Cultura
Bastoniamo don Abbondio !!!
Ne I promessi sposi un personaggio centrale è certamente il curato don Abbondio, quello che minacciato dai “bravi” di Don Rodrigo, si rifiuta di celebrare le nozze tra Renzo e Lucia e innesca il complesso processo narrativo del romanzo manzoniano.
Don Abbondio è un personaggio comico nel suo crudo realismo: un povero prete di campagna messo di fronte ad avvenimenti più grandi di lui e che reagisce nell’unico modo che conosce, fuggendo dalle proprie responsabilità.
Quelle responsabilità alle quali lo richiama il cardinale Federigo Borromeo e che però trovano il nostro assolutamente incapace di comprendere. Le parole appassionate del cardinale, infatti, non lo smuovono, prova anzi disappunto nel riconoscere nelle argomentazioni dell’alto prelato le stesse che, all’inizio della storia, aveva usato con lui l’umile Perpetua, ha voglia di scappare e pensa tra sé “che sant’uomo, ma che tormento” fino a sbottare nella famosa frase: “Il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare”.
E’ questa frase che lo rende simpatico, quasi che Manzoni, da grande artista ci dica: si dovremmo prenderlo a bastonate a questa bestia, ma in fondo egli non può essere diverso da quello che è, un povero uomo piccolo piccolo, un ignavo di cui al massimo sorridere se non con comprensione almeno con indulgenza
E in verità il prete manzoniano le bastonate se le merita tutte: perché Don Abbondio è il classico debole con i forti e forte con i deboli. Si comprende questo aspetto del suo carattere quando la famosa notte in cui doveva celebrarsi il matrimonio a sorpresa, lo stratagemma con il quale lo strappano dal letto è la restituzione di un prestito, segno che il nostro era uso a prestar denaro ad interesse, un’attività tutt’altro che consona al suo ruolo di “pastore di anime”.
Don Abbondio nel momento cruciale sceglie la strada che gli sembra più semplice e non quella, certamente più difficile che pure Perpetua in tutta la sua umiltà, aveva saputo indicargli. Come tanti, come troppi.
Troppe volte chi dovrebbe prendersi le responsabilità, piccole o grandi che siano, del proprio ruolo, fugge o ne scarica il peso sugli altri senza curarsi che i danni del suo comportamento finiranno per pagarli tutti.
Senza contare che spesso sono proprio questi “don Abbondio” a indossare la veste dei moralisti o, peggio, degli implacabili inquisitori dei mali della “serva Italia, di dolore ostello”, senza riflettere sul fatto che di don Abbondio ce ne stanno in tutte le categorie: imprenditori, professionisti, giornalisti, dirigenti, funzionari, semplici impiegati, insegnanti, politici, operai, ecc., nella gente che semplicemente non fa il proprio dovere.
Perché fare il proprio dovere non significa “fare gli eroi” (nemmeno a Don Abbondio si chiedeva questo) ma semplicemente assumersi le proprie responsabilità.
Ecco perché i tanti don Abbondio dei nostri tempi, quelli che spesso sollevano forche e forconi sempre contro gli altri, dovrebbero interrogarsi su quante bastonate loro stessi hanno già meritato di beccarsi sul groppone.
Auguri a tutti di Buon Natale e Felice Anno Nuovo
IL PORCELLUM E’ INCOSTITUZIONALE…NOMINATI E GIOCATORI DA TRE CARTE SI RASSEGNINO.
La Consulta oggi, con una decisione assai rapida e senza rinvii, ha decretato la fine del porcellum dichiarando incostituzionale sia il premio di maggioranza sia le liste bloccate.
La sentenza, le cui motivazioni saranno rese note nelle prossime settimane (e da quel momento diverrà esecutiva), è ineccepibile e dice la parola fine a tante stupidaggini e giochini da tre carte che pure si erano letti in questi mesi.
Nel mio piccolo, pur non essendo un costituzionalista ma un semplice professore di lettere, avevo già scritto nei giorni scorsi e sono felice di essere stato confermato nelle mie convinzioni.
Negli anni passati ho sostenuto tutte le iniziative referendarie tendenti ad abolire questa legge, anche raccogliendo le firme e aderendo ai comitati nazionali.
Oggi questa sentenza dà ragione a me e ai tantissimi italiani che in tutte le occasioni hanno mostrato tutta la loro insofferenza verso questa che è davvero una “legge porcata”.
La legge Calderoli, alias porcellum è stata il vero “colpo di stato” di questi anni. Essa ha infatti cancellato nello stesso tempo il diritto dei cittadini di scegliere i propri rappresentanti e il loro diritto di essere rappresentati quali abitanti di un territorio, ha delineato i contorni di una democrazia plebiscitaria in cui ci si affidava al leader che sceglieva tutto e per tutti. Per tacere del premio di maggioranza abnorme che neanche il primo governo Mussolini aveva mai avuto il coraggio di introdurre senza una soglia minima.
Non è un caso che Berlusconi, coerentemente, oggi è l’unico che ufficialmente rimpiange il porcellum e boccia la Corte Costituzionale come un organismo “di sinistra”.
Ma potete star certi che sono molti, in queste ore, a piangere in silenzio ed a masticare amaro, anche a sinistra, soprattutto tra coloro che, considerandosi illuminati portatori di magnifiche sorti e progressive, hanno sempre declinato la concezione della cosiddetta democrazia “per nomina” (sic).
Comunque vada, sia se il parlamento, come sarebbe suo dovere a questo punto, farà una nuova legge sia se, invece, resterà fermo e paralizzato nella sua impotenza, un parlamentare per essere eletto dovrà metterci nome e faccia. Non ci sarà più il caro leader o il capocorrente che lo tutela a Roma. L’unica sua tutela dovrà cercarsela sul territorio chiedendo il consenso a cittadini in carne ed ossa, con la loro storia, le loro speranze e, soprattutto, i loro problemi, assumendosi responsabilità e compiendo scelte, dicendo si o no.
E’ la democrazia bellezza.
La strage dei valdesi in Calabria
Pubblicato su L’Ora della Calabria del 24 novembre 2013
La persecuzione e lo sterminio dei valdesi in Calabria rappresenta uno dei momenti più cruenti e drammatici della storia italiana. Ancora oggi gli storici sono incerti sul numero delle vittime la cui cifra è stimata tra un minimo di 600 ad un massimo di 6000. Un vero e proprio tentativo di genocidio unito al tentativo di sradicamento culturale di queste comunità con l’imposizione di matrimoni misti con gli “italiani” e la proibizione dell’uso della lingua occitana.
La strage avvenne tra il maggio ed il giugno 1561 quando il Regno di Napoli era sottoposto al dominio di un viceré spagnolo che governava in nome di Filippo II di Spagna, figlio dell’imperatore Carlo V e strenuo difensore della fede cattolica insidiata dalla Riforma protestante e dalla pressione turco-musulmana nel Mediterraneo. E’ in quel contesto drammatico di guerre di religione che matura la persecuzione dei valdesi di Calabria che erano vissuti nella nostra regione praticamente indisturbati per circa due secoli e mezzo.
I seguaci di Pietro Valdo da Lione, fondatore di una delle sette pauperistiche medievali dichiarata “eretica” nel 1184, erano arrivati infatti in Calabria attorno al XIV secolo per sfuggire alle persecuzioni di cui erano fatti oggetto nelle valli piemontesi e nella Francia Meridionale.
Su invito di alcuni proprietari terrieri calabresi nel 1315 iniziò il trasferimento nella nostra regione di famiglie valdesi con l’offerta di terreni da prendere in fitto. Noti per la loro laboriosità e per saper ricavare raccolti anche nelle difficili terre di montagna, i valdesi arrivarono sempre più numerosi, fondando colonie nell’area di Montalto (Vaccarizzo, Argentina e San Vincenzo e soprattutto San Sisto detto appunto dei Valdesi) e sul Tirreno dove fondarono La Guardia (oggi Guardia Piemontese) su terre concesse dal marchese Salvatore Spinelli.
Riservati e disponibili con le popolazioni locali conservarono la loro lingua occitana (una variante del francese) soprattutto come veicolo della loro fede religiosa. Fino al XVI secolo i valdesi vissero e prosperarono al riparo dalle persecuzioni di cui erano vittime i loro correligionari in Piemonte e in Francia, tollerati dalle autorità religiose che incassavano le generose decime che queste comunità versavano con regolarità al clero locale e osservando un esteriore rispetto della religione cattolica.
La situazione mutò quando scoppiò in Europa la questione protestante con la diffusione delle idee luterane (1517) e l’adesione dei valdesi svizzeri e piemontesi al calvinismo (12 settembre 1532).
L’arrivo in Calabria di un predicatore seguace della nuova Chiesa Valdese che aveva aderito al calvinismo, Gian Luigi Pascale (1559), provocò forte fibrillazione tra i valdesi calabresi che si divisero tra coloro che volevano aderire entusiasticamente alla nuova versione della propria religione (soprattutto le persone più umili) e coloro che invece temevano che l’aperta predicazione di dottrine contrarie all’ortodossia cattolica potesse scatenare la persecuzione e la repressione.
L’arrivo di Pascale, la istituzione di templi in cui praticare apertamente la propria fede, fece precipitare la situazione. Il suo arresto e il conseguente processo spinsero il nuovo viceré di Napoli, don Pedro Afàn de Ribera ad un’azione più decisa, arrivando persino ad aprire un procedimento nei confronti del marchese Spinelli accusato di aver favorito la diffusione dell’eresia. L’insoddisfazione per le esitazioni del vescovo Orazio Greco incaricato inizialmente di istruire il processo, spinse il viceré alla nomina di un nuovo inquisitore nel novembre del 1560, il domenicano Valerio Malvicino. Malvicino agì con decisione, imponendo ai valdesi l’uso dell’abitello giallo, una sorta di marchio, segno esteriore del peccato. Fu fatto poi divieto di riunione a più di sei persone, all’uso della lingua occitana, ai viaggi in Piemonte o in Svizzera, a scrivere lettere non autorizzate preventivamente dall’Inquisizione e l’obbligo ad ascoltare la messa ogni mattina, al catechismo per i bambini e ai sacramenti. Un altro obbligo, particolarmente odioso, fu quello ai matrimoni misti che, nelle intenzioni dell’Inquisizione, avrebbero favorito la progressiva e definitiva scomparsa dell’identità culturale occitana e, con essa, della fede valdese.
La resistenza dei valdesi a queste odiose imposizioni convinse il Malvicino all’uso della forza con l’indizione di una vera e propria “crociata” guidata da Marino Caracciolo, marchese di Bucchianico.
Le truppe del Caracciolo presero facilmente il 29 maggio San Sisto dove la popolazione fu trucidata e in parte imprigionata nelle prigioni di Montalto e di Cosenza per essere giustiziata successivamente. Durante le operazioni ai soldati fu data anche licenza di saccheggio e di stupro.
Più complessa fu l’operazione militare per prendere Guardia dove si ricorse all’inganno del marchese Salvatore Spinelli, di cui i valdesi si fidavano. Questi, fingendo di scortare a Guardia alcuni soldati prigionieri, entrò in paese e, durante la notte del 5 giugno del 1861 aprì le porte alle truppe del Caracciolo. L’eccidio fu terribile, soprattutto accanto alla Porta che fu definita appunto “del Sangue” con centinaia di vittime. Nei mesi successivi la strage continuò con l’esecuzione di altre migliaia di persone prigioniere nelle carceri. Si concludeva così la drammatica vicenda della strage dei valdesi in Calabria.
Eppure, nonostante tanta ferocia, l’identità valdese non è stata completamente sradicata dal territorio calabrese, come dimostra la resistenza della lingua occitana a Guardia Piemontese.
Resta, terribile, il ricordo di un triste episodio di intolleranza e di feroce persecuzione imposto da una politica esterna ed estranea alla Calabria, terra invece, da sempre ospitale e solidale.
4 Novembre 1918. Anniversario della fine della Grande Guerra
Il mio intervento di presentazione del libro di Luca Mariani Il silenzio sugli innocenti
Un uomo normale. Un ragazzone alto e biondo come ce ne sono tanti nella civilissima Norvegia.
Per anni si prepara meticolosamente, accumula denaro, acquista armi ed esplosivo mascherandosi dietro l’innocua attività di agricoltore.
Per anni studia, scrive, prende contatti con organizzazioni di estrema destra europea, assorbe e rielabora la cultura xenofoba e razzista di chi si oppone all’immigrazione, paventa l’islamizzazione dell’Europa e la scomparsa della civiltà occidentale.
Studia ed individua alleati potenziali e, soprattutto, i nemici, i socialisti norvegesi e, in generale, la sinistra europea.
Contro di loro Breivik, così si chiama quest’uomo, questo borghese piccolo piccolo, concepisce il suo piano micidiale e lucido: colpire le sedi del governo laburista norvegese e poi sterminare i giovani del partito laburistache stanno tenendo il loro rituale campo estiva un una isoletta dal nome suggestivo, Utøya.
Così il 22 luglio del 2011 Breivik si alza, si traveste da poliziotto e parte per posizionare il furgone imbottito di esplosivo nel centro di Oslo che provocherà la morte di otto persone e poi raggiunge Utøya dove, a sangue freddo, uccide 69 ragazzi e ragazze.
Luca Mariani descrive con nitidezza di ricostruzione e di particolari il gesto dell’uomo, il dramma della strage, le elaborazioni “politiche” che questi ha posto alla base del suo gesto.
Ma Luca Mariani ci parla anche della disinformazione su questo gesto che si sviluppa in tutta Europa che, alla notizia della strage, individua i responsabili nella Jihad islamica.
Per un giorno intero, fino a quando le autorità norvegesi non rendono note le generalità di Breivik e il suo movente, peraltro dichiarato con spavalderia, è tutto un susseguirsi di parole al vento e di incaute dichiarazioni che evocano lo spettro degli integralisti islamici che attaccano la civile e democratica Europa. E invece l’assassino, il mostro è figlio proprio di quella civiltà.
Breivik non è pazzo.
E’ un assassino politico lucido e freddo che ha voluto compiere un “atto di guerra” contro il partito laburista norvegese per tagliarlo alla radice sterminando la sua giovane generazione, la sua futura classe dirigente.
Breivik ha ragionato, in piccolo, come ragionava Adolf Hitler. Ha ucciso per dare compimento ad una politica colpendo avversari politici. Questa è la realtà.
Realtà sulla quale, denuncia ancora Mariani, è calato un silenzio imbarazzato e, a volte, opportunista.
Ma qui si apre la vera questione che questo libro pone: nella civile e democratica Europa, attraversata dalla più difficile crisi economica dal dopoguerra ad oggi, i semi dell’intolleranza, della xenofobia, del razzismo, in una parola sempre attuale del fascismo, sono tornati a germogliare e minacciano di svilupparsi vigorosamente.
In tutta Europa i partiti xenofobi, populisiti e ostili alla democrazia parlamentare proliferano e raggiungono percentuali ragguardevoli.
Anche in Norvegia e in generale in Scandinavia, culla delle socialdemocrazie più avanzate e di più antica tradizione.
Anche nella Francia, patria della democrazia, dove la Le Pen rischia di portare la sua formazione politica al primo posto dei partiti del suo paese. Senza parlare dell’Italia dove una formazione come la Lega ospita tranquillamente personaggi come Borghezio che definì i ragionamenti di Breivik condivisibili anche se il suo gesto “sbagliato”.
Ma al di là delle espressioni politiche che la destra estrema e comunque alcune formazioni populiste assumono in Europa, è nel profondo della nostra società che la paura del futuro, l’incertezza economica, il dramma della disoccupazione e il ritorno prepotente della povertà stanno risvegliando mostri che sembravano assopiti per sempre.
Breivik è la trasformazione del borghese piccolo piccolo (ricordate lo splendido film di Mario Monicelli ?) in un assassino.
Io credo che proprio su questo dobbiamo riflettere e deve riflettere soprattutto la sinistra.
Come sia possibile, in questa Europa, qui ed ora, inverare parole come solidarietà, accoglienza, integrazione, tolleranza e coniugarle con sicurezza e cambiamento.
Come sia possibile, in una parola, portare la società europea a ragionare, come seppe fare in altri importanti momenti della sua storia, su se stessa e sul suo futuro.
Una sinistra che non si limiti a rincorrere la destra sul terreno del populismo e della semplice riproduzione di ciò che la gente vuol sentirsi dire.
Perché questa è la funzione stessa della sinistra, il fondamento del socialismo.
Qualche anno fa Adriano Sofri scrisse un bellissimo volume dal titolo “Chi è il mio prossimo”.
Riflettendo sulla famosissima parabola evangelica Sofri invitava a riflettere sul significato di prossimo, di colui che riteniamo degno di essere amato.
Perché sono pochi coloro che riescono ad amare tutti, e ci si limita sentire vicini solo i più simili a sé, i suoi prossimi appunto.
La diversità, invece, suscita diffidenza, paura, ostilità.
Eppure il giudeo malmenato dai briganti e lasciato mezzo morto non è aiutato dai suoi compaesani e correligionari, ma da un samaritano, uno straniero, appartenente ad un popolo che i giudei disprezzavano.
La cristianità ha dunque introdotto il concetto di un amore, qui inteso nel senso ampio di empatia, inteso come la capacità di sentire pienamente entro di sé i mali del mondo per risolverli, per dare giustizia.
Un concetto che, se ci riflettete bene, motiva la stessa idea di sinistra.
La sinistra, infatti, essenzialmente lotta contro il pericolo che le diversità, naturali in una società, si cristallizzino fino a diventare diseguaglianze e, quindi, ingiustizie.
Accettare le diseguaglianze come inevitabili o, peggio, utilizzarle per legittimare l’egoismo economico, sociale, culturale o religioso è invece tipico della destra.
La sinistra, dunque, deve essere in grado di porsi la domanda: chi è il mio prossimo, chi è colui che bussa alla porta di casa lacero, affamato, perseguitato e di come può aiutarlo, senza chiedersi se è bianco, nero, musulmano o cristiano, ricco o povero.
La sinistra deve essere capace di solidarietà anche se nella sua stessa casa molti guardano a coloro che bussano con diffidenza e paura, deve saper spiegare a questi perché non bisogna avere né diffidenza né paura, che quell’uomo lacero può portare bene e non male.
La destra, invece, quella porta si limita a chiuderla proclamando la propria libertà di farlo.
Quei ragazzi ad Utøya sono morti perché credevano in un mondo migliore, credevano al loro prossimo.
Chi li ha uccisi li accusava di voler aprire le porte che per lui dovevano restare chiuse.
Si sentiva, Breivik, come un cavaliere templare, l’eroe che combatteva contro gli infedeli e traditori cristiani che minacciano di invadere l’Europa.
Ma come gli ha detto uno dei ragazzi scampati alla strage Breivik non è un eroe, ma di eroi delle idee contrarie alla sue, ne ha creati tanti. Su questi eroi innocenti è bene, dunque, che la cappa del silenzio, finalmente, si alzi.
IL VIDEO DELL’INIZIATIVA
https://www.youtube.com/watch?v=EZBnl2ESxdU&feature=youtu.be
Domenica 27 ottobre presentazione del libro di Luca Mariani Il silenzio sugli innocenti.
Domenica 27 ottobre alle ore 10.30 presso il Caffè Letterario in Piazza Matteotti a Cosenza, nell’ambito della Festa democratica, ho l’onore di partecipare alla presentazione del bel libro di Luca Mariani, Il silenzio sugli innocenti.
Il libro ricostruisce la stragi di Oslo e Utøya in Norvegia, quando Anders Behring Breivik, un giovane della destra eversiva, compì una strage facendo esplodere una bomba nel centro di Oslo che uccise otto persone e poi sterminò 69 ragazzi della gioventù laburista norvegese impegnati in un campo estivo nell’isola di Utøya.
Una strage di socialisti colpevoli, per lo xenofobo Breivik, di favorire l’immigrazione e l’islamizzazione dell’Europa.
Una strage, come lui stesso dichiarò, che aveva lo scopo di distruggere il partito laburista norvegese alla radice.
Un episodio inquietante ancora non del tutto chiarito nelle sue dinamiche e nei legami con altre organizzazioni, anche a livello internazionale, di cui l’assassino si è avvalso per compiere il suo terribile gesto.
Breivik è stato dichiarato sano di mente e condannato alla massima pena carceraria prevista in Norvegia (nazione che non ha l’ergastolo).
A due anni dalla strage, tuttavia, sembra essere calato l’oblio sul fatto che a morire in quel terribile 22 luglio, siano stati giovani socialisti, giovani progressisti che sognavano una società più libera, più giusta, multiculturale e multietnica.
Breivik li ha uccisi proprio per distruggere quel loro sogno.
Ma come ha scritto uno dei ragazzi scampati alla strage rivolgendosi al mostro su Facebook subito dopo la strage, quel sogno non è morto.
«Caro Anders Behring Breivik, sappi che hai perso. Tu credi forse di avere vinto, uccidendo i miei amici e i miei compagni. Tu forse credi di aver distrutto il Partito Laburista e coloro che in tutto
il mondo credono a una società multiculturale. Tu descrivi te stesso come un eroe, un cavaliere. Tu non sei un eroe. Ma una cosa è sicura: tu di eroi ne hai creati».
(Lettera aperta a Behring Breivik di Ivar Benjamin Østebø, sedicenne scampato alla strage di Utøya).
Una importante occasione di riflessione a cui mi sento di invitare tutti a partecipare.
Perché Gianni Cuperlo
Ho conosciuto Gianni Cuperlo nel 1987, quando dirigeva l’organizzazione degli studenti universitari della FGCI, prima di essere eletto segretario nazionale, subentrando a Pietro Folena, nel Congresso del dicembre 1988. Lo stesso congresso nel quale venivo eletto segretario provinciale della FGCI di Cosenza, alla quale mi ero iscritto alla fine del 1984 sull’onda della grande emozione suscitata dalla morte di Enrico Berlinguer.
Sono tornato ad incontrarlo tra il 2010 ed il 2011, quando ho partecipato ad una serie di riunioni del Centro Studi del PD, diretto proprio da Cuperlo, in occasione del 150mo dell’Unità d’Italia.
Gianni Cuperlo è dotato di una vasta e duttile cultura, è un dirigente sperimentato e capace, e forse il segretario del PD avrebbe dovuto farlo già da tempo.
Ciò che mi convince più di ogni altra cosa nel ragionare di Cuperlo candidato alla segreteria del più grande partito della sinistra italiana è la sua visione dell’Italia, la sua analisi della crisi attuale, delle sue radici e delle potenzialità che questo Paese, nonostante tutto, continua a dimostrare.
Intervenendo in Assemblea Nazionale in occasione della presentazione delle iniziative per il 150mo dell’Unità d’Italia parlò delle “radici future dell’Unità”, proprio a significare che questo nostro Paese, così grande e ancora così diviso economicamente, socialmente, territorialmente, deve trovare le ragioni per entrare nel futuro tutto insieme.
Riporto qui un commento di Cuperlo ai risultati del rapporto SVIMEZ del 2013: “negli anni che abbiamo alle spalle la destra il suo mestiere più o meno l’ha fatto. La questione meridionale è divenuta la questione dei meridionali o peggio una questione criminale, come se legalità e lotta alle mafie non riguardassero da tempo la penisola tutta. I governi a trazione nordista sono stati i più antimeridionalisti della storia repubblicana. Su queste colonne non serve ricordare la redistribuzione alla rovescia fatta col saccheggio dei fondi per gli investimenti. Ma anche a sinistra il declino dell’idea di uguaglianza ha fatto scemare, a oltre 150 anni dalla nascita dello Stato, la tensione all’unità del Paese, unità economica e sociale, di opportunità e compimento di sé. Detto ciò il pensiero critico e democratico, in quell’Italia che gli arabi dicevano «troppo lunga», si sono sempre abbeverati ai pozzi dell’impegno meridionalista. Oggi, bisogna dirlo, anche a sinistra abbiamo perso quella consuetudine tanto da faticare ben prima di Renzi persino a pronunciare la parola. Forse temendo che dire Sud non creasse consenso. E che queste regioni fossero al massimo un luogo dove il consenso lo si veniva a raccogliere o a barattare. Per tutto questo credo che al centrosinistra tocchi il dovere di una svolta vera, almeno se vuole sfidare la logica del tempo. In questo senso l’immagine di un «Mezzogiorno, palla al piede» non solo è volgare ma sciocca” (i corsivi sono miei).
Tutti temi che in questi anni, nella modestia delle mie forze e delle mie capacità, ho cercato di affermare.
Oggi, infatti, abbiamo due problemi: ricostruire il senso stesso dello stare insieme in questo Paese, ritrovare le nostre radici e costruire un nuovo patto nazionale nella consapevolezza che da soli non ce la si può fare per guardare finalmente al futuro senza né paure né facili ottimismi. Un compito, questo, che storicamente è sempre appartenuto alla sinistra.
Scrive ancora Cuperlo: “serve una terapia d’urto, un piano straordinario per creare occupazione e combattere povertà vecchie e nuove, un piano da concordare con l’Europa. Di fronte a una crisi che impatta la vita delle persone, i comportamenti sociali, la demografia, di fronte a una perdita di risorse umane, imprenditoriali, finanziarie, non c’è più tempo. (…) Al Sud la sinistra italiana ma vorrei dire, quella europea non si gioca un’elezione e tanto meno una campagna congressuale. Qua ci giochiamo una missione, la funzione che saremo in grado di assolvere per risanare il tessuto non solo economico e sociale, ma culturale e morale di un’Italia, mai come oggi, da ricostruire“.
Una grande sfida che potrà essere vinta soltanto affermando a tutti i livelli il principio della responsabilità sia a livello collettivo che individuale.
Ma per fare ciò serve ritrovare il senso della politica, intesa come l’unica “scienza” in grado di dirigere le cose umane. E una politica siffatta si nutre di studio, di ricerca, di discussione, di scelte. Una politica così può nascere e vivere solo in un partito, un grande partito di massa.
Dopo vent’anni di berlusconismo abbiamo la possibilità, finalmente, di uscire dal populismo e ricostruire le ragioni di un grande soggetto collettivo in cui milioni di italiani possano riconoscersi.
Gianni Cuperlo ci parla di questo. Ed io sono d’accordo con lui.
Il generale Giap, simbolo della lotta contro il colonialismo
E’ morto, alla veneranda età di 102 anni uno dei più grandi generali della storia, Vo Nguyen Giap.
Artefice dell’indipendenza vietnamita di cui fu il braccio militare e Ho Chi Mihn quello politico, al comando di un esercito di contadini sommariamente armati sconfisse prima i francesi nella grande battaglia di Dien Bien Phu nel 1954 e poi la più grande potenza militare del mondo, gli USA, nella lunga guerra non dichiarata del Vietnam (1963-1975).
Siamo molto lontani dal clima politico ed ideologico che, negli anni ’60 e ’70. mosse tutto il mondo in una gara di solidarietà nei confronti del Vietnam che combatteva contro il gigante americano.
Di certo il regime che scaturì da quella guerra rimase nel campo delle dittature comuniste dove lo aveva relegato la guerra fredda e dove, nonostante aperture e liberalizzazioni, purtroppo ancora rimane.
Ma la lotta che Giap e Ho Chi Minh combatterono fu animata soprattutto dalla volontà di liberarsi da secoli di colonialismo e di subalternità.
Fu un episodio fondamentale della fine del colonialismo in cui milioni di donne e di uomini combatterono e morirono per conquistare la propria libertà.
Fosse solo per questi motivi io credo che sia giusto, comunque, ricordarlo.
La fine del populismo e la ricerca del “quid”.
Una mia riflessione sulla giornata di ieri al Senato.
Senza voler esagerare ciò che è successo ieri al Senato rappresenta certamente una svolta politica rilevante. Se sarà anche una svolta storica dipenderà dagli effetti che avrà sull’assetto politico-istituzionale del Paese. Le novità mi sembrano, tuttavia, rilevanti e proverò ad evidenziarle qui di seguito.
Rottura dello schema leaderistico-populistico
Quello di ieri non è stato solo un passaggio parlamentare che ha sancito la rinnovata fiducia ad uno dei tanti governi della Repubblica, ma l’esemplificazione plastica di come antipolitica e populismo siano insufficienti e totalmente inadeguati quando è necessario misurarsi con problemi politico-istituzionali seri. Per dirla in altre parole è apparso evidente come i partiti personali e del leader non ce la fanno a reggere la sfida della complessità.
Ciò vale per Berlusconi che, dopo avere tentato di derubricare la fronda interna sotto l’epiteto semplicistico e populistico dei “traditori”, ha finito per scoprire di essere politicamente in minoranza nel suo stesso partito, la creatura che per vent’anni, sotto le diverse denominazioni, è stata una sua proprietà personale, i suoi aderenti dei semplici dipendenti.
Ma vale anche per Grillo e le sue truppe sempre più spaesate e confuse che tutto avevano scommesso sullo showdown, pronti ad andare al voto anche con quel porcellum solo a parole vituperato ma assolutamente funzionale alle formazioni politiche populiste e leaderistiche.
Se si vuole avere contezza di ciò si può andare a quanto diceva ieri in TV Daniela Santaché, la quale affermava di aver votato la fiducia a Berlusconi e non a Letta e esprimeva disprezzo per i colleghi di partito “traditori” irriconoscenti al “Caro Leader” che li aveva “nominati” in parlamento.
Lo stessa intolleranza, lo stesso disprezzo dimostrati nei confronti della senatrice Paola De Pin dai suoi colleghi 5 stelle perché colpevole di votare la fiducia in dissenso con il “Leader assente”.
C’è in queste parole tutta l’incapacità di comprendere l’essenza stessa della politica per quella che è, vale a dire la più alta forma di direzione delle cose umane e anche la più complessa.
La politica non si fa dando ordini ma discutendo posizioni diverse e portandole a sintesi se è possibile, oppure scegliendo secondo il principio della maggioranza e della minoranza che è l’essenza stessa della democrazia. Ieri nel PDL è avvenuto quello che fino a solo qualche settimana fa sembrava impossibile: si è sviluppato un vero dibattito politico tra posizioni diverse ed opposte. Il suo leader incontrastato, quello stesso che spesso ha tuonato contro il “teatrino della politica” è stato costretto ad una retromarcia degna dei più consumati “politicanti”.
Lo stesso avverrà quanto prima anche nel Movimento 5 Stelle: è solo questione di tempo.
Perché chi dissente non sempre è uno Scilipoti, un opportunista, un traditore, ma semplicemente uno che discute ed ha deciso di non mandare il proprio cervello all’ammasso.
La paura della DC
Molti hanno paventato nell’asse dei quarantenni Letta-Alfano il “ritorno della DC”.
Francamente non vedo perché dovrebbe fare paura ad ogni sincero democratico la nascita finalmente in Italia di un partito veramente moderato come esistono in tutta Europa e che generalmente fanno riferimento al PPE.
Sarebbe questa l’evoluzione più giusta per correggere l’anomalia populista berlusconiana, che il PPE per realpolitik ha tenuto comunque dentro di sé.
Anzi, e lo dice uno che democristiano non è mai stato, questa evoluzione sarebbe utile anche per completare la transizione del campo progressista, per fare finalmente in Italia un partito che non trova ragione di essere soltanto nel suo essere alternativo al berlusconismo.
Se la fase che si è aperta ieri servirà a far fare passi in avanti a questa evoluzione, ben venga.
Anzi, la sinistra, ora che non ha più l’alibi e la coperta ideologica del “nemico” sotto cui nascondersi, deve essere all’altezza di questa sfida e, come scrive giustamente Peppino Caldarola, deve essere in grado di trovare anche lei il suo “quid”.