Costume
Su Caterina Simonsen si dovrebbe avere soltanto il buon gusto di tacere
Sul caso di Caterina Simonsen si possono dire tante cose e tutte possono essere inopportune o comunque inadeguate.
Una cosa è comunque certa; l’aggressione che questa ragazza di 25 anni ha subito per aver difeso, sulla base della tragica esperienza della sua vita di malata grave, la sperimentazione medica sugli animali, è vergognosa. Ma dico di più, lo sarebbe stata anche se non fosse stata ammalata e non avesse mostrato nei suoi video la cruda realtà degli effetti della sua malattia.
Per questo motivo sono convinto che la prima considerazione da fare sia proprio la denuncia del degrado che ormai investe lo stesso vivere civile in questo nostro Paese.
E’ mai possibile che non si riesca a discutere nelle forme dovute un qualsiasi argomento, esprimere le proprie opinioni ed ascoltare quelle degli altri senza abbandonarsi alle invettive e agli insulti ? E’ mai possibile che su ogni questione ci si debba dividere in tifoserie contrapposte, in guelfi e ghibellini facendo delle diverse posizioni dei veri e propri stendardi ideologici ?
E’ divenuto davvero insopportabile che, soprattutto dopo la diffusione dei social network, la cifra che si coglie in ogni discussione è quella violenta e aggressiva della prevaricazione e della negazione della stessa legittimità dell’altro, chiunque esso sia, qualunque cosa dica.
Sappiamo tutti che molti di questi comportamenti dipendono dal pessimo esempio che spesso propinano sui mass media i tanti esponenti della classe dirigente che hanno ridotto il nostro dibattito pubblico ad una versione degradata delle dispute da bar dello sport, ma non sarebbe ora di darci un taglio una volta per tutte ?
Io so solo che è difficile, per chi è malato o sta vicino ad un malato, non vivere ogni opportunità che la scienza medica offre, come una speranza. So anche che la stessa scienza, come tutti i prodotti umani, spesso si divide più sulla base delle convinzioni ideologiche di chi la produce che sugli effetti oggettivi delle sue scoperte. E tuttavia compito di una classe dirigente, a tutti i livelli, è tentare di dare risposte a questi problemi, partendo dal principio della difesa ad ogni costo della vita umana e della sua dignità.
In fondo è ciò che Caterina ci ha chiesto con i suoi appelli, esprimendo fino in fondo la sua grande voglia di vivere. E francamente, di fronte alla lotta per la vita di una ragazza di 25 anni si dovrebbe avere soltanto il buon gusto di tacere e vedere come tutti possiamo fare qualcosa per salvarla.
Bastoniamo don Abbondio !!!
Ne I promessi sposi un personaggio centrale è certamente il curato don Abbondio, quello che minacciato dai “bravi” di Don Rodrigo, si rifiuta di celebrare le nozze tra Renzo e Lucia e innesca il complesso processo narrativo del romanzo manzoniano.
Don Abbondio è un personaggio comico nel suo crudo realismo: un povero prete di campagna messo di fronte ad avvenimenti più grandi di lui e che reagisce nell’unico modo che conosce, fuggendo dalle proprie responsabilità.
Quelle responsabilità alle quali lo richiama il cardinale Federigo Borromeo e che però trovano il nostro assolutamente incapace di comprendere. Le parole appassionate del cardinale, infatti, non lo smuovono, prova anzi disappunto nel riconoscere nelle argomentazioni dell’alto prelato le stesse che, all’inizio della storia, aveva usato con lui l’umile Perpetua, ha voglia di scappare e pensa tra sé “che sant’uomo, ma che tormento” fino a sbottare nella famosa frase: “Il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare”.
E’ questa frase che lo rende simpatico, quasi che Manzoni, da grande artista ci dica: si dovremmo prenderlo a bastonate a questa bestia, ma in fondo egli non può essere diverso da quello che è, un povero uomo piccolo piccolo, un ignavo di cui al massimo sorridere se non con comprensione almeno con indulgenza
E in verità il prete manzoniano le bastonate se le merita tutte: perché Don Abbondio è il classico debole con i forti e forte con i deboli. Si comprende questo aspetto del suo carattere quando la famosa notte in cui doveva celebrarsi il matrimonio a sorpresa, lo stratagemma con il quale lo strappano dal letto è la restituzione di un prestito, segno che il nostro era uso a prestar denaro ad interesse, un’attività tutt’altro che consona al suo ruolo di “pastore di anime”.
Don Abbondio nel momento cruciale sceglie la strada che gli sembra più semplice e non quella, certamente più difficile che pure Perpetua in tutta la sua umiltà, aveva saputo indicargli. Come tanti, come troppi.
Troppe volte chi dovrebbe prendersi le responsabilità, piccole o grandi che siano, del proprio ruolo, fugge o ne scarica il peso sugli altri senza curarsi che i danni del suo comportamento finiranno per pagarli tutti.
Senza contare che spesso sono proprio questi “don Abbondio” a indossare la veste dei moralisti o, peggio, degli implacabili inquisitori dei mali della “serva Italia, di dolore ostello”, senza riflettere sul fatto che di don Abbondio ce ne stanno in tutte le categorie: imprenditori, professionisti, giornalisti, dirigenti, funzionari, semplici impiegati, insegnanti, politici, operai, ecc., nella gente che semplicemente non fa il proprio dovere.
Perché fare il proprio dovere non significa “fare gli eroi” (nemmeno a Don Abbondio si chiedeva questo) ma semplicemente assumersi le proprie responsabilità.
Ecco perché i tanti don Abbondio dei nostri tempi, quelli che spesso sollevano forche e forconi sempre contro gli altri, dovrebbero interrogarsi su quante bastonate loro stessi hanno già meritato di beccarsi sul groppone.
Auguri a tutti di Buon Natale e Felice Anno Nuovo
I veri riformisti
I parlamentari 5 stelle sono saliti sul tetto di Montecitorio per protestare contro le possibili riforme costituzionali. Singolare che chi ha preso i voti per cambiare tutto oggi protesti per non cambiare niente, neanche la legge elettorale. In realtà sono veri riformisti: dal momento che il Parlamento fa acqua da tutte le parti sono andati ad aggiustare le grondaie.
INNOVAZIONE NON NUOVISMO
State certi che se volete strappare unanime consenso anche in una discussione informale prendendo un caffè al bar è sufficiente una tirata sulla necessità di novità: in politica, in TV, nello sport, ecc..
Il nuovo è affascinante per tutti, persino per i conservatori.
D’altro canto, come diceva Catalano buonanima, è retorico chiedersi se è meglio mettere un vestito vecchio e rotto o un vestito nuovo e sano.
La questione è assai più complessa quando si declina il nuovo come categoria della politica, soprattutto in una società come la nostra che, nei fatti, chiude ai giovani ogni prospettiva e ogni opportunità.
Liberare la società italiana e consegnarla alle giovani generazioni rappresenta una vera e propria emergenza democratica ed è uno dei primi compiti della politica, soprattutto della politica di una forza democratica.
Il tema che, però, viene quasi sistematicamente eluso, una volta enunciata la necessità del nuovo e del rinnovamento è quello di come questo nuovo e questo rinnovamento debbano essere effettivamente costruiti.
Qui vediamo che ci si ferma, per incapacità o per calcolo doloso, alla semplice enunciazione, alla proclamazione retorica ed indignata.
In questi anni, invece di costruire per davvero il nuovo si è messa in piedi una insopportabile retorica del nuovo, un nuovo senza alcun pensiero dietro, spesso semplificato al puro dato anagrafico, in una parola si è semplicemente declinato il “nuovismo del vuoto spinto”.
Le ultime elezioni ci hanno consegnato, ad esempio, un forte svecchiamento del Parlamento, ma non mi pare che le cose, almeno finora, stiano andando meglio, anzi.
Assistiamo infatti allo spettacolo di bravi ragazzi che, è l’esempio del Movimento 5 Stelle, per settimane e settimane hanno discusso di scontrini e ricevute. Oppure, nel PD, a giovani deputati così permeabili agli umori di pancia della rete da non garantire al partito che li ha eletti un minimo di tenuta nei momenti cruciali delle prove parlamentari.
La verità è che il nuovo senza un progetto politico, senza una idea di società, senza modelli di riferimento che lo sostengano è destinato a soccombere e a provocare, questo il danno maggiore, un effetto di reazione conservatrice che si riaffida spesso, per insicurezza e per tutela, sotto le ali del peggiore del vecchio.
Vi siete chiesti, ad esempio, perché, nonostante tutta la retorica del nuovo di cui è disseminato il nostro dibattito pubblico i sondaggi danno in crescita un vecchietto di 77 anni e in politica da venti di nome Silvio Berlusconi ?
La rivoluzione francese, il ’68, i grandi movimenti di massa che hanno prodotto profondi cambiamenti nella storia furono prodotti da grandi idee di liberazione portate avanti da persone nuove, non soltanto giovani ma soprattutto giovani.
Perché per produrre cambiamento e innovazione ci vogliono nuove idee non idee nuove.
Fabrizio Barca e il “catoblepismo” calabrese
Pubblicato su “Calabria Ora” del 12 maggio 2013
Alzi la mano chi conosce il significato del termine “catoblepismo”.
No, non preoccupatevi, credo che in Italia siano davvero in pochi, senza l’ausilio di Santa Wikipedia, a sapere che questa parola tanto astrusa significa “circolo vizioso”, rapporto distorto fra due soggetti di cui uno chiamato a controllare e l’altro ad essere controllato.
L’ex ministro Fabrizio Barca, oggi nelle vesti di nuovo commentatore del PD nel PD (categoria assai affollata di questi tempi) l’ha usata per definire la relazione distorta che è intervenuta spesso nel rapporto tra partiti e Stato.
Parola difficile usata nel contesto di ragionamenti colti, quelli che di solito animano il discorrere di Fabrizio Barca. Eppure qualcuno deve avergli consigliato di parlare un tantino più potabile e, infatti, nella sua visita in Calabria l’ex ministro ha sviluppato discorsi molto più chiari.
Ha detto, per esempio, che la Calabria è stata “mal governata anche dal centrosinistra”. Poi si è espresso con nettezza quando ha chiesto retoricamente riferendosi all’allagamento degli scavi di Sibari “dov’era il PD ?”.
Tutto condivisibile il discorrere di Barca salvo che nell’aver trascurato uno dei “catoblepismi” calabresi. Infatti, nei cinque anni di governo del centrosinistra in Calabria per tre anni la delega ai beni culturali (quindi competente sul parco archeologico di Sibari) è stata tenuta da uno dei suoi punti di riferimento calabresi, insieme alla vicepresidenza della Giunta regionale.
Senza trascurare il fatto che la personalità in questione fa parte di una scuola di economisti e maitre à penser che da anni ha costituito il centro di elaborazione e per lunghi periodi di gestione e direzione politica della programmazione dei fondi europei in Calabria, scuola di cui l’eminente prof. Fabrizio Barca è capofila.
Allora forse un tantino di prudenza maggiore sarebbe stata necessaria perché se saranno pochi i calabresi che conoscono il significato di “catoblepismo” certamente tutti conoscono la vecchia pratica del predicar bene e razzolare male di cui è pervasa non solo la politica ma anche l’intellighenzia prestata alla politica. E forse Fabrizio Barca la prossima volta farà bene a cambiare esempi per sostenere la sua “mobilitazione cognitiva”.
La blogger cubana Yoani Sanchez contestata a Perugia
Domenica scorsa la nota blogger cubana Yoani Sanchez era stata invitata a tenere una conferenza al Festival del giornalismo di Perugia. Proprio nel momento in cui stava per prendere la parola è stata rumorosamente contestata da una trentina di “castristi” italiani.
Che esistessero “castristi” in Italia mi giunge nuova. Non mi sorprende, però, l’intolleranza ideologica di certa parte della sinistra italiana, per fortuna elettoralmente e politicamente ormai assai marginale nel nostro Paese.
La giovane cubana che con grande sacrificio personale e non poche persecuzioni conduce la sua battaglia per la libertà di informazione nel suo Paese, ha espresso un commento che è stata come una lapide per i contestatori: “Anche noi a Cuba vorremmo protestare come hanno fatto loro. E’ bello vedere gente libera di manifestare e per questo li ringrazio. Le loro proteste rendono più alta la mia voce”.
La cosa più sorprendente è che questi “castristi” italiani si sono dimostrati anche più intolleranti di quelli originali, che comunque alla Sanchez hanno concesso un permesso per un ciclo di conferenze in Europa.
A Cuba sono stato anch’io, due volte. Del mito rivoluzionario di Fidel Castro e Che Guevara, sinceramente, ho ritrovato ben poco. Solo molta miseria, una popolazione comunque molto dignitosa e, nonostante tutto, allegra.
La stessa allegria con la quale dico ai “castristi” italiani: “una risata vi seppellirà”.
IL VERO COLPEVOLE…
CLAMOROSO !!!
Finalmente lo abbiamo scoperto. E’ lui il grande vecchio, l’oscuro che trama nell’ombra, il responsabile di tutti i problemi d’Italia, della mafia, della ndrangheta e della camorra, l’artefice della discesa in campo di Berlusconi, quello che sta dietro al problema della monnezza di Napoli e del mare sporco in Calabria. Si, è proprio lui, il malefico, geniale, imprendibile CATTIVIK !!!
Dalla “Calabria barbara” alla Padania familista amorale…
Oggi sono stato a Nocera Terinese ad assistere alla processione di Pasqua e al rito dei “vattienti”. Grazie alla guida accorta e competente del mio caro amico Pasquale Motta, che di quel comune è stato Sindaco, ho potuto vedere da vicino un rito antichissimo, per molti versi emozionante, di cui avevo conoscenze, lo confesso, solo libresche e televisive.
Pasquale mi ha raccontato come talvolta i media nazionali ed internazionali si siano interessati a questa tradizione, che affonda le sue origine in più di mezzo millennio di storia, ma che l’approccio è stato spesso assai simile a quello che avrebbero avuto nei confronti di una tribù di cannibali, se ne esistono ancora sulla faccia della terra. Nessuno sforzo cioè di capire, neppure la fatica di leggersi qualche serio studio antropologico (io ho ancora vivo il ricordo di quello straordinario libro di Lombardi Satriani, Il Ponte di san Giacomo, che si dovrebbe studiare nelle scuole), solo il fermarsi alla superficie, alle immagini, certamente forti, di uomini che si procurano ferite sanguinanti nei giorni che ricordano la Passione di Cristo e giudicarle come rito pagano, barbaro, violento, primitivo. E giù con nuove prove da dare al vecchio pregiudizio sulla Calabria, anch’essa barbara, arcaica, naturalmente violenta.
Quante volte antichissime tradizioni religiose sono state trattate dai media solo per l’uso che di alcune (e in alcuni assai limitati casi) ne hanno fatto le organizzazioni criminali e mafiose. Il tutto messo in un calderone indistinto, in cui Calabria, mafia, sangue, paganesimo, religione cattolica, diventano gli ingredienti di un polpettone alla Mario Puzo.
La cosa più drammatica però è che spesso sono stati alcuni calabresi e meridionali i primi consumatori e propagatori di questo polpettone. Gli stessi, per capirci, che oggi si indignano per le parole di un Crosetto qualsiasi e tessono le lodi di un Giorgio Bocca che sul Sud e sulla Calabria ha detto cose forse peggiori.
No, niente di nuovo sotto il sole di questo nostro sciagurato Paese in cui è più facile giudicare che capire. Un Paese tanto ubriaco dei suoi pregiudizi in cui non c’è nessuno capace di fare come il bambino che dice “il re è nudo”, cioè dire a piena voce che le teorie di Banfield e di Putnam sul “familismo amorale” e sulla mancanza di “senso civico” che sarebbero caratteristiche peculiari e storicamente strutturate del Mezzogiorno si sono dimostrate delle emerite cazzate di fronte ai fatti.
E i fatti oggi ci rappresentano un Paese in cui il malaffare è invece equamente distribuito a tutte le latitudini e che anzi proprio nella sua parte più ricca e più “civile” in questi anni è cresciuto un movimento, questo si, barbaro, arcaico e pagano, che ha trasformato in politica tutti i più truci pregiudizi razzisti nei confronti del Sud con tanto di simbologia celtica e cappelli cornuti (contenti loro) il cui leader, scopriamo oggi, pare si facesse ristrutturare casa e comprare un diploma di laurea per il figlio irrimediabilmente “ciuccio” con i soldi del partito.
No, non ho dimenticato i fiumi di inchiostro né la reverenza rispettosa dei media nazionali di fronte alle pagliacciate delle ampolle, dei raduni di Pontida, persino dei rumori corporali di Bossi scambiati per profonde analisi politiche (sic). Né ho dimenticato che tutta la politica nazionale degli ultimi anni è stata condizionata dalla Lega e dal paradosso della nascita della questione settentrionale che è come se un energumeno prendesse a schiaffi un mingherlino e gli dicesse “chiedimi scusa perché ti meno”.
Nel dire questo non giustifico i nostri difetti di calabresi e meridionali che certamente sono tanti, né sostengo la tesi del “mal comune, mezzo gaudio”. Dico solo che alla Calabria e all’Italia intera bisogna parlare il linguaggio della verità e non più quello del pregiudizio, sforzandosi di capire finalmente quello che siamo, da dove veniamo e scegliendo insieme dove vogliamo andare.
Io credo che su questo si misuri la vera sfida di una nuova classe dirigente. Una classe dirigente che deve imparare ad amare questa terra, smettendola, una volta per tutte, di limitarsi a giudicarla.
QUESTIONE ROM: L’INTEGRAZIONE E’ UN DOVERE SIA PER CHI ARRIVA SIA PER CHI OSPITA.
Diciamoci la verità, per poco non ci è scappato il morto con l’incendio nel “villaggio” ROM sul fiume di Cosenza. Senza contare le condizioni vergognose in cui vivono le persone in quella “favela”, tra sporcizia, topi e il rischio continuo che il fiume se li porti via con un’ondata di piena improvvisa. Oggi apprendiamo del rifiuto dei 60 scampati all’incendio a trasferirsi nella ex scuola “Don Milani” e a voler restare lì, in quelle condizioni degradate. Tutto ciò ci pone di fronte alla domanda: può una città civile consentire che 500-600 persone vivano in quelle condizioni, a rischio della loro stessa incolumità fisica ? Può, nello stesso tempo, accettare la pervicace ostinazione a voler restare in quelle condizioni ? Si può legittimare questa ostinazione, spesso dettata da motivazioni ben poco nobili, con la costruzione di un villaggio (eco, temporaneo o a numero chiuso che sia) che nei fatti diventerà l’ennesimo ghetto ? Massimo Converso, presidente dell’Opera Nomadi, giustamente si batte contro questa soluzione. I villaggi di quel tipo legittimano solo l’evasione scolastica, la volontà di non essere censiti e di occultare attività spesso “utilizzate” come manovalanza a basso costo dalla malavita.
Dovunque l’integrazione è avvenuta quando culture si sono mescolate, tollerandosi ed accettandosi con quella ospite, rinunciando certo, a parte di sé ma per il supremo bene della convivenza e della sicurezza collettive. Il nostro ordinamento, ad esempio, non consente, giustamente, la poligamia o il burka, pur difendendo il diritto di tutti a professare la propria fede.
Se la nostra casa è pericolante e mette in pericolo la nostra sicurezza e quella degli altri il nostro ordinamento prevede, giustamente, l’evacuazione di quella casa anche in deroga al nostro diritto di proprietà su quell’immobile.
Sono regole elementari che tutti, nel nostro territorio, sono tenuti a rispettare. E se persisto nel volerle non rispettare posso essere, legittimamente, invitato ad andar via.
Nel 2007 il “villaggio” sul fiume Crati fu sgombrato e i suoi abitanti, grazie ad un’azione congiunta di Prefettura, Comune, Provincia e Curia furono trasferiti in case reperite (non senza difficoltà) dal Comune e nei comuni dell’hinterland. Non durò molto perché i rom abbandonarono le case e tornarono sul fiume, con alterchi e risse scoppiate tra coloro che volevano comunque accettare le soluzioni offerte e quelli che invece si ostinavano a restare nella baraccopoli. Ci fu anche una polemica, che coinvolse il sottoscritto, che ribadiva la bontà della scelta del 2007, e alcune cosiddette associazioni “antirazziste” che chiedevano l’allestimento di un villaggio perché i rom sono naturalmente “nomadi” e quindi naturalmente portati ad abitare in baracche. Fui preso a male parole anche quando criticai la cosiddetta “scuola del vento” messa in piedi da queste associazioni, una iniziativa che allestiva una scuola per i bambini nella baraccopoli mentre gli scuolabus del Comune continuavano a viaggiare vuoti, nonostante l’impegno degli amministratori e di alcuni dirigenti scolastici di allora di dotare alcuni istituti di una politica di accoglienza e persino di docce per dei bambini che, vivendo all’addiaccio, non potevano certamente essere al massimo dell’igiene (una decisione presa tra le proteste dei genitori dei bambini italiani che inscenarono vivaci manifestazioni). Ma questa è la strada dell’integrazione, difficile, ma senza alternative.
Sarò antico, potrò non essere un esperto di antropologia, ma io continuo a pensare che vivere in una baracca in campi-ghetto, anche se dotati di minimi servizi essenziali, non possa essere un esempio di integrazione. Continuo a pensare che l’integrazione scolastica si svolga nelle scuole, mettendo insieme bambini di diversa cultura ed etnia e sia inaccettabile che possano esistere scuole diverse per bambini diversi. Io continuo a credere che abbia ragione Massimo Converso quando propone di persistere sulla soluzione del 2007 e a rifiutare la logica dei ghetti. Perché a nessuno è consentito di rifiutare le regole del posto in cui vive e pretendere la legittimazione di una illegittimità. Perché integrarsi è un dovere sia per chi arriva sia per chi ospita, sempre.