Cultura
A Paola convegno su “la Buona Scuola” dell’Istituto “Pizzini-Pisani”
Si terrà venerdì 14 novembre a partire dalle ore 15,30 presso l’Auditorium del Complesso “S.Agostino” di Paola un convegno sul documento “La Buona Scuola” per il quale il Governo Renzi ha avviato un’ampia consultazione di tutte le componenti del sistema scolastico italiano.
Il convegno, organizzato “in rete” dalla dirigente scolastica del “Pizzini-Pisani” dott.ssa Alisia Arturi, dalla dott.ssa Elena Cupello (Dirigente dell’IPSEOA “S. Francesco”), dalla dott.ssa Anna Filice (Liceo “G. Galilei”), dalla dott.ssa Sandra Grossi (IC “F. Bruno”), dalla dott.ssa Margherita Maletta (IC “Gentili”) e dalla dott.ssa Ester Perrotta (Scuola Paritaria), presenta un ricco programma di qualificati interventi.
Dopo la presentazione della D.S. del “Pizzini-Pisani” dott.ssa Arturi, il saluto del Sindaco Basilio Ferrari e della consigliere comunale Maria Pia Serranò, il convegno, moderato dal Dirigente in quiescenza Dott. Giorgio Franco, vedrà gli interventi del Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale Dott. Diego Bouchè, del Direttore del CSA di Cosenza Dott. Luciano Greco e del Dirigente Tecnico del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca Dott. Maurizio Piscitelli e, ovviamente, delle dirigenti scolastiche della “rete”.
“Vogliamo – ha dichiarato la dott.ssa Arturi – che questo convegno sia una occasione di confronto sui temi posti dal documento del Governo.
Su alcune questioni, come la valutazione, il dibattito è aperto ed ha registrato anche numerosi interventi sulla piattaforma online del Ministero. Da Paola, con il convegno di venerdì, sono certa che tutti insieme le componenti del sistema formativo, a partire dalla scuola e dalle famiglie, sapremo dare il nostro contributo di idee e proposte”.
Intervista alla Dott ssa Alisia Rosa Arturi, Dirigente dell’IIS “Pizzini-Pisani” Paola.
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Locandina convegno 14 novembre
VIDEO
La caduta del Muro di Berlino non ha significato la fine della storia.
Quando 25 anni fa il popolo di Berlino abbatté il Muro che divideva la città ed era diventato il simbolo stesso della Guerra Fredda, tutti fummo certi di trovarci di fronte ad una di quelle svolte inaspettate che la storia talvolta ci consegna.
In particolare, per molti, fu la conferma che il liberalismo e non il socialismo nella forma che storicamente si era realizzata, rappresentasse l’unico approdo possibile della vicenda umana.
Un filosofo neo-hegeliano nippo-americano, Francis Fukuyama, scrisse un fortunato saggio il cui titolo ha finito per segnare un’epoca: La fine della storia e l’ultimo uomo.
In particolare, con grande ottimismo “progressivo”, Fukuyama individuava nel modello liberale e liberista l’unico sbocco possibile per una società mondiale che, dopo il crollo del comunismo, finalmente si avviava ad una definitiva stabilizzazione.
La storia, testarda, smentirà questa tesi sin da subito. le due guerre in Iraq, lo scoppio dello scontro etnico-religioso in Jugoslavia nel cuore stesso della civilissima Europa, l’Afghanistan, la grande minaccia terroristica con l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre del 2001 fino alla drammatica minaccia dell’Isis di questi giorni.
Il mondo dopo il Muro non solo si è scoperto più incerto e più insicuro ma sono riaffiorati “mostri” antichi, quasi medievali, come l’intolleranza etnica e religiosa, il razzismo, il genocidio, le persecuzioni dell’uomo sull’uomo.
A queste crisi si è cercato di rispondere con una applicazione (piuttosto rozza, a dire il vero) della teoria sullo scontro di civiltà basato sul famoso libro di Samuel P. Huntington, che è stato tradotto dalla destra americana nella considerazione della inevitabilità delle crisi e nell’illusione, spesso pretestuosa, della “esportazione militare della democrazia”.
Intanto in tutto l’opulento Occidente una crisi economica senza precedenti morde settori sempre più ampi della società sospingendo milioni di persone verso la povertà e l’emarginazione.
A questa crisi si continua a pensare di poter rispondere con la destrutturazione del welfare e la messa in discussione di diritti che sembravano ormai acquisiti.
Tutto ciò nasce dalla mancanza di un’analisi seria su ciò che è davvero accaduto a partire dal 9 novembre del 1989, e cioè che la fine del socialismo reale non poteva tradursi né in una espansione illimitata della democrazia liberale e dei suoi valori secondo l’illusione di Fukuyama né nella pessimistica rinuncia a questa prospettiva e nel prono affidarsi alle leggi del mercato e della forza.
Non si è mai voluto riconoscere che il flusso della storia che aveva generato il marxismo e persino lo stesso leninismo non era stato una cesura rispetto al liberalismo ma una sua conseguente continuazione. Fu, invece, la deformazione autoritaria e totalitaria iperpoliticista scaturita dalla Rivoluzione d’Ottobre e codificata dallo stalinismo la vera cesura e deviazione, l’unica che bisognava davvero archiviare con la caduta del Muro.
Tuttavia, se oggi sono molti i liberali che tornano a rileggere Karl Marx vuol dire che forse qualcosa sta cambiando e che si sta tornando a guardare alla storia senza gli occhiali deformanti dell’ideologia (come, del resto, ci insegnava a fare proprio il vecchio Karl !!!).
Il volo del grillino
Non so attraverso quali ragionamenti e considerazioni di marketing elettorale il candidato grillino della Calabria ha deciso di utilizzare come strumento di propaganda il buttarsi da un’altura di Praia con il parapendio. Dice il nostro – voglio dimostrare di avere il coraggio di governare la Calabria – . La cosa mi ricorda quelle sfide tra ragazzi quando, ad esempio, per dimostrare di essere uomini ci si buttava senza freni con la bici da una discesa di 50 gradi. Di certo emerge la dimensione di un “dannunzianesimo de noartri” che, sotto una estetica eroicomica come la traversata a nuoto dello Stretto del Caro Leader, cela la mancanza di un minimo di idea di cosa andare a fare se eletti nelle istituzioni. Lo spettacolo di 140 parlamentari accampati a Roma affaccendati in liti via web su scontrini e fatture o sul presunto complotto della Spectre per governare il mondo ne rappresenta la plastica dimostrazione. In ogni caso auguro a Cono Cantelmi di avere miglior fortuna dei miei amici di gioventù che nella sfida con la bici in discesa spesso si rompevano la testa.
Grillo la mafia l’ha vista solo al cinema
Le parole pronunciate da Grillo sulla mafia non devono sorprendere.
Vale, invece, la pena riportarle per comprenderne senso e portata: “La mafia è stata corrotta dalla finanza, la mafia non metteva bombe nei musei o uccideva i bambini nell’acido, prima aveva una sua condotta morale…“.
Lo dico subito, non son parole di sen sfuggite, ma una provocazione studiata e calcolata, come tutte quelle che caratterizzano il cianciare del nostro.
Insomma, Grillo ha detto che la mafia aveva prima una “condotta morale” perché ne è davvero convinto e perché pensa che molti la pensano come lui.
Siamo di fronte alla riproduzione populista di un tema che ha avuto ed ha una certa diffusione, l’idea cioè di una mafia regolatrice, garante di certe regole, sia pure violente, ma in fondo ispirate ad una forma di etica ancestrale.
Questa rappresentazione della mafia (o meglio delle mafie) violenta e terribile, ma in fondo animata da un qualche senso di giustizia che viene rovinata dagli interessi più grossi (ricordiamo, ad esempio, che il conflitto ne “Il Padrino” si scatena per il rifiuto del vecchio boss ad entrare nel mercato della droga), emerge ancora oggi in alcune rappresentazioni cinetelevisive o letterarie.
Si tratta niente di più che di pura paccottiglia culturale e, per di più anche diseducativa, visto che alimentano l’idea di una criminalità in fondo “positiva”, di uomini che non vogliono essere “pupi” ma che si affermano con intelligenza e determinazione e magari solo “costretti” alla violenza.
Quello che sfugge a Grillo ed a tanti che la mafia l’hanno vista solo al cinema ed alla TV, è la sua vera natura, che è stata, nonostante le evoluzioni, sempre la stessa: una organizzazione che tende ad accumulare ricchezza e potere ai danni dei più deboli con l’uso della coercizione morale e della violenza fisica.
Sin dai tempi in cui vessava contadini e pastori in difesa degli interessi dei latifondisti, le mafie non sono mai state dalla parte del popolo, ma solo uno strumento della sua oppressione.
Oggi, come ieri, le mafie sono il principale ostacolo allo sviluppo, alla libertà individuale e di impresa, all’affermazione dei diritti. Sono, in una parola, le principali avversarie della democrazia.
Alla faccia della “condotta morale”.
La carcerazione preventiva è una vergogna per tutti, parlamentari e non…
Ho scelto volutamente di non scrivere nulla quando fu concessa l’autorizzazione all’arresto di Franco Antonio Genovese, deputato del PD.
Non volevo espormi alla critica, troppo semplice, di fare il garantista soltanto con quelli della mia parte politica.
Scelgo, invece, di parlare dell’autorizzazione all’arresto concessa dalla Camera per Giancarlo Galan.
I casi sono diversi ma presentano caratteristiche simili: a seguito di indagini da parte delle competenti procure è stato chiesto alla Camera la possibilità di procedere all’arresto preventivo per i due deputati.
Nel nostro ordinamento, vorrei ribadirlo, l’arresto preventivo si configura solo per alcuni casi ben specificati dal codice: pericolosità sociale, pericolo di fuga o di inquinamento delle prove.
Senza entrare nel merito dei diversi procedimenti, nei due casi specifici non mi pare ci trovassimo di fronte alle situazioni menzionate.
Nel caso di Galan, addirittura, la Camera ha concesso l’autorizzazione prima ancora che il Tribunale della Libertà si pronunciasse sulla istanza dei legali del parlamentare contro la richiesta di arresto. Una solerzia incredibile.
Il tutto mentre in Italia impazza il dibattito sull’immunità parlamentare che, come giustamente scrive oggi Pierluigi Battista sulle colonne del “Corriere della Sera”, è stata ridotta ad un simulacro rispetto a quella pensata come strumento per garantire l’autonomia dei parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni dai nostri padri costituenti.
Si è passati da una immunità prima garantita a tutti a prescindere a quella concessa solo agli amici di partito o concessa a prescindere. Con l’ipocrisia della lettura delle carte (quasi sempre alcune migliaia) e l’aggravante che nella maggioranza dei casi i parlamentari arrestati o no (vedi i casi di Papa e Tedesco) sono risultati innocenti.
La verità è che l’abuso che si fa della carcerazione preventiva è un obbrobrio in sé, sia per i politici (condizione che è diventata un’aggravante non scritta dei nostri codici) sia (e soprattutto) per tutti i cittadini.
Oggi il 40 % dei detenuti nelle nostre carceri è in attesa di giudizio o di sentenza definitiva, vale a dire, a norma della Costituzione più bella del mondo di cui si riempiono la bocca i giustizialisti di ogni ordine e grado, innocenti.
Un paese che tiene o manda in galera persone prima che una giuria li giudichi colpevoli con sentenza definitiva è un paese incivile.
Siamo sicuri che è questo il paese che vogliono gli italiani ? Ora che la scusa Berlusconi non c’è più di questi temi si potrà parlare liberamente, o no ?
Giovanni Giolitti, un vero statista.
Il 17 luglio del 1928 moriva all’età di 86 anni Giovanni Giolitti, uno dei pochi grandi statisti italiani.
Dico pochi, perché l’Italia non ha avuto grandi uomini di Stato: facendo uno sforzo enumerativo non riempiono le dita di una mano: Cavour, lo stesso Giolitti, De Gasperi, in qualche modo Bettino Craxi.
Per altri l’esperienza di governo è stata troppo breve o segnata dall’appartenenza a forze politiche di opposizione o minoritarie (penso a Nenni o allo stesso Togliatti).
Giovanni Giolitti fu, pienamente, un uomo di Stato e di governo.
Giolitti riteneva che l’Italia non avrebbe mai potuto diventare un paese moderno e pienamente inserito nel contesto delle grandi potenze europee del tempo, se non avesse allargato le basi della democrazia, condizione necessaria per lo sviluppo economico e sociale.
Pensava, giustamente, che non ci può essere sviluppo economico senza consenso e senza che a goderne siano tutte le classi sociali.
Era un liberale puro, che individuava nel Parlamento l’unico luogo dove i diversi e spesso contrastanti interessi della società italiana potessero trovare rappresentanza e risposte.
Credeva, in buona sostanza, nella centralità della politica e per questo fu il principale bersaglio delle spinte antipolitiche e irrazionaliste che cominciarono a pervadere la società italiana nel primo decennio del Novecento.
Contro Giolitti ed il giolittismo fu scatenata una vera e propria guerra che riecheggia molte parole d’ordine di oggi: nuovo contro vecchio, politicanti contro popolo (casta e anticasta), piazza contro Parlamento, ecc..
L’Italia antigiolittiana porterà il paese in una guerra sanguinosa e disastrosa e, poi, nel disordine politico e sociale propedeutico all’avvento della dittatura fascista.
Giolitti, dopo un iniziale riconoscimento del Governo di Benito Mussolini (che lo considererà, a ragione, il suo principale avversario politico) si ritirerà a vita privata in un atteggiamento di sempre maggiore ostilità nei confronti del regime che lo sottoporrà ad un’occhiuta vigilanza.
Questo riconoscimento non deve sorprendere in un uomo che aveva fatto del rispetto delle istituzioni e del re un imperativo categorico, arrivando persino a “caricarsi”, lui incolpevole, le responsabilità politiche dello scandalo della Banca romana per evitare che Monarchia e vecchie classi dirigenti liberali ne venissero travolte.
Qualcuno ha detto che i grandi uomini sono tali persino nelle loro contraddizioni: Giovanni Giolitti, anche in questo, non fu un’eccezione.
Scuola: l’ennesima “non-riforma”.
Ho letto, come tanti, gli articoli con i quali si annunciava una legge-delega sulla scuola proposta dal sottosegretario Roberto Reggi.
Dico subito che, al netto degli annunci sulla obbligatorietà dell’aggiornamento dei docenti e su altro, chiamarla riforma mi sembra assai pretenzioso. Essa va piuttosto ricondotta alla sua vera essenza, cioè l’ennesimo tentativo di intervento sul personale per rivedere orari e stipendi.
Il tutto sugellato con la solita frase ad effetto: “la scuola cessi di essere un ammortizzatore sociale” (bum).
Non credo sia necessario ribadire che le 18 ore nelle scuole secondarie inferiori e superiori e le 24 ore nelle scuole primarie si riferiscono solo alle ore di lezione in classe.
Poi c’è tutto un lavoro al quale l’insegnante è obbligato, che in gran parte non rientra in quel monte orario (organi collegiali, programmazione, incontri scuola-famiglia, correzione compiti, ecc.).
Un lavoro delicato, sottoposto ad un controllo continuo, e non soltanto dei dirigenti scolastici, ma di un’utenza sempre più complessa ed esigente.
Se mi è consentita una battuta, discutere con i genitori sul rendimento e comportamento dei loro figli talvolta è un’esperienza che non si augura neppure ai peggior nemici !!!
Non si comprende, poi, che cosa significa proporre un aumento dell’orario a 36 ore settimanali atteso che, per come è organizzata la scuola oggi, le ore di lezione frontale possono aumentare al massimo a 24 (la media europea è attorno a 19, ma con stipendi assai più alti).
A meno che non si pensi ad una scuola a tempo iper-pieno che però significa un aumento di spesa per lo Stato e gli EELL in termini di personale ATA, servizi di pulizia, mense, trasporti, ecc..
Ci sono queste risorse ? Magari, ma mi pare che i segnali vadano in ben altra direzione (vedi il caso di Genova, dove l’esigenza di contenere la spesa ha imposto la settimana corta). E comunque resterebbe da capire che cosa dovrebbero fare i docenti nelle ore in cui non fanno lezione al netto degli altri impegni professionali.
Nessuno nega, ovviamente, la presenza nella nostra scuola di insegnanti buoni e cattivi, quelli che a scuola praticamente ci vivono e altri che appartengono alla categoria dei “fantasmi”.
Queste due categorie percepiscono alla fine del mese lo stesso stipendio. Come, in generale, avviene in tutta la PA.
Poi ci sono gli incarichi sulle funzioni strumentali o di collaborazione con il dirigente scolastico o nei progetti PON che sono già, nei fatti, quegli incentivi economici al personale più impegnato e disponibile di cui tanto si parla.
Se oggi qualcuno dice, giustamente, introduciamo il principio secondo il quale chi lavora di più guadagna di più, non vedo come si possa essere in disaccordo. Come stabilire criteri e parametri oggettivi per non affidare tutto alla valutazione dei Dirigenti Scolatici ? Se ne discuta laicamente.
Tuttavia il vero tema che sta alla base della proposta Reggi, ripeto, non è questo.
La verità è che si vogliono produrre risparmi sul personale, azzerare le supplenze brevi e vedere come si fa cassa rispetto alle esigenze del bilancio dello Stato.
Nulla di nuovo, quindi, e nessuna riforma, solo destrutturazione di quello che c’è. E invece di una riforma vera la nostra scuola avrebbe davvero bisogno, una riforma che non solo ne ridurrebbe i costi, ma la renderebbe più efficace ed efficiente.
La nostra scuola oggi non ha identità: è la risultante di tante riformicchie senza respiro tenuta insieme con gli spilli e il senso di sacrificio di gran parte del suo corpo docente (che qualcuno lo riconoscesse, una volta tanto, non sarebbe male).
Non può sfuggire a nessuno, infatti, che dopo gli interventi sull’obbligo che, nei fatti, lo spingono fino ai diciotto anni in linea con i paesi più avanzati, si è aperto il problema di intervenire su alcuni segmenti del sistema, in particolare quello che va dal primo anno della secondaria inferiore al terzo anno della secondaria superiore.
Qui è il vero ventre molle, qui si concentrano tutte le criticità dal punto di vista pedagogico, didattico ed organizzativo.
Una vera riforma della scuola non può, quindi, limitarsi a discutere di orari e personale ma deve necessariamente porsi due domande fondamentali: primo, cosa pensiamo che la scuola debba fare, secondo come e con quali risorse debba farlo.
Hic Rhodus, hic salta. Non si sfugge.
Io penso che un intervento in quel segmento non possa non porsi come obiettivo quello squisitamente formativo, che si traduce in più ampi e diversificati contenuti disciplinari (si pensi, ad esempio, al ritorno del latino inteso come disciplina che struttura l’acquisizione corretta della lingua italiana) e in una robusta scelta a favore dell’innovazione tecnologica in linea con la cosiddetta rivoluzione digitale che stiamo vivendo.
In questo quadro può e deve essere pensato un diverso e più valorizzante uso del personale e quindi anche il superamento di evidenti discrasie, inefficienze e sprechi di risorse.
Un Governo del fare come si definisce quello di Matteo Renzi ha il dovere, anche su questo settore strategico, di introdurre una fase di netta discontinuità.
CARI FIGLI
Cari figli,
vi prego, vi scongiuro, almeno in una cosa non crescete. Da piccoli, quando vi facevate male, chiamavate sempre la mamma o il papà.
Fatelo anche adesso quando il male di vivere vi prende, quando il dolore vi sembra insopportabile. Cercateci, chiedete.
Lo so bene. Spesso non siamo migliori di voi. Abbiamo solo più vissuto e più sofferto. Qualche parola, quindi, possiamo spenderla in vostro aiuto o almeno tentare di farlo.
Perché nessun dolore è davvero insopportabile o insuperabile, a parte quello della vostra assenza.
Tornare al “Cuore”.
Ritrovare una identità della scuola italiana.
C’è un romanzo per ragazzi caduto in disuso già ai tempi della mia generazione ma che rappresenta una delle pietre miliari della nostra storia della letteratura e non solo per l’infanzia: Cuore di De Amicis.
Mi spinse a leggerlo mia zia, che lo aveva studiato a scuola.
Lo incontrai di nuovo durante i miei studi universitari nelle critiche anche feroci che gli venivano mosse.
Negli anni ’70 ed ’80, infatti, Cuore veniva presentato come un libro intriso di retorica patriottica, di sentimentalismo, di ideologia positivistica-lombrosiana, di classismo. Si diceva che non fosse neppure un libro adatto ai ragazzi, per la violenza ed i fatti tragici descritti in molte delle sue pagine.
Eppure quel libro è stato uno dei pochi tentativi, in una letteratura troppo spesso piena di vera retorica moralistica come la nostra, di dare sostanza culturale e ragione alla società italiana.
Certamente nell’Italia del 1886 i valori proposti non potevano non essere quelli borghesi, laici e genericamente progressisti della classe dirigente che aveva portato a termine l’unificazione.
Il tentativo, cioè, di dare agi italiani una coscienza civile, una cultura comune in cui potessero riconoscersi e che non poteva non realizzarsi se non attraverso la scuola, individuata come l’agenzia educativa fondamentale per realizzare l’altro grande obiettivo del Risorgimento, quello di “fare gli italiani”.
Del resto il problema della nazionalizzazione delle masse era comune a tutta l’Europa che nell’800 si affrancava definitivamente dai residui dell’ancien regime e gli Stati cessavano di identificarsi in dinastie con i loro diritti feudali e sviluppavano nuove e più rappresentative istituzioni.
In Italia si doveva anche fare i conti con la presenza invadente (e nei primi anni post-unitari anche ostile) della Chiesa cattolica che per più di un millennio era stata l’unico elemento unificante in un Paese diviso in tante entità statali spesso in conflitto tra loro e, a partire dal XVI secolo, anche subalterne alle dinamiche diplomatiche, politiche e militari delle grandi potenze europee.
L’opera di Edmondo De Amicis, che in Italia ebbe uno straordinario successo secondo soltanto al Pinocchio di Collodi, ha rappresentato pertanto un esplicito tentativo pedagogico per una società che si sapeva disomogenea se non addirittura disgregata attorno ad alcuni valori di riferimento: il re, l’esercito, l’etica del sacrificio e del lavoro, l’aspirazione alla collaborazione ed alla solidarietà tra le diverse classi sociali in nome dell’amor di patria, ecc..
Valori datati, si dirà e sui quali sono passati due guerre mondiali e vent’anni di una dittatura che la Patria la farà morire con la liquidazione delle libertà democratiche, le persecuzioni politiche e razziali e, infine, con una guerra rovinosa in alleanza con uno dei progetti totalitari più criminali della storia. Una Patria che solo la Resistenza riuscirà a risollevare nella coscienza degli italiani.
Il problema però, è che, se si escludono le grandi tensioni democratiche che hanno per fortuna interessato la nostra scuola a partire dagli anni ’60 grazie anche all’opera straordinaria di Don Milani e della scuola di Barbiana, da un po’ di anni a questa parte non c’è stato più nessun tentativo paragonabile a quello rappresentato quasi 130 anni fa dal Cuore.
La nostra scuola ha subito riforme e controriforme che l’hanno lasciata sostanzialmente senza identità.
Una scuola che soffre, del resto, del generale disorientamento di una società che ha perso punti di riferimento, in cui caste e corporazioni si contrappongono le une alle altre nel tentativo di preservare privilegi che diventano di giorno in giorno sempre più piccoli e ristretti.
Questo Paese non avrà futuro se non riusciremo a darci un sistema di valori condivisi entro cui riconoscerci ed una scuola capace di formare i giovani nella nuova dimensione della cittadinanza europea.
Fare, dunque, i nuovi italiani cittadini di una Europa senza re e senza eserciti nella speranza che da qualche parte ci sia un De Amicis che abbia cominciato a scrivere il “Cuore” degli anni 2000.
La paura del popolo caprone dei soliti gattopardi.
La democrazia moderna è nata quando si disse al popolo: ora puoi scegliere.
Ovviamente agli inizi si pensava che il popolo fosse solo quello composto dai possidenti, perché, si diceva, solo chi ha da perdere e guadagnare può davvero decidere delle sorti dello Stato.
Spaventava, insomma, l’idea che il popolo caprone, analfabeta ed ignorante, potesse scegliere davvero.
Le prime leggi elettorali furono, quindi, censitarie: poteva votare soltanto chi pagava le tasse.
Questo criterio superava persino quello della capacità, per cui se il ricco era ignorante come una capra e analfabeta (fatto non raro a quei tempi) poteva votare lo stesso. I suoi saperi erano meno importanti dei suoi averi.
Decenni e decenni di battaglie democratiche hanno poi progressivamente affermato l’allargamento del diritto di voto fino all’affermazione del suffragio universale prima solo maschile, poi anche femminile. Fu un fenomeno mondiale e con il suffragio universale nacquero anche i grandi partiti di massa.
Ma la paura del popolo caprone è rimasta comunque, arrivando fino ai giorni nostri.
Certo oggi nessuno ha la faccia di proporre una legge elettorale censitaria, anche se non ci giurerei sopra.
Prevale, in tanti e trasversalmente, una sostanziale avversione alla decisioni frutto della reale volontà popolare. E’ anzi diffusa la convinzione che solo pochi siano davvero quelli in grado di scegliere. Al popolo, al massimo, spetta la ratifica della scelta
Se ci riflettete bene questa paura sottende tanto della politica di oggi.
Così quando si tratta di eleggere i deputati e i senatori non si può prescindere dalle liste bloccate, quando si parla di primarie si dice si, ma chi vince lo decidiamo prima a tavolino.
Costoro hanno una concezione della democrazia per cui si decide solo “colà dove si puote”, con la differenza che non sono padreterni, anzi.
Sono come quei vecchi feudatari la cui autorità derivava da titoli e possessi, che si riprodussero, come il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, sotto forma di deputati e senatori nei primi parlamenti italiani.
Oggi i loro epigoni li ritroviamo dappertutto anche nel campo cosiddetto progressista a propugnare la solita solfa: tu, caro popolo sei troppo caprone per poter scegliere, lascia fare a noi. Ma il popolo caprone, tutt’altro che mansueto, una bella cornata prima o poi, finisce per dargliela “laggiù ove si puote…e si deve”.