Archivi del mese: settembre 2013
Irresponsabili non solo verso il Paese ma anche verso se stessi e chi li ha votati.
Quanto è successo stasera con il ritiro della delegazione PDL dal Governo Letta è l’epilogo di una vicenda che sfugge ad ogni analisi politica.
Atteso che solo ingenui o in malafede possono credere alla motivazione data da Berlusconi per uscire dal Governo Letta (l’IVA aumenta perché Berlusconi ha aperto la crisi, non il contrario) ci troviamo di fronte ad uno scenario assai inquietante.
C’è un uomo, leader ventennale del centrodestra italiano che è stato condannato, a torto o a ragione (non ci interessa dibattere ancora su questo) in maniera comunque definitiva per un reato.
Quest’uomo, a prescindere da Giunte per le elezioni e voti d’aula, il 16 ottobre andrà o ai domiciliari o ai servizi sociali. La sua libertà personale sarà comunque limitata per un periodo abbastanza lungo. In ogni caso, con quella condanna, non potrà ricandidarsi alle elezioni e non potrà per un periodo di tempo anch’esso più o meno lungo, ricoprire cariche pubbliche.
Questa, può piacere o non piacere, è la nuda e cruda realtà. Una realtà che conoscono tutti, a cominciare dall’interessato passando per Alfano, Santachè, Brunetta, Cicchitto e Schifani.
Si può urlare quanto si vuole, dibattersi fino all’inverosimile, agitare lo spettro della persecuzione giudiziaria, ma nulla potrà cambiare questa realtà.
Ora, se è comprensibile che Berlusconi non voglia riconoscerla e magari dia anche di matto incomprensibile è l’atteggiamento dei suoi seguaci.
Questi non solo non si preoccupano di vedere come uscire dalla crisi terribile che il nostro Paese sta attraversando, ma neppure di come continuare a dare agli elettori di centrodestra una rappresentanza anche al di là delle vicende personali del loro leader.
Perché comunque in questo Paese ci dovrà essere un centrodestra che si confronta democraticamente con un centrosinistra, come avviene in tutto il resto del mondo.
Sia che preferiscano la “bella morte” nella ridotta di Arcore, sia che sperino in tardivi ripensamenti di un Capo che non comprendono più o, infine, perché sperano di portarsi a casa qualche pezzo di piccola e improbabile rendita di posizione politico-elettorale, stanno mandando tutto a puttane, compreso se stessi e quello stesso popolo di centrodestra che pure li aveva mandati a rappresentarli e a governare il Paese.
La Resistenza partì dal Sud 27-30 settembre 1943. Le quattro giornate di Napoli
Pubblicato su “L’Ora della Calabria” del 28 settembre 2013, p. 33.
La Resistenza è stata spesso rappresentata come un fenomeno prevalentemente centro-settentrionale per la semplice circostanza che in quell’area geografica si verificarono gli episodi più significativi dello scontro con i fascisti della Repubblica di Salò e l’esercito tedesco di occupazione. Il Sud, invece, non conobbe la lotta partigiana perché occupato in gran parte dalle truppe alleate anglo-americane già nel settembre del 1943, e per la presenza del governo Badoglio e del re Vittorio Emanuele III.
Le settimane che vanno dalla fuga del re e del governo da Roma (8-9 settembre), gli sbarchi alleati a Salerno e a Taranto (9 settembre), la disperata resistenza di reparti dell’esercito italiano in difesa della capitale a Porta San Paolo (10 settembre), la liberazione di Mussolini dalla sua prigione sul Gran Sasso (12 settembre) e la costituzione della Repubblica di Salò (23 settembre), sono state ricordate come quelle in cui “la Patria morì”.
L’8 settembre fu, indubbiamente, il punto più basso della “catastrofe dell’Italia” e delle sue classi dirigenti. La fuga del re e del governo lasciò l’esercito italiano dislocato in Italia e nei vari teatri di guerra senza ordini e direttive, alla mercé dei tedeschi trasformati d’un tratto da alleati in nemici.
Infatti le trattative con gli alleati sbarcati in Sicilia il 10 luglio, avviate subito dopo la caduta di Mussolini (25 luglio), erano state condotte tra mille astuzie e bizantinismi. Vittorio Emanuele III e il primo ministro Pietro Badoglio dimostrarono di non avere alcuna consapevolezza di quanto il fascismo fosse inviso al popolo italiano e di quanto forte fosse il desiderio di porre fino ad una guerra disastrosa in cui la dittatura aveva trascinato un Paese riluttante e impreparato. Si preferì proseguire invece per settimane con la formula “la guerra continua a fianco dell’alleato germanico” senza impedire e addirittura favorendo l’occupazione della Penisola da parte dell’esercito tedesco e soprattutto senza predisporre, una volta firmato l’armistizio (2 settembre), un adeguato piano per difendersi dalla più che prevedibile reazione tedesca.
All’annuncio dell’ armistizio (anche questo proclamato da Badoglio con la formula ipocrita secondo la quale le truppe italiane avrebbero reagito “ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”) lo Stato cessò praticamente di esistere da un momento all’altro. Alla coscienza individuale di ciascun italiano fu lasciata la responsabilità di scegliere. Ci furono così coloro che colsero l’occasione per tornare a casa e altri che invece decisero di assumersi comunque la responsabilità per molti e per tutti, quelle responsabilità da cui il re e il governo erano invece fuggiti. Quelle responsabilità che seppe assumersi, tra i tanti in quei giorni e negli anni successivi, Gennarino Capuozzo di appena 12 anni, uno scugnizzo morto a Napoli il 29 settembre dopo aver tirato una bomba a mano contro un carro armato tedesco.
In questo senso si può dire che le quattro giornate di Napoli rappresentarono il momento della scelta per un’intera popolazione. Ridotta ad un cumulo di macerie dai bombardamenti alleati, occupata dall’esercito tedesco che compiva quotidiani rastrellamenti per il lavoro forzato e la deportazione in Germania di tutti gli uomini validi e degli sbandati delle forze armate italiane, terrorizzata dalle feroci e indiscriminate rappresaglie, Napoli si sollevò come un solo uomo combattendo per quattro lunghe giornate contro un nemico armato ed organizzato e costringendolo ad abbandonare la città. Lo splendido film di Nanni Loy del 1962 (Le quattro giornate di Napoli) rappresenta bene il momento in cui tutti insieme, popolani e borghesi, vecchi e ragazzini, donne ed uomini, ex soldati e persino uomini di Chiesa decisero di ribellarsi e combattere.
La sera del 29 settembre il comandante tedesco di Napoli, il colonnello Walter Schöll, trattò la liberazione dei prigionieri italiani detenuti nello Stadio del Littorio ottenendo in cambio la possibilità di abbandonare la città. L’evacuazione delle truppe tedesche fu completata nella giornata del 30 anche se queste non rispettarono l’impegno a cessare le ostilità continuando a bombardare la città ed a sparare sugli insorti. Il 1 ottobre le truppe alleate entrarono in una città ormai liberata dai soldati tedeschi. Settant’anni fa. Per quanto accaduto tra il 27 ed il 30 settembre 1943 Napoli è medaglia d’oro della Resistenza italiana.
L’epilogo misero e rancoroso del berlusconismo.
Anch’io, come scrive lucidamente oggi Peppino Caldarola, ho sempre pensato che la storia di Berlusconi non possa essere derubricata ad una vicenda criminale e che la maggioranza del popolo italiano non può essere considerata una massa di ingenui o peggio delinquenti che nel principe dei criminali hanno trovato la loro naturale rappresentanza.
Anch’io ho sempre pensato che una sinistra moderna che voglia cambiare davvero le cose e produrre in Italia finalmente quella modernizzazione diventata ormai ineludibile debba rifuggire dalla logica ideologica dello scontro amico/nemico.
Anch’io ho sempre pensato che il berlusconismo è stata qualcosa di più profondo e complesso, che richiede un’analisi più seria di quella che si può esprimere nell’urlo scomposto o nell’invettiva nei talk show o sui social network. E tuttavia questa commedia popolata da nani, ballerine e improbabili comparse in cerca di autore, mi lascia sconcertato.
L’uomo di Arcore sta trascinando inesorabilmente se stesso e il suo partito (e temo anche il Paese) nel vortice di inconcludente rancore in cui evidentemente si dibatte da settimane.
Se ne sta lì, nel chiuso della sua villa, circondato da yesmen e yeswomen che continuano ad adularlo nella speranza di lucrare improbabili rendite di posizione politica o personale o da coloro che comunque non hanno il coraggio di dirgli che sta sbagliando tutto. Entrambi, c’è da star sicuri, girano le dita sulle tempie appena non vede, come si fa con i parenti che hanno perso il senno.
Da qui le ultime mosse: le dimissioni in massa dei parlamentari (ma non dei ministri) consegnate ai capigruppo, le sparate sul golpe, le proposte di occupazione delle Camere…propaganda dettata dal Capo che spera in un qualcosa che non esiste, che il Presidente della Repubblica, anche se volesse, non potrebbe mai concedere.
Il berlusconismo si avvia così ad un declino popolato di miserie e rancori, con l’effetto probabile che proprio quello che si era proclamato di voler realizzare sostenendo il governo Letta, la pacificazione e l’uscita politica da un ventennio fatto di contrapposizione violenta e di danni profondi al Paese, evapori nei vaneggiamenti di un vecchio che non vuole accettare la semplice realtà del tempo che passa.
Un cupio dissolvi popolato dalle facce di Brunetta e Santachè, candidati eredi del nulla.
L’ESSENZA DELL’ANTIPOLITICA
L’essenza dell’antipolitica in fondo è semplice. Preferire ascoltarsi invece che ascoltare e giocare a chi grida più forte chiedendo conto sempre di tutto, soprattutto di ciò di cui non gli importa assolutamente nulla. Antipolitica significa, infatti, nascondersi dietro chi invece si assume le responsabilità prendendosi onori che solo in pochi gli riconosceranno ed oneri di cui in molti chiederanno conto.
11 settembre 1973. Quarant’anni dal golpe cileno.
L’11 settembre 1973 i militari cileni attaccarono il Palazzo della Moneda a Santiago e rovesciarono con un golpe il governo democratico del Presidente Salvador Allende.
Salvador Allende, socialista a capo di una coalizione di sinistra denominata Unidad Popular, morì difendendo il palazzo presidenziale, probabilmente suicida.
A capo del golpe c’era il generale Augusto Pinochet, che rimarrà al potere fino al 1988, travolto da un referendum popolare da lui stesso voluto con l’intenzione di confermare plebiscitariamente il suo regime.
La sua dittatura, sostenuta dagli USA di Richard Nixon nel clima della contrapposizione della guerra fredda, fu una delle più feroci della storia, con migliaia di arresti, omicidi di massa, persecuzioni, esili.
Il Cile, paese di tradizioni democratiche, fu proiettato nella spirale delle dittature che, tra gli anni ’60 e ’70, oppressero il Sudamerica in nome della difesa da una inesistente minaccia comunista.
La guerra fredda fece il resto, facendo prosperare in quel continente una pattuglia di tiranni sanguinari e corrotti sotto la protezione degli USA.
La vicenda del Cile ebbe, inoltre, una grande influenza sulla sinistra italiana: se la vittoria di Allende del 1970 aveva incoraggiato la speranza che un’alleanza social-comunista potesse vincere le elezioni e governare un paese democratico senza dover ricorrere ad una rivoluzione violenta, il golpe del 1973 ebbe, invece, l’effetto di uno shock.
Da una parte confermò la sfiducia di una parte della sinistra nelle cosiddette istituzioni “borghesi” spingendola verso la deriva estremista e addirittura eversiva che alimenterà le file del terrorismo, dall’altra convinse il segretario del PCI Enrico Berlinguer a impostare la strategia del compromesso storico, cioè un’alleanza vasta di forze politiche anche non di sinistra per riformare la democrazia, partendo dall’assunto che con il 51% non si governa.
Molti critici hanno inteso mettere in discussione soprattutto questo aspetto della politica berlingueriana, che proprio dalla tragica vicenda del golpe cileno trasse gran parte della sua elaborazione.
La strategia del compromesso storico non produsse effetti positivi sull’evoluzione della sinistra italiana, approfondì, anzi, la distanza tra PSI e PCI spingendo il primo sulla strada di un esasperato autonomismo e di una collocazione praticamente permanente nell’orbita di alleanze della DC.
Inoltre, per ammissione dello stesso Berlinguer, non si verificò neppure quella profonda riforma del Paese e del suo sistema politico ed istituzionale italiano di cui si avvertiva la necessità già a metà degli anni ’70.
Il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, che dalla sponda DC più aveva spinto in direzione dell’incontro con il PCI, ne segnò, drammaticamente la fine.
Di certo, tuttavia, i fatti del Cile ebbero l’effetto di rafforzare in Italia la convinzione che un’uscita dal sistema democratico sarebbe stato disastroso per tutti, moderati e progressisti.
Ecco perché credo valga la pena ricordarli ancora oggi a distanza di quarant’anni, quale monito a considerare la democrazia il bene più prezioso che non bisogna mai cessare di difendere.
I veri riformisti
I parlamentari 5 stelle sono saliti sul tetto di Montecitorio per protestare contro le possibili riforme costituzionali. Singolare che chi ha preso i voti per cambiare tutto oggi protesti per non cambiare niente, neanche la legge elettorale. In realtà sono veri riformisti: dal momento che il Parlamento fa acqua da tutte le parti sono andati ad aggiustare le grondaie.
L’incapacità di Berlusconi a comportarsi da vero leader
Chi ha la bontà di leggere le cose che ogni tanto scrivo sa che rispetto a Berlusconi non ho mai avuto alcun atteggiamento pregiudiziale o ideologico.
Per me resta un avversario politico che va battuto con l’arma della politica, cioè prendendo più voti di lui alle elezioni.
Ho sempre aborrito le scorciatoie giudiziarie e credo anche che, in qualche misura, su di lui un certo accanimento da parte di alcuni settori della magistratura c’è pure stato.
Aggiungo che anche questo è frutto dei suoi macroscopici errori politici. Se in questi anni, infatti, invece di procedere con leggine ad personam suggerite dai suoi avvocati, avesse invece perseguito, per il bene di tutti i cittadini, una profonda riforma della giustizia oggi non si troverebbe nelle condizioni in cui è. E magari tanti cittadini potrebbero oggi avere una giustizia che garantisce tutti, ricchi e poveri, potenti e deboli.
Ma il limite vero di Berlusconi è proprio questo, non sapere guardare oltre il ristretto orizzonte dei suoi interessi personali.
D’altro canto il suo è sempre stato un garantismo peloso, senza se e senza ma per sé e per i suoi, forcaiolo e giustizialista per gli avversari politici e per i poveri cristi.
Comunque oggi è stato condannato con sentenza definitiva. Le sentenze definitive, quando cioè sono stati espletati tutti i gradi di giudizio previsti dal nostro ordinamento nel pieno delle garanzie di uno stato di diritto, possono anche non piacere, si possono anche discutere, ma si devono rispettare. Ciò vale per tutti i cittadini ma vale soprattutto per chi ricopre incarichi politici.
Un vero leader politico che ha davvero a cuore i destini del suo Paese e della sua stessa parte politica dovrebbe, a questo punto, fare la cosa più giusta, mettersi da parte e favorire l’apertura di una nuova fase.
Ma così non è: da settimane si assiste, invece, a questo teatrino attorno al voto in Commissione per la sua decadenza da senatore e alle minacce di ritorsione sul governo Letta.
Si tratta, è bene ribadirlo, di questione alla fine ininfluente sul piano pratico: anche un voto contrario alla sua immediata decadenza non cancellerebbe la condanna e la pena che dovrà comunque scontare e, dopo la riformulazione di quella accessoria da parte della Corte d’Appello di Milano, la stessa questione si ripresenterebbe nei medesimi termini.
Persino l’eventuale ricorso alla Consulta sulla presunta incostituzionalità della retroattività della sentenza sarebbe ininfluente, perché non cancellerebbe né la condanna né la pena accessoria. E comunque Berlusconi, alle prossime elezioni, non è ricandidabile. Se ne facciano una ragione tutti, pitonesse e paggi.
Da parte sua il PD dovrebbe fare come si fa con certi vecchi molesti, che non vogliono proprio saperne di accettare la realtà. Ricorra pure alla Consulta, all’ONU e persino al Consiglio della Galassia. Primo o poi qualcuno troverà il coraggio di dirgli che sta sulle balle proprio a tutti, compresi quelli che gli gridano ancora “forza Silvio”.