Cultura
Il Piave mormorò: “Fuoco sulla Brigata “Catanzaro” ! di Mario Aloe
di Mario Aloe
Il giallo dei campi della Calabria lo aveva negli occhi, dalla sua casa, adesso, avrebbe potuto guardare il mare celeste tingersi dei colori della sera. Sognava e nella mente scorrevano immagini che gli accarezzavano il cuore riempiendo il ricordo fino a sfinirlo, mentre punte di malinconia gli afferravano l’animo.
Presto la sera si sarebbe portata con se il grecale e il buio avrebbe suonato le note della notte, una serenata di grilli e rane gracidanti. Anche qui era caldo, un caldo che le prime ombre avevano fugato come se un panno bagnato fosse passato sulla fronte lasciandosi dietro una scia di umido, che non era riuscita a rinfrancare il corpo .
Il sudore della giornata si era trasformato in un velo appiccicaticcio che avvolgeva la pelle.
Quindici luglio; erano nel paese dalla fine di Giugno di ritorno da mesi di prima linea e di combattimenti all’arma bianca. Un meritato riposo che il comandante dell’armata, il duca d’Aosta, aveva accordato ai due reggimenti della brigata. Se lo erano meritato il riposo.
Quindici luglio a Santa Maria La Longa, anche stanotte avrebbero dormito al chiuso, sulla paglia dopo aver mangiato un pasto caldo e non la sbobba che arrivava in trincea. La pasta e poi il pane e forse un pezzo di carne.
“Mike, ci vogliono rimandare al fronte, domani ci porteranno a morire. Mike l’ho saputo dal portaordini che è arrivato dal comando di divisione. Siamo carne perduta, uomini senza futuro.” Gli parlava Tonino, con quel suo accento siciliano, articolando le parole in preda ad un profondo stato di agitazione. “Lo sanno già tutti, altri hanno parlato con gli ufficiali, la notizia è sicura. Mi hanno mandato da te, pensano che tu possa parlare con il Poeta, che le tue parole possano ottenere il rinvio della data del ritorno sul Carso”.
Lo ascoltava e ancora non riusciva a rendersi conto dell’accaduto. Possibile che ci fanno ritornare sul Carso? Di nuovo al centro del massacro come se il sacrificio compiuto il 23 e 24 maggio non fosse bastato. Continua a leggere
Il senso di una ricorrenza di cento anni fa.
Articolo su “Il Quotidiano del Sud” del 4 novembre 2018
Mi sono sempre domandato cosa possono dire ai ragazzi di oggi gli elenchi di nomi che campeggiano sui tanti monumenti dedicati ai caduti della prima guerra mondiale e che ormai fanno parte della geografia urbana di tutti i nostri comuni, dalle Alpi fino a Trapani.
Credo non molto. Al massimo il ripetersi di alcuni cognomi avrà spinto qualcuno a chiedersi se quel soldato di cento anni fa fosse un lontano parente.
Eppure a 100 anni distanza il 4 novembre resta una ricorrenza vissuta a metà.
Non è questa la sede per analizzare il difficile rapporto che la società italiana ha sempre avuto con la propria storia. Basti pensare alle discussioni che ancora oggi si aprono puntualmente in occasione del 25 aprile, sullo stesso 2 giugno.
In questo contesto va letto il recente tentativo operato da alcuni settori della destra politica di recuperare il 4 novembre e la memoria della Grande Guerra all’interno delle spinte neosovraniste e neonazionaliste che interessano numerosi paesi europei, Italia compresa.
In verità, a partire dalla Presidenza di Carlo Azeglio Ciampi si è assistito ad una certa inversione di tendenza che non ha mancato di influire sulla coscienza collettiva del Paese che oggi tende a riconoscersi più facilmente in un comune quadro di valori nazionali.
La patria, le sue istituzioni, comprese le sue forze armate, appartengono a tutti, così come i valori democratici che si incarnano nelle ricorrenze del 25 aprile e del 2 giugno.
Le parole “patria” e “viva l’Italia”, del resto, erano le ultime che venivano pronunciate dai condannati a morte della Resistenza, come testimoniano le loro lettere.
Ecco perché una parte del ceto politico dovrebbe smetterla di usare le divisioni del passato per cercare di tenere in piedi le proprie identità nel presente: è vera politica, invece, quella che sa riconoscersi in un comune quadro di valori e dividersi, come è giusto che sia, solo su cosa fare nel presente.
Ai giovani di oggi abbiamo il dovere di offrire una comunità nazionale aperta, democratica, protesa alla cooperazione internazionale, che ripudia la guerra e si fonda sul diritto per come delineato dalla nostra Costituzione.
In questo senso ricordare il 4 novembre significa non solo celebrare la fine di una delle guerre più sanguinose della storia ma riflettere su alcuni elementi decisivi per la costruzione dell’Italia di oggi.
La guerra che si concluse il 4 novembre del 1918 fu, infatti, un evento che ha segnato la storia italiana in maniera forse più profonda rispetto agli altri paesi europei.
In Italia, infatti, il consenso alla guerra riguardava una minoranza, sia pure particolarmente attiva composta da intellettuali come D’Annunzio, dai futuristi, ma anche da personalità di cultura democratica come Salvemini, una frangia dell’estrema sinistra sindacalista-rivoluzionaria, i repubblicani, i nazionalisti, i liberali moderati, alcuni settori della industria pesante e parte della Corte. Su posizioni neutraliste erano invece i liberali di sinistra che facevano riferimento a Giovanni Giolitti, i socialisti, i cattolici, vale a dire la stragrande maggioranza del Paese e del Parlamento. Per portare il paese in guerra il governo dell’epoca, (Governo Salandra), sfiorò la crisi istituzionale perché non aveva maggioranza parlamentare e, nei fatti, operò un “colpo di stato” surrettizio. Ben altra cosa accadde negli altri paesi europei, con manifestazioni di piazza e arruolamenti volontari di massa nelle prime settimane di guerra e persino i partiti socialisti che votavano per la guerra nei diversi parlamenti.
Inoltre, la guerra cominciata il 24 maggio 1915 (un anno dopo gli altri paesi coinvolti nel conflitto) fu condotta, almeno fino alla disfatta di Caporetto nell’autunno del 1917, con metodi brutali e con assoluta indifferenza per la sorte di quella moltitudine di soldati contadini, mandati a morire in azioni disperate e prive di senso.
Solo l’Italia, ad esempio, trattò i suoi prigionieri caduti in mano all’esercito austro-ungarico come vili, disertori, rifiutandosi di sottoscrivere con gli avversari specifici accordi (come avevano fatto ad esempio inglesi e tedeschi) per garantire comunque l’assistenza alimentare e perseguitando perfino le loro famiglie negando ad esse i sussidi di guerra.
L’uso indiscriminato dei processi sommari, delle fucilazioni e delle decimazioni come quella inflitta alla Brigata “Catanzaro” nell’estate del 1917, reparto composto prevalentemente da calabresi che pure si era coperto di gloria nel corso della guerra per il suo coraggio, rappresentano la prova più evidente di un atteggiamento diffuso in tutti gli eserciti ma che nel nostro si colorava dell’antico disprezzo per le classi subalterne chiamate solo ad obbedire senza discutere. Molti soldati furono fucilati semplicemente perché parlavano il dialetto, e gli ordini, in italiano, suonavano loro incomprensibili.
Eppure quella guerra, quella “inutile strage”, come la definì papa Benedetto XV cercando inutilmente di fermarla con una accorata lettera nell’agosto del 1917 ai capi degli stati belligeranti, quei soldati-contadini continuarono a combatterla, a prezzo di immani sacrifici, per salvare una nazione che non avevano mai conosciuto e che a loro si era manifestata soltanto con il volto arcigno della repressione.
Fu nelle trincee, nella quotidiana condivisione della morte imminente che maturò un concetto di patria che finalmente non veniva imposto da una vuota retorica ma dalla necessità di salvare la propria vita, la propria terra, la propria famiglia, il proprio mondo.
Fu in quei quattro anni e mezzo che uomini, ragazzi di 18 anni, provenienti da ogni parte del Paese, di estrazioni sociale diversa (il ruolo degli ufficiali di complemento, per lo più di estrazione piccolo-borghese che erano più a contatto con la truppa, fu decisivo) entrarono per la prima volta in contatto, nella comune sofferenza.
La prima guerra mondiale rappresentò la prima vera esperienza collettiva di una nazione giovane, divisa, ancora immatura. E riuscì a vincerla, a costo di 650mila morti i cui nomi sono scolpiti su quei monumenti che oggi neppure guardiamo, solo perché seppe trovare, ad un certo momento, le ragioni dell’unità, del comune riconoscimento.
Una esperienza che si ripeterà in altre circostanze nel corso della nostra storia, tutte drammatiche: l’8 settembre del 1943, la nascita della Resistenza e la Liberazione; gli anni di piombo, il delitto Moro e la sconfitta del terrorismo. Sembra quasi che l’Italia dia il meglio di sé nei momenti più difficili.
Ricordare, dunque, questi eventi, forse ci farà trovare quelle energie necessarie a fare in modo che questa nostra Italia si senta quella bella, grande e generosa comunità che è, tutti i giorni e non soltanto quando è costretta a vivere l’ennesima tragedia.
Il Quotidiano del Sud del 4 novembre 2018
Il grande inganno del razzismo
Sui pregiudizi facciamo un esempio
I pregiudizi sono più numerosi delle stelle in cielo. Quello sugli “zingari” è il più diffuso: sono tutti ladri. Del resto è anche quello che sembra più vicino alla realtà. Ma ne esistono di altri: ad esempio i calabresi sono tutti mafiosi. Sappiamo tutti che è mafiosa una infima minoranza in Calabria. Ma chi, viaggiando, non ha subito battute del tipo: Calabria ? Mafia. Ora facciamo un esempio per assurdo semplice semplice. Anche se il 99,9 per cento dei calabresi fosse mafioso non si potrebbero arrestare tutti i calabresi. Ma solo quel 99,9 per cento, uno per uno, sottoporlo a processo e, se colpevole del reato, condannarlo. Gli Stati di diritto funzionano così. I diritti dei singoli sono garanzia dei diritti di tutti. Ci vogliamo pensare o no ?
Per tutti quelli che non capiscono
In Italia come nel resto del mondo siamo tutti censiti come popolazione residente. È una funzione che spetta ai comuni. È CENSITA TUTTA LA POPOLAZIONE RESIDENTE. Quindi compresi stranieri extra UE, cittadini UE, Rom e Sinti, ecc.. Si è censiti sulla base dei principi sanciti dall’art. 3 della Costituzione. Quindi non si può essere censiti su base etnica, religiosa, politica, di orientamento sessuale, ecc.. Mi sembra una cosa semplice da capire. Lo stesso Salvini l’ha capita e ha corretto le sue dichiarazioni. L’ultima volta che fu fatto un censimento su base etnica fu durante il fascismo. Per gli ebrei. Si capisce perché qualcuno si preoccupa, o no ? Figuriamoci che negli anni 50-60 fu tolta persino la paternità dalle carte di identità per evitare discriminazioni per i figli di NN. Adesso speriamo la capiscano tutti. Chi non la capisce vuol dire che non vuole capire.
Ricordare Luigi Tarsitano
È venuto a mancare Luigi Tarsitano, dirigente del PCI e consigliere regionale degli anni ‘80. Negli ultimi anni aveva dedicato la sua attività all’Unione Nazionale per la Lotta all’Analfabetismo, storica e benemerita associazione protagonista delle campagne di alfabetizzazione in Calabria negli anni ‘50 e ‘60, di cui era Vicepresidente. Soprattutto in questa veste lo avevo conosciuto agli inizi degli anni ‘90 quando conducevo ricerche per il mio libro “I pionieri dell’alfabeto” dedicato proprio all’esperienza dell’UNLA in Calabria. Uomo di straordinaria cultura, appartenente ad una famiglia di giuristi (il fratello Fausto operò a Roma dove difese i partigiani di Via Rasella e partecipò a importanti processi come il processo Valpreda, Antonio è stato uno degli avvocati calabresi più importanti degli ultimi decenni, e l’altro fratello Elio) e di dirigenti politici della sinistra, lascia alla nostra comunità regionale il dovere della memoria collettiva dell’esempio alle giovani generazioni di cui si sente davvero il bisogno.
Dal film “Mississippi Burning. Le radici dell’odio”.
“Sai, quando ero un ragazzino, c’era un vecchio contadino negro che viveva lungo la strada da noi. Si chiamava Monroe. E lui era, uh, beh, suppongo che fosse solo un po’ più fortunato di quanto lo fosse il mio papà. Si era comprato un mulo. Era un grosso problema in quella città. Ora mio papà odiava quel mulo, perché i suoi amici lo prendevano in giro: “oh, hai visto Monroe uscire con il suo nuovo mulo?” e “Monroe affitterà un altro campo ora che ha un mulo”. E una mattina quel mulo fu trovato morto. Avevano avvelenato l’acqua. E dopo questo nessuno parlò di quel mulo a mio padre. Non se ne parlò più. Una volta, siamo andati al bar lungo la strada e abbiamo superato la casa di Monroe e abbiamo visto che era vuota. Aveva appena fatto le valigie e se n’era andato, immagino. Andato al nord, o qualcosa del genere. Ho guardato il viso di mio padre – e sapevo che l’aveva fatto. E ha visto che lo sapevo. Si vergognava. Immagino che si vergognasse. Mi guardò e disse: “Se non sei migliore di un negro, figlio, di chi sei meglio ?“. Era un uomo vecchio così pieno di odio che non sapeva che era la sua povertà ciò che lo stava uccidendo”.
Ci possiamo riflettere su ? Grazie.
L’angoscia che rafforzò la democrazia
40 anni fa. Ricordo il senso di angoscia che colsi in mio padre e mia madre quando, tornato da scuola (ero alle medie) mi dissero che avevano rapito Moro. Ricordo il dolore popolare che quasi si toccava, nei discorsi di tutti, quando fu rinvenuto il suo cadavere. La morte di Moro costituì uno spartiacque. L’Italia si strinse attorno alla sua democrazia così fragile e decise di difenderla. Comunque. Da ricordare a chi, con troppa disinvoltura, tratta le istituzioni democratiche spesso con sufficienza e superficialità.
Antonio Gramsci ad 81 anni dalla morte
“Il fascismo si è presentato come l’anti-partito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano”.
(Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, 26 aprile 1921)