l’uguaglianza dei cittadini.
Durante la repubblica napoletana si utilizzava quello slogan danzando la Carmagnole sotto gli Alberi della Libertà che furono innalzati un po’ dovunque nelle città del Mezzogiorno (a Cosenza di fronte Palazzo Arnone, il Palazzo di Giustizia e sede dell’Intendenza, simbolo stesso del dispotismo borbonico come la Bastiglia a Parigi, e all’ingresso della città, a Portapiana) per affermare la lotta senza quartiere nei confronti dell’assolutismo, contro l’uso della tortura e della pena di morte stigmatizzati da Cesare Beccaria nei suoi Delitti e delle Pene (1763).
Si voleva costruire, insomma, una società di liberi e di eguali, senza più tiranni e senza il loro braccio più odioso, i boia appunto, affermare il principio della separazione dei poteri e quello della ragione e della tolleranza che oggi sono alle basi della democrazia moderna.
Purtroppo, come spesso accade, anche certa riflessione che ama definirsi “di sinistra” (e soprattutto quella sul Mezzogiorno) si ferma in superficie, non ha il coraggio di andare oltre la pigrizia degli schemi precostituiti, dei pregiudizi.
L’iniziativa di Sansonetti avrà anche il sapore della provocazione, che per un giornalista è spesso il sale della vita, ma è tutt’altro che infondata storicamente e non può essere archiviata senza un minimo di ragionamento politico sul merito delle questioni che pone.
Personalmente trovo lo slogan un po’ troppo forte, ma se serve a far discutere della Calabria in termini nuovi, ben venga.
Ricordando le ultime parole di Eleonora De Fonseca Pimentel sul patibolo, dopo aver subito umilianti torture e mentre i lazzari scatenati dalla reazione borbonica la ingiuriavano e le sputavano addosso, Forsan et haec olim memisse juvabit (Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo), facciamo in modo che quel giorno sia oggi.
Chi era Eleonora Fonseca Pimentel e perché bisogna imitarne l’esempio in questi tempi di giustizialisti neoborbonici
Nata da famiglia portoghese a Roma il 13 agosto del 1752, Eleonora De Fonseca Pimentel (poi Eleonora Fonseca Pimentel) dimostrò sin dall’infanzia intelligenza precoce e propensione negli studi letterari. Poliglotta e appassionata di poesia fu avviata dalla famiglia nel 1778 al matrimonio con un capitano dell’esercito napoletano, Pasquale Tria De Solis da cui ebbe un figlio, Francesco, morto in tenerissima età.
Il contrasto tra due caratteri completamente diversi portò al fallimento del matrimonio nel 1786. La coppia si separò dopo che una seconda gravidanza di Eleonora fu interrotta a causa delle percosse subite dal marito (che morirà nel 1795).
L’arrivo alla corte di Napoli della regina Maria Carolina d’Asburgo, figlia della grande Maria Teresa e sorella della regina di Francia Maria Antonietta portò a Napoli una ventata di novità e di apertura alle nuove idee illuministe.
La regina, entrata in virtù di un accordo prematrimoniale con il re Ferdinando VII di Borbone nel Consiglio della Corona, cominciò a circondarsi di intellettuali e protagonisti dell’illuminismo napoletano, tra cui la stessa Eleonora, che divenne intima della sovrana.
Il precipitare della situazione politica in Francia con lo scoppio della rivoluzione (14 luglio 1789) spostò progressivamente la pur aperta ed intelligente Maria Carolina su posizioni reazionarie e alla rottura con i circoli illuministi di Napoli che invece della rivoluzione francese erano divenuti aperti sostenitori. L’esecuzione di Maria Antonietta a Parigi il 16 ottobre del 1793, fece precipitare la situazione con l’adesione del Regno di Napoli alla Prima Coalizione contro la Francia rivoluzionaria.
Eleonora, che era diventata curatrice della Biblioteca della regina, ruppe con la sovrana e divenne una delle protagoniste dei circoli “giacobini” napoletani arrivando perfino ad eliminare il “de” dal suo cognome per segnare il suo distacco dai titoli nobiliari.
Quando nel novembre del 1798 una maldestra offensiva dell’esercito napoletano contro la neonata repubblica giacobina di Roma provocò l’invasione del regno di Napoli da parte delle (a dire il vero assai scarse) truppe francesi del generale Championnet, la Corte abbandonò la capitale a bordo delle navi inglesi di Orazio Nelson alla volta di Palermo, i rivoluzionari napoletani si impossessarono del potere e proclamarono la Repubblica Partenopea. Eleonora divenne subito una delle personalità più eminenti della repubblica dirigendone l’organo ufficiale, il Monitore Napoletano (che uscì dal 2 febbraio all’8 giugno del 1799 in 35 numeri quindicinali).
Il fatto che la “voce” ufficiale della repubblica fosse diretto da una donna era esso stesso il segno di una vera e propria rottura con l’Ancien Régime e suscitò discussioni anche nei “maschilisti” circoli giacobini del regno.
Facevano discutere anche i toni degli articoli di Eleonora (firmati spesso con la sigla EFP) profondamente intrisi di radicalismo rivoluzionario e di profondo spirito egualitario. Eleonora si fece promotrice dell’esigenza di educare il popolo alle nuove idee, proponendo leggi per combattere l’analfabetismo e per l’istruzione pubblica, per la quale si impegnò direttamente con conferenze nella Sala d’Istruzione Pubblica istituita a Napoli.
Divenne così il principale obiettivo polemico dei circoli conservatori e il nemico numero uno della Corte in esilio a Palermo. Il re e la regina la apostrofavano come “meretrice” degli usurpatori, i lazzari e i sanfedisti le dedicavano canzoni ingiuriose.
Quando le truppe sanfediste entrarono a Napoli il 13 giugno del 1799 Eleonora si era rifugiata con gli altri rivoluzionari nel forte di Sant’Elmo, ottenendo in cambio della resa la possibilità di abbandonare il regno con le truppe francesi.
L’accordo sottoscritto con il Cardinale Ruffo, che vi aveva impegnato la sua parola d’onore, fu però disatteso dalla corte e da Orazio Nelson, e i “ribelli” napoletani furono tutti arrestati e condannati a morte.
Eleonora aveva chiesto di poter essere decapitata, ma neanche questo le fu concesso e avviata alla più infamante impiccagione il 20 luglio del 1799 nella Piazza del Mercato a Napoli.
Prima dell’esecuzione fu sottoposta ad oltraggi e torture umilianti. Chiese un laccio per potersi legare le vesti dal momento che le erano state strappate via le mutande e non dover subire l’ulteriore umiliazione di mostrare il proprio ventre nudo al ludibrio del popolo.
Venne giustiziata per ultima dopo i suoi compagni Gennaro Serra di Cassano e Giuliano Colonna di Aliano, il vescovo Michele Natale, il botanico Nicola Pacifico, il banchiere Domenico Piatti, il figlio di lui Antonio, l’avvocato Vincenzo Lupo. Prima di porgere il collo al cappio del boia mormorò in latino un frammento di Virgilio: Forsan et haec olim memisse juvabit (Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo).
Il suo corpo venne lasciato penzoloni per un giorno intero mentre i lazzari cantavano:
‘A signora Donna Lionora
ehe alluccava ‘ncopp’ ‘o triatro
mo’ abballa miezo ‘o Mercato,..
Il corpo, ritrovato di recente, fu deposto nella cappella di Santa Maria di Costantinopoli poco distante da Piazza del Mercato.