Attualità
QUESTIONE ROM: L’INTEGRAZIONE E’ UN DOVERE SIA PER CHI ARRIVA SIA PER CHI OSPITA.
Diciamoci la verità, per poco non ci è scappato il morto con l’incendio nel “villaggio” ROM sul fiume di Cosenza. Senza contare le condizioni vergognose in cui vivono le persone in quella “favela”, tra sporcizia, topi e il rischio continuo che il fiume se li porti via con un’ondata di piena improvvisa. Oggi apprendiamo del rifiuto dei 60 scampati all’incendio a trasferirsi nella ex scuola “Don Milani” e a voler restare lì, in quelle condizioni degradate. Tutto ciò ci pone di fronte alla domanda: può una città civile consentire che 500-600 persone vivano in quelle condizioni, a rischio della loro stessa incolumità fisica ? Può, nello stesso tempo, accettare la pervicace ostinazione a voler restare in quelle condizioni ? Si può legittimare questa ostinazione, spesso dettata da motivazioni ben poco nobili, con la costruzione di un villaggio (eco, temporaneo o a numero chiuso che sia) che nei fatti diventerà l’ennesimo ghetto ? Massimo Converso, presidente dell’Opera Nomadi, giustamente si batte contro questa soluzione. I villaggi di quel tipo legittimano solo l’evasione scolastica, la volontà di non essere censiti e di occultare attività spesso “utilizzate” come manovalanza a basso costo dalla malavita.
Dovunque l’integrazione è avvenuta quando culture si sono mescolate, tollerandosi ed accettandosi con quella ospite, rinunciando certo, a parte di sé ma per il supremo bene della convivenza e della sicurezza collettive. Il nostro ordinamento, ad esempio, non consente, giustamente, la poligamia o il burka, pur difendendo il diritto di tutti a professare la propria fede.
Se la nostra casa è pericolante e mette in pericolo la nostra sicurezza e quella degli altri il nostro ordinamento prevede, giustamente, l’evacuazione di quella casa anche in deroga al nostro diritto di proprietà su quell’immobile.
Sono regole elementari che tutti, nel nostro territorio, sono tenuti a rispettare. E se persisto nel volerle non rispettare posso essere, legittimamente, invitato ad andar via.
Nel 2007 il “villaggio” sul fiume Crati fu sgombrato e i suoi abitanti, grazie ad un’azione congiunta di Prefettura, Comune, Provincia e Curia furono trasferiti in case reperite (non senza difficoltà) dal Comune e nei comuni dell’hinterland. Non durò molto perché i rom abbandonarono le case e tornarono sul fiume, con alterchi e risse scoppiate tra coloro che volevano comunque accettare le soluzioni offerte e quelli che invece si ostinavano a restare nella baraccopoli. Ci fu anche una polemica, che coinvolse il sottoscritto, che ribadiva la bontà della scelta del 2007, e alcune cosiddette associazioni “antirazziste” che chiedevano l’allestimento di un villaggio perché i rom sono naturalmente “nomadi” e quindi naturalmente portati ad abitare in baracche. Fui preso a male parole anche quando criticai la cosiddetta “scuola del vento” messa in piedi da queste associazioni, una iniziativa che allestiva una scuola per i bambini nella baraccopoli mentre gli scuolabus del Comune continuavano a viaggiare vuoti, nonostante l’impegno degli amministratori e di alcuni dirigenti scolastici di allora di dotare alcuni istituti di una politica di accoglienza e persino di docce per dei bambini che, vivendo all’addiaccio, non potevano certamente essere al massimo dell’igiene (una decisione presa tra le proteste dei genitori dei bambini italiani che inscenarono vivaci manifestazioni). Ma questa è la strada dell’integrazione, difficile, ma senza alternative.
Sarò antico, potrò non essere un esperto di antropologia, ma io continuo a pensare che vivere in una baracca in campi-ghetto, anche se dotati di minimi servizi essenziali, non possa essere un esempio di integrazione. Continuo a pensare che l’integrazione scolastica si svolga nelle scuole, mettendo insieme bambini di diversa cultura ed etnia e sia inaccettabile che possano esistere scuole diverse per bambini diversi. Io continuo a credere che abbia ragione Massimo Converso quando propone di persistere sulla soluzione del 2007 e a rifiutare la logica dei ghetti. Perché a nessuno è consentito di rifiutare le regole del posto in cui vive e pretendere la legittimazione di una illegittimità. Perché integrarsi è un dovere sia per chi arriva sia per chi ospita, sempre.
Il diritto all’odio non esiste…
Dopo l’episodio di Milano con il lancio della statuetta in faccia a Berlusconi nel 2009, Marco Travaglio scrisse sul blog di Beppe Grillo un articolo con il quale parlava di “diritto all’odio”. Il giornalista di destra diventato icona di certa sinistra forcaiola scriveva: “Chi l’ha detto che non posso odiare un politico e augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto? Un politico si vota, non si ama. In politica non esiste l’amore, non c’è sentimento”. E ancora. «Non vedo per quale motivo – continuava l’ex giornalista de “Il Borghese” – qualcuno non possa odiare Berlusconi. L’importante è che si limiti ad odiarlo senza fargli nulla di male”.
Ora io credo che questa affermazione sia rivelatrice di un vero e proprio veleno che si è diffuso nella politica e nella società italiana, in una parte delle sue classi dirigenti, della cultura e della cosiddetta “intellighenzia” radical italiana, un veleno che va combattuto con decisione e senza tentennamenti.
La realtà sociale del Paese è infatti drammatica. Interi pezzi di società sono sospinti sotto la soglia della povertà, diritti che si credevano acquisiti vengono di giorno in giorno negati e fatti a pezzi.
In questo contesto la politica e le classi dirigenti nel loro complesso devono assumersi la responsabilità di indicare soluzioni non di soffiare sul fuoco o versarvi benzina.
Non esiste il “diritto all’odio” perché l’odio è la negazione di ogni diritto. Chi fomenta l’odio, anche quando non si rende colpevole di violenze, e soprattutto se lo fa dall’alto della sua condizione di “privilegiato” da decine di migliaia di euro al mese (spesso molto di più dei tanti bistrattati politici) che gioca sulla disperazione di tanti, diventa colpevole indiretto delle violenze che da quell’odio inevitabilmente si generano.
In Italia è già successo, purtroppo, e i rischi che tutto si ripeta ci sono tutti come dimostrano i fatti di Roma. Non si tratta di ripercorrere la categoria dei “cattivi maestri”, di invocare censure, ma di avviare una campagna politica e culturale contro chi irresponsabilmente si fa promotore di una visione manichea e distruttiva della politica dal tepore dei salotti o per il gusto della tirata demagogica nei talk show televisivi, una visione che distrugge la democrazia nei suoi stessi principi fondativi.
Io trovo significativo che i manifestanti pacifici sabato abbiano cercato di espellere quelli violenti dal corteo. E’ un fatto importante che, a mia memoria, non era mai successo. Segno che gli anticorpi ci sono e vanno incoraggiati e moltiplicati. Avendo il coraggio di contestare a gente come Travaglio e a tanti altri come lui le innumerevoli e irresponsabili parole che assai spesso propagano a piene mani.
Perché nessun dissenso, per quanto profondo e radicale esso sia, può giustificare l’odio politico. Perché la democrazia è nata proprio per regolare i conflitti e bandire l’odio dai rapporti civili e politici e non il contrario, altro che balle.
Piperno dalla “geometrica potenza” a “un evento dalla bellezza sublime”.
Questa mattina, sulle pagine di un giornale locale è apparso un articolo del prof. Franco Piperno in vista del decimo anniversario della strage delle Torri Gemelle a New York.
Con i toni lirici di cui è capace ha teorizzato lungamente sul fatto che l’11 settembre 2001 è stato “un evento dalla bellezza sublime”, definendo i terroristi “intellettuali arabi” che hanno agito contro la “Grande Babilonia”.
Per Piperno, dunque, “l’undici di settembre, nel decennale di quell’evento dalla bellezza sublime, chineremmo, se solo le avessimo, le nostre bandiere per pietà verso gli americani morti per caso e ad onore degli intellettuali arabi – a noi, per altro ostili, ma certo umani, troppo umani – che hanno spappolato gli aerei catturati contro le Torri Gemelle, condensando, in quel gesto collettivo, la volontà generale delle moltitudini arabe”.
Il prof. di Arcavacata non è nuovo a certe uscite: ricordiamo ancora quando, appresa la notizia del rapimento di Aldo Moro e della strage della sua scorta, parlò della “geometrica potenza” di quell’azione.
Sarebbe semplice, in questa sede, contestare a Piperno che è davvero azzardato sostenere che gli “intellettuali” di Bin Laden interpretino davvero “la volontà generale delle moltitudini arabe” proprio nel momento in cui, in quasi tutti i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente le stesse moltitudini scendono in piazza per rivendicare la tanto “occidentale” democrazia contro regimi dittatoriali e tirannici, peraltro per lungo tempo buoni amici della “Grande Babilonia”.
Sarebbe altrettanto semplice dire che non ci può essere alcuna comprensione né tantomeno empatia con persone che, in nome di una ideologia religiosa peraltro distorta, non esitano a massacrare innocenti e come questo tragico fatto non sia dissimile dalle stragi perpetrate da dittature rosse e nere nei decenni trascorsi.
Allo stesso modo sarebbe facile contestare l’assurdo accostamento dell’11 settembre alla “decapitazione di Luigi Capeto” all’”assalto bolscevico del Palazzo d’Inverno”, alla “Sorbona occupata nel ‘68” , alla “caduta del Muro di Berlino”. Sarebbe facile, ma assolutamente inutile. Così come sarebbe inutile ricordare che Piperno è stato assessore della Giunta nel periodo in cui Giacomo Mancini dedicò una delle piazze principali di Cosenza proprio all’XI settembre e che difficilmente in Egitto, Libia o Iraq avrebbe potuto scrivere e dire le cose che scrive e dice, che gli USA dove viene eletto Obama, a dispetto di tutti gli errori ed orrori della sua storia, sono comunque da preferire a regimi in cui si reprime ogni dissenso, si costringono le donne ad una condizione di schiavitù sottoponendole a terribili mutilazioni, in cui alcune frange integraliste non esitano ad armare giovani con il tritolo per uccidere donne e bambini, ecc..
Piperno è così, da sempre, e tuttavia non si possono lasciare passare le sue affermazioni sotto silenzio. Non contestargliele o sottovalutarle sarebbe un errore forse ancora più grande. Non si può non ribadire che l’11 settembre, a dispetto dei tanti mali di cui USA e Occidente sono spesso portatori, è stato un evento tragico, l’ennesimo esempio di come il cammino verso pace, giustizia, democrazia sia per l’umanità ancora arduo e difficile. Che proprio quella assurda strage chiama l’Occidente a maggiori responsabilità, a perseguire fino in fondo la lotta per l’affermazione dei valori dell’uomo che presero l’avvio non tanto dalla decapitazione di Luigi Capeto ma dalla presa della Bastiglia. Che questa lotta è ancora aperta, che certamente avrà mille contraddizioni delle quali qui, in questo Occidente così complesso, comunque si può discutere e battersi per correggerle (e non mi pare poco). Una lotta che deve continuare perché non c’è alternativa alla democrazia, per quanto imperfetta essa possa essere.
L’11 settembre non ha portato più progresso, ma solo più paura, più diffidenza, più conflitto, rendendo il mondo più insicuro e scatenando nuove guerre, nuove tragedie. Ecco perché non ci vedo nulla di bello e di sublime.
Ma è davvero questa la Calabria ?
Francamente non se ne può più.
Non se ne può più di aprire i giornali la mattina e vedere la nostra Regione descritta come una unica grande emergenza. Mare sporco, criminalità, costi della politica, tutto messo nello stesso calderone, senza distinguo, senza individuazione di vere responsabilità, senza un minimo di proposta per uscire dalla crisi.
Anzi, chi le proposte le fa viene sbeffeggiato e ridotto al silenzio, individuato come conservatore o, peggio, colpevole di reticenza ed omissione nei confronti di una battaglia civica che vuole il rinnovamento e la rinascita della nostra terra.
Ma la verità è che da questa rappresentazione non emergono né la battaglia civica né tantomeno il rinnovamento e la rinascita. Questa impostazione alimenta solo la convinzione che la Calabria, come una parte del Sud, siano ormai perduti, buoni solo per essere annessi a ciò che resta della Libia di Gheddafi.
Ma andiamo nel merito; polemiche sul mare sporco: intendiamoci, nessuno nega che ci siano emergenze ambientali legate al non funzionamento di alcuni depuratori. Bene, perché non si parla di quelle, si individuano le aree a rischio e si interviene denunciando i responsabili con nome e cognome invece di rappresentare una realtà di disastro completo e complessivo ? A parte che l’inquinamento del mare in Calabria è soltanto organico non essendoci, come in altre aree del Paese, attività industriali inquinanti che scaricano nel mare, e quindi di per sé assai meno pericoloso per la salute dei cittadini, ma mi viene da chiedere, come se fossi un bambino di sei anni, avete mai fatto il bagno nella riviera romagnola o in Veneto o nel Lazio ? Il mare di quelle parti, vi assicuro, in confronto al nostro, è certamente più inquinato, eppure nessuno parla e lancia allarmi. Anche la stampa locale di quelle aree interviene per denunciare singoli fatti, senza generalizzazioni e, soprattutto, facendo inchieste mirate che determinano interventi precisi ed efficaci degli organi preposti.
Qui in Calabria, invece, sembra che tutti i gatti siano bigi e che tutto sia uguale all’altro, hai voglia delle lettere di sindaci che assicurano che il mare da loro è pulito, esibendo dati certificati e sventolando le bandiere blu assegnate dalle associazioni ambientaliste. Grida ancora vendetta, poi, la grande bufala delle cosiddette “navi di veleni” di cui non si è trovata traccia e di cui stiamo ancora pagando i danni.
Tralascio qui tutto il ragionamento sulla lotta alla mafia su cui più volte si è discusso: la mafia è una cosa concreta, fatta di persone in carne ed ossa contro cui bisogna lavorare in termini repressivi e culturali sapendo che è un fenomeno umano e che quindi può e deve essere sconfitto con azioni concrete. Dire invece che al Sud tutto è mafia è il modo migliore per farla crescere e sviluppare e rende solo un servizio a certi opinionisti general-generici che sulla lotta alla mafia al massimo riescono a costruire le proprie carriere personali.
Parliamo poi dei costi della politica: tutti leggono si tratti di un problema nazionale, ma no, in Calabria è più speciale degli altri. Io non ho nessuna simpatia politica per il Governatore Scopelliti ma francamente mi sembra che una indennità allineata a quella di un parlamentare, che non ha le stesse responsabilità di un Presidente di Regione (anzi, con lo scandalo del “porcellum” non ha neanche il problema del consenso e quindi del rapporto col territorio che genera maggiori costi della politica), non rappresenti uno scandalo, soprattutto se si considera che le indennità parlamentari sono allineate agli stipendi dei gradi apicali della Magistratura e spesso di molto inferiori a quelli di manager e dirigenti di enti pubblici e privati, dei direttori di testate giornalistiche o di altri colletti bianchi (come si diceva una volta), senza contare i compensi di grandi professionisti o personaggi dello sport e dello spettacolo, di cui nessuno parla e, soprattutto, di cui nessuno si indigna.
Personalmente non ho mai creduto ad una idea comunistica delle retribuzioni: chi ha più responsabilità, chi è più esposto in tutti i sensi, deve poter guadagnare in maniera adeguata. Ciò non toglie che in un periodo di crisi come quello che viviamo, i sacrifici debbano essere proporzionalmente distribuiti tra tutti, e chi ha di più deve dare di più secondo un principio di equità, che è essenziale in democrazia. Però, perché questa battaglia giusta e sacrosanta non si conduce in maniera seria, parlando degli eccessi esistenti in tutti i settori e non solo nella politica ? La politica deve dare l’esempio: ridurre il numero di Consiglieri Regionali e Parlamentari che sono troppi, adeguare le proprie indennità alla media europea mi sembrano proposte di buon senso su cui bisogna spingere senza cadere in facili populismi.
Ma mi chiedo, facciamo un servizio all’opinione pubblica se ce la prendiamo solo con una categoria, tra l’altro quella che, nel bene e nel male, è figlia della volontà popolare al contrario di tante altre, senza guardare alle grandi ingiustizie di un Paese in cui tutto sembra andare avanti secondo il principio della responsabilità limitata ? Facciamo un servizio alla democrazia italiana se alimentiamo una cultura antipolitica da “piove, Governo ladro” che, storicamente ha solo determinato involuzioni e non evoluzioni della stessa democrazia ? Ma ci siamo dimenticati che da “Mani Pulite” non sono scaturite le “magnifiche sorti e progressive” della sinistra italiana e della democrazia ma Berlusconi ed il berlusconismo ? E’ una storia che si ripete, tra l’altro: descrivendo, ingenerosamente, Giolitti come “ministro della malavita” il democratico Gaetano Salvemini non favorì la crescita e l’avanzamento progressista dello Stato liberale che auspicava, ma contribuì alla sua dissoluzione nella tragedia del fascismo e del mussolinismo.
La denuncia dei suoi mali è necessaria in una società, ma per produrre avanzamento non deve essere farisaica e a senso unico, deve essere onesta dando a Cesare quel che è di Cesare rifuggendo dalle generalizzazioni. I colpevoli hanno sempre nome, cognome, residenza e paternità. Il modo migliore per farla fare franca ai colpevoli o addirittura consentire loro di fare ancora più danni e acquisire nuovo potere è dire che tutti sono colpevoli. Essere tutti colpevoli non porta a punizioni collettive ma solo a generali autoassoluzioni e fa dei più colpevoli dei nuovi e più spregiudicati dirigenti.
Bocca antitaliano e antimeridionale…
Si parla molto del volumetto pubblicato da Rubbettino (“Aspra Calabria”) che riprende una parte di un vecchio libro di Giorgio Bocca uscito nel 1992 (“L’Inferno”).
Gli scritti di Giorgio Bocca, introdotti da una autorevole prefazione di Eugenio Scalfari non ci sorprendono più. Non ci sorprende il tono moralistico, la tendenza manichea tipica di certa cultura azionista a cui Bocca appartiene.
Il Partito d’Azione, che riprendeva una vecchia dicitura mazziniana, fu un’effimera formazione politica protagonista della guerra partigiana, di tendenza laica, radical-democratica e socialista liberale che finì schiacciato dalla presenza di grandi partiti di massa come il PCI, il PSI e la DC.
I suoi uomini erano personalità assai colte che sognavano un’Italia che si mondava dal fascismo ma anche da certi suoi atavici mali morali che elencavano nella sua tendenza alla corruzione, nell’influenza clericale, nella dimensione politicista della sua politica.
I libri di Bocca sono tutti intrisi di questa rabbia di sconfitti politici costretti a vivere in un Paese che li guarda spesso senza comprenderli, diffidente rispetto alla loro tendenza ad ergersi a giudici sulla base di una superiorità etico-morale che pochi sono disponibili a riconoscergli.
Bocca e molti come lui appartengono a quella categoria delle classi dirigenti progressiste che sono portati a scambiare i loro desideri con la realtà, intrisi comunque da un’ansia pedagogica che non li fa amare. Non amano la realtà che li circonda e la declinano con un tono pessimista, odiando la politica che invece con quella realtà deve misurarsi quotidianamente, anche e soprattutto se vuole cambiarla. Anzi, la fatica riformista risulta essere loro detestabile, la scambiano spesso con il compromesso o, peggio, la compromissione.
Sono giustizialisti, nell’accezione che il termine ha assunto negli ultimi anni, perché convinti che il bene sta tutto da una parte (la loro) e il male dall’altra.
La visione che costoro hanno del Mezzogiorno risente di questa tara culturale: lo guardano, lo giudicano, ma non lo comprendono. Spesso scambiano le cause con gli effetti.
Per loro, ad esempio, mafia ed illegalità sono una tara quasi genetica dei meridionali, il frutto stesso del loro sottosviluppo più culturale che economico e sociale. Da qui la loro tendenza a dividere la società meridionale in buoni e cattivi, a rappresentarla solo come lotta tra difensori della legge e dello Stato e delinquenti e mafiosi.
Il parallelo con il Vietnam del Sud sconvolto dalla guerra degli anni ’70 è significativo: nel Sud d’Italia c’è una guerra non la lotta per la legalità che invece è normale in un Paese democratico. Gli USA hanno avuto ed hanno una delle mafie più pericolose del mondo eppure a nessun giornalista americano è venuto mai in mente un paragone con il Vietnam o l’Afghanistan.
Il libro si legge dunque per quello che è: l’ennesima operazione editoriale a cui si presta ora una casa editrice calabrese prestigiosa come “Rubettino” che riprende con la prefazione di Scalfari uno scritto datato: la mafia aspromontana dei sequestri di persona, per esempio, è sparita da tempo proprio grazie alle leggi dello Stato democratico ed alla sua azione repressiva che ha reso non vantaggiose per i sequestratori operazioni di questo genere (a proposito del fatto che la Sud non cambia mai niente).
I mali del Sud e della Calabria restano tanti e grandi ma si possono affrontare con la legge dello Stato, la crescita, come pure sta avvenendo, della sensibilità antimafia e per la legalità che sta interessando anche le regioni meridionali. Il Sud sta lottando e deve essere aiutato, sostenuto nella sua lotta. Intanto va aiutato sul piano dello sviluppo economico, facendo al Sud né più e né meno di quello che si fa al Nord. E invece non avviene ciò, anzi, al contrario. Gioia Tauro, citata nel testo, rischia di diventare l’ennesima speranza delusa con la chiusura del porto, così come lo fu il polo siderurgico ai tempi di Bocca. E la scusa è sempre la stessa: in Calabria c’è la mafia, alimentando il circolo vizioso che vede meno sviluppo, più mafia e la mafia utilizzata per giustificare il mancato sostegno allo sviluppo del Sud.
Per questo il libro di Bocca non mi piace, così come non mi piace anche il dibattito che si è sviluppato attorno ad esso: troppe voci indignate e ipocrite spesso silenti, spesso subalterne a quanto invece si fa e si dice al Nord.
Il grande storico Gaetano Cingari diceva che le grandi testate giornalistiche al Sud scendono, non salgono. Voleva denunciare da una parte la mancanza di una voce meridionale di portata nazionale capace di sostenere lo sforzo di un Mezzogiorno che voleva riscattarsi, ma anche la subalternità della cultura e della intellettualità meridionale a stereotipi confezionati nelle parti più ricche del Paese.
Cingari aveva ragione. Facciamo in modo che questa indignazione, salutare, possa sostenere una politica, non rappresenti solo orgoglio ferito o protesta sterile.
Noi calabresi e meridionali siamo Italia e non altro. Dimostriamolo.
Polemiche su un manifesto del PD: stiamo diventando tutti bacchettoni ?
Una grande polemica si è aperta sul manifesto della Festa Nazionale del PD di Roma che esibisce due belle gambe femminili e una gonna appena sollevata dal vento con la scritta “Cambia il Vento”. Alcune esponenti del PD e delle donne del Comitato “Se non ora quando ?”, quello che ha organizzato le imponenti manifestazioni contro Berlusconi all’indomani dell’emergere del caso Ruby, hanno chiesto addirittura il ritiro del manifesto e della campagna di comunicazione della Festa accusandola di “strumentalizzazione del corpo femminile”.
Premesso che mi riesce difficile vedere un nesso tra il “bunga bunga” e il manifesto in questione che invece trovo simpatico e intelligente con quella citazione della “Moglie in vacanza” di Marilyn Monroe (una immagine che negli anni ’60 fece scalpore contribuendo non poco alla rottura con certo bacchettonismo in Italia insieme alla “Dolce Vita” di Fellini), sono certo che mi prenderò anch’io qualche critica femminile.
Ma francamente trovo la polemica esagerata e, malgrado le buone intenzioni, anche pericolosa, perché rischia di mettere la sinistra ad inseguire certa destra sul terreno del moralismo più becero (vedi la polemica della Rauti, che ci “scavalca a sinistra”).
Personalmente, pur non essendomi assolutamente simpatico questa volta sono d’accordo con Giampiero Mughini che scrive: “Né il fanatismo del corpo femminile per quanto siliconato ed esibito impudentemente come strumento di realizzazione del proprio reddito e della propria carriera (talvolta di buona a nulla). Né il fanatismo opposto di chi condanna qualsiasi immagine “sexy” della donna perché la trova losca e umiliante. Sono tra quelli che mai una volta nella sua vita ha incontrato delle ragazze alla maniera di quelle dell’Olgettina. Ero però felicissimo quando qualcuna delle mie amiche esibiva orgogliosamente il suo corpo, e a dire il vero non ne ricordo una che non lo facesse. Ciascuna beninteso a suo modo e nel suo stile. Stili che erano tutto fuorché loschi e umilianti”.
Io credo che una immagine debba essere innanzitutto non volgare, e quella del manifesto, oggettivamente, non lo è, anzi la preferisco a tanti manifesti col faccione, assai simpatico tra l’altro, di Bersani. Pensate solo per un attimo se al posto di quelle belle gambe avessero messe quelle del nostro segretario o di D’Alema…beh, è una esperienza che mi risparmio volentieri, come penso voi tutti…
COMUNALI COSENZA: NON SOLO IL SINDACO, SI ELEGGE ANCHE IL CONSIGLIO…
Il 15 maggio andremo a votare per rinnovare Sindaco e Consiglio Comunale della nostra città…L’interesse dei media e dei cittadini è, giustamente, attratto dalla questione dei Sindaci e delle coalizioni e tuttavia il problema di quale Consiglio eleggeremo non è questione trascurabile, anzi.
Da quando esiste il sistema maggioritario (1993) non possiamo non rilevare che la qualità complessiva degli eletti nella nostra città (ma il problema è assolutamente generale) è di molto calata.
Le cause sono diverse: crisi dei partiti, preferenza unica, riduzione del ruolo del Consiglio rispetto a Sindaco e Giunta, impoverimento politico-culturale complessivo della società per cui la rappresentanza che esprime non può che rispecchiarla, ecc..
In particolare la preferenza unica rappresenta un elemento di distorsione, soprattutto a livello amministrativo, dove la caratterizzazione politica appare certamente più sfumata, per cui se si candida il miglior professionista o anche Albert Einstein è quasi certo di non essere eletto e di restare dietro al solito collettore di voti che si aggrega in un gruppo familiare o in un quartiere o in un condominio particolarmente popoloso.
Intendiamoci, non si tratta qui di fare distinzioni di classe o culturali, in democrazia contano i numeri e i consensi, e il voto è la massima espressione della volontà popolare, anche quando il risultato non ci piace.
Tuttavia, non si può non rilevare come questo impoverimento determini una rappresentanza “professionalizzata” al ribasso, con consiglieri che ritengono indifferente l’istanza politica e culturale per la quale si candidano perché al massimo sono espressione di ristrettissimi interessi, delegando la politica al Sindaco con il quale tutto al più intavolano una contrattazione al ribasso per garantire il loro sostegno in Consiglio. Una dissociazione tra politica e rappresentanza che sta creando danni notevoli innanzitutto alla politica.
Lo spettacolo di consiglieri che si candidano ora con uno ora con l’altro schieramento non è solo frutto della vecchia e mai tramontata pratica del trasformismo ma anche del restringimento progressivo della domanda politica dell’elettorato a livello locale, e diciamoci la verità, non fa più neanche scandalo…
Molti, quando discuto di queste cose dicono: “i partiti facciano selezione e non candidino personale politico siffatto”, affermazione giusta, non c’è dubbio, ma irrealistica stante l’attuale sistema elettorale. Quale partito, al fine di concorrere alla vittoria, può rinunciare alla candidatura di questo o quel consigliere che potenzialmente è portatore di un certo numero di preferenze al suo progetto politico ? A maggior ragione come potrebbe farlo un candidato Sindaco ?
Il problema sta, piuttosto, nella necessità che anche nelle assemblee elettive torni la politica, che il Consiglio Comunale diventi davvero il luogo di massima rappresentanza di una comunità e di tutte le sue istanze.
La questione è dunque, nelle mani dei cittadini, nella maturità delle loro scelte, nel comprendere che non eleggono solo un sindaco, non danno il voto solo ad un partito, ma individuano una rappresentanza che deve necessariamente andare al di là degli interessi di famiglia, di quartiere, di condominio.
Saper dire di no al proprio parente, amico, compare, ‘mmasciature, chiedere che chi si sceglie come consigliere sappia rappresentare sicuramente una coalizione e un partito ma anche gli interessi generali della città è la vera sfida anche in queste elezioni. Una sfida aperta…
LA MORTE DI GHEDDAFI…
La scena del dittatore ucciso, linciato, violato nella sua umanità nell’atto estremo della morte non è giustizia, è solo vendetta. Uccidere o processare il tiranno quando è ormai sconfitto e senza potere appare come un’operazione ipocrita e un tantino vigliacca, che serve a coprire silenzi e complicità precedenti, a mondare coscienze democratiche per troppo tempo distratte o con gli occhi chiusi di fronte all’assoluta banalità del male. Per questo gioire per la morte di Gheddafi mi sembra un atto barbaro così come barbari sono stati i comportamenti in vita di quell’uomo. Perché alla fine anche quel tiranno era soltanto un uomo, un altro terribile prodotto della crudeltà umana. E per la crudeltà umana vale solo la giustizia e, dopo la morte, solo la pietà.
Guerra umanitaria, guerra giusta o guerra necessaria ?
La questione libica è sfociata nell’azione congiunte delle forze NATO su mandato dell’ONU per colpire le basi del regime di Gheddafi e proteggere le forze ribelli che stavano per soccombere in seguito alla controffensiva del Rais.
Questa azione riapre l’interrogativo classico sull’uso della forza in casi evidenti di violazione dei diritti umani in alcune aree del mondo. Che in Libia ci sia, e non da oggi, un palese caso di violazione dei diritti umani non c’è alcun dubbio. Molti hanno obiettato, giustamente, che Gheddafi massacrava i suoi concittadini anche prima e nessuno, nel civile e democratico mondo occidentale ha avuto nulla da eccepire, anzi. Gheddafi negli ultimi tempi, era diventato il “cocco” di gran parte della diplomazia occidentale, Italia per prima, e di tutti i governi, di destra o sinistra che fossero.
Senza contare che palesi violazioni dei diritti umani si sono verificate in tutto il mondo anche di recente e non per questo l’Occidente democratico ha sentito il dovere di intervenire militarmente.
La storia degli interventi militari nei punti caldi del mondo (Kosovo a parte) è, in verità, stata mossa da motivazioni assai più materiali e prosaiche della giusta volontà di ripristinare la democrazia dove veniva conculcata (controllo delle fonti energetiche, innanzitutto). Paesi poveri e marginali come il Ruanda o il Sudan non hanno suscitato l’intervento militare del democratico Occidente come l’Iraq o la stessa Libia.
Personalmente non amo la guerra, in nessuna sua forma. Non credo che ci siano guerre giuste (se non forse quelle che si “devono fare” per difendersi dalla sopraffazione) e sicuramente non esistono guerre umanitarie (una vera e propria contraddizione in termini). Esistono, tuttavia, guerre più o meno necessarie e l’intervento in Libia certamente lo è.
Lo è per sostenere il processo di democratizzazione del mondo arabo che si è avviato negli ultimi mesi e che non può essere abbandonato a se stesso o, peggio, all’influenza nefasta dell’integralismo islamico. Difendere la democrazia nel mondo arabo significa anche garantire la sicurezza di quello occidentale, problema immigrazione a parte.
Lo è per l’Italia, per i suoi interessi geopolitici, per la necessità che in tutto il Nordafrica si instaurino regimi democratici con i quali il nostro Paese abbia relazioni politiche ed economiche positive e stabili.
Gli interessi economici sono sempre presenti, non c’è dubbio, né può scandalizzarci. Il problema è come questi siano posti in una dimensione globale di coesistenza e cooperazione pacifica senza contare il vecchio principio wilsoniano dell’autodeterminazione dei popoli.
La guerra è uno strumento comunque sbagliato ? Non ho motivo di dissentire ma allo stato attuale non ne vedo altri, sinceramente. Ma è anche vero che il pacifismo assoluto non esiste nelle società umane, se si esclude lo straordinario insegnamento ghandiano o la visione religiosa cristiana.
Nel pacifismo politico tradizionale che abbiamo conosciuto in Occidente, non sono, infatti, meno presenti contraddizioni ed incongruenze. Mi riferisco essenzialmente al tradizionale pacifismo antiamericano e antioccidentale, che giustamente ha manifestato per la guerra in Iraq o in Kossovo e ha taciuto (o ha parlato assai flebilmente) sui missili nordcoreani o sui massacri sudanesi o ruandesi.
Dire no all’intervento ONU in Libia oggi significa tenersi Gheddafi: non mi piaceva prima e mi piace ancora meno ora. Nessun democratico con un minimo di buon senso può oggi sostenere un disimpegno da quell’area, per ragioni ideali e per ragioni pratiche. Di certo i democratici hanno il dovere di chiedere che l’uso della forza sia limitato nel tempo e nell’intensità e che abbia effetti concreti per la stabilizzazione di quel Paese e per dare la possibilità ai libici di scegliersi il proprio destino. Far nulla sarebbe peggio e doppiamente colpevole.
La proposta di Bersani rischia di alimentare un autonomismo straccione e subalterno al Sud…
Il Direttore di Calabria Ora ha stigmatizzato giustamente l’intervista del Segretario del PD Pierluigi Bersani all’organo ufficiale della Lega, la “Padania”, nel quale impegna tutto il PD nel voto del federalismo “purché la Lega stacchi la spina a Berlusconi”. Sinceramente da iscritto e dirigente del PD e da cittadino del Sud considero questa iniziativa un vero e proprio pugno nell’occhio.
Alcuni amici e compagni me l’hanno giustificata come una iniziativa puramente tattica, utile per battere il “nemico del popolo” Berlusconi.
Ora io considero Berlusconi il problema più grande del nostro Paese e spero che al più presto lo si possa rimuovere dal posto che occupa e dal quale sta facendo danni irreparabili alla democrazia.
Nello stesso tempo penso che la sinistra abbia il dovere di proporre all’Italia non solo una nuova alleanza politica elettorale per poterlo battere ma anche un progetto di rilancio e di sviluppo economico, sociale e democratico che sia alternativo a quello proposto dalla destra e dal berlusconismo in questi anni. E una delle componenti fondamentali dell’azione di governo berlusconiana è stata proprio la Lega, la sua irriducibile caratterizzazione egoistica (egoismo dei territori, egoismo economico e sociale, egoismo etnico, antimmigrazione, ecc.).
Il federalismo leghista si presenta ed è un progetto che tende non ad unire i diversi e responsabilizzarli di fronte ad un comune patto nazionale come nel resto del mondo, ma a dividere ciò che, nel bene e nel male è stato unito in questi ultimi 150 anni. A questa impostazione il PD, la più grande forza di centrosinistra del Paese, ha il dovere non solo di opporsi, ma di proporre un progetto alternativo che rilanci nel futuro le radici della nostra storia unitaria e ridisegni in senso federalista (perché no ?) un nuovo patto nazionale capace di far reggere all’Italia intera, al nord come al sud, le sfide di un futuro globale assai incerto e difficile.
Per questo l’iniziativa di Bersani è profondamente sbagliata sia se essa ha una dimensione puramente tattica sia, peggio, se ha invece un respiro strategico.
Questa proposta rischia di avere nel Mezzogiorno un effetto disastroso: perché i meridionali dovrebbero votare PD alle prossime elezioni ? Quelli che hanno già votato Berlusconi saranno portati a fare un ragionamento semplicissimo, teniamoci l’originale e non la fotocopia. Dall’altro lato, quelli che hanno votato il centrosinistra perché dovrebbero continuare a votarlo se intravedono nella proposta nazionale del loro partito una idea di federalismo che li taglia fuori e li considera solo oggetto e non soggetto responsabile di una nuova politica di sviluppo ? Non finiranno, molti di questi, per essere attratti da nuove forze autonomiste che già sorgono un po’ dovunque nel Mezzogiorno e in alcune regioni, vedi la Sicilia, hanno già percentuali di consenso a due cifre ? Con l’aggravante che molte di queste forze autonomiste sono del tutto prive di quella carica sanamente “antagonista” che la Lega Nord, soprattutto ai suoi inizi, aveva e sono piuttosto il frutto del riposizionamento di un vecchio ceto politico nato e cresciuto dentro le maglie dell’assistenzialismo e della mediazione clientelare dei grandi partiti della Prima Repubblica.
Nella proposta di Bersani ci leggo anche un giudizio, la considerazione che il Sud, nella migliore delle ipotesi, debba essere abbandonato a se stesso, la conferma di un cedimento culturale ad una visione puramente emergenziale del Sud, una rinuncia ad una analisi più complessa e articolata a proporre una nuova strada di cambiamento. La negazione stessa di una impostazione riformista che dovrebbe invece essere il pane quotidiano per un partito come il PD.
Non ci si rende conto, ad esempio, che le elezioni negli ultimi anni, le grandi coalizioni nazionali le hanno sempre vinte al Sud dove ci sono stati i voti necessari per garantire il governo dell’intero Paese e dove si è mostrata, con alterne vicende, una certa mobilità elettorale decisiva per dare la vittoria a questo o a quel schieramento.
Il governo Berlusconi-Lega ha operato in questi anni solo per tagli e trasferimenti di risorse al Nord, in nome dei suoi “superiori interessi di “motore economico del Paese.
Publbicato su “Calabria Ora” 18 febbraio 2011
Mi si deve spiegare, come se fossi un bambino di sei anni, cosa c’entra con la “responsabilizzazione del Sud” e il federalismo il taglio dei fondi FAS per pagare le multe UE degli allevatori del Nord.
Mi chiedo, ancora una volta come se fossi un bambino di sei anni, come facciamo a spiegare agli insegnanti precari del Sud ai quali è stata tolta anche la possibilità di emigrare al Nord con il meccanismo delle graduatorie a coda bocciate dalla Consulta e reinserite dalla Lega nel Milleproroghe, che adesso Bossi è un interlocutore, non è razzista, che la sua è una grande forza popolare con la quale dobbiamo dialogare ?
Siamo sicuri, infine, che facendo così cacceremo Berlusconi ? La grande alleanza costituente (che riceve ogni giorno più no che si da parte dei possibili interlocutori) che D’Alema e Bersani avanzano, ha chiarito i termini della sua proposta per il Paese ? Io non riesco a vederla questa proposta e mi considero un lettore assiduo ed un osservatore attento. Se poi vedo che addirittura si guarda alla Lega come possibile interlocutore “democratico”, confesso di provare un po’ di paura, ci vedo una rincorsa alla conquista del potere per il potere, non per fare qualcosa di diverso.
Sansonetti auspica la nascita di una nuova forza meridionalista che punisca i partiti nazionali che si sono alleati contro il Sud. Sono meno ottimista di lui: colgo infatti i rischi di una deriva di ulteriore frammentazione politica e sociale magari anche in nome di un autonomismo che avrebbe ben poco di nobile collocandosi in una dimensione ancora più stracciona e subalterna. Un futuro tutt’altro che roseo e il PD e il centrosinistra non possono e non devono metterci la firma sotto.