Giustizia
“Basta con i candidati calati dall’alto”
Intervista apparsa su www.vortexnewscalabria.com il 9 luglio 2014 di Francesca Gabriele
Lui per primo è quasi sobbalzato quando il ministro Lanzetta ha chiesto le dimissioni dei consiglieri regionali e i motivi li ha spiegati in una nota e poi in questa nostra conversazione. Magorno è il segretario del Pd “non il capo di una corrente” ci ha detto ancora il dirigente democrat, Gabriele Petrone, al quale abbiamo chiesto anche della candidatura di Mario Oliverio, del silenzio di Alfredo D’Attorre e Marco Minniti e dell’ultima indiscrezione, la scesa in campo per i renziani alle regionali del ministro Maria Carmela Lanzetta.
Immaginiamo lei abbia sorriso nel leggere le esternazioni prima del suo segretario regionale, Ernesto Magorno e poi del ministro, Lanzetta. Spiega anche ai nostri lettori perché i consiglieri regionali non devono dimettersi?
Non ho sorriso. Ho pensato soltanto che alla propaganda non c’è mai limite. Ma anche la propaganda deve dire la verità. Io non dico che i consiglieri regionali non devono dimettersi, dico soltanto che sarebbe inutile e ininfluente ai fini dell’accelerazione dei tempi per andare a nuove elezioni. Il Consiglio è sciolto dal 3 giugno e resta solo per l’ordinaria amministrazione. La Presidente f.f. della Giunta Regionale dott.ssa Stasi, entro 45 giorni, cioè entro il prossimo 18 luglio, deve, sentito il Ministero dell’Interno e il Prefetto del Comune capoluogo di Regione, individuare la data per le nuove elezioni. Funziona, per analogia, come per il Parlamento, quando il Presidente della Repubblica firma il decreto di scioglimento delle Camere. I singoli parlamentari rimangono in carica fino all’elezione del nuovo parlamento. Nessuno si sognerebbe di chiedere le dimissioni dei parlamentari nel momento in cui il parlamento è sciolto e va a nuove elezioni. Ora, che queste cose le ignorino i singoli cittadini può passare. Che non lo sappiano il segretario regionale di un grande partito o un ministro della Repubblica mi pare assai difficile. Penso che abbiano voluto fare propaganda, ma la propaganda deve partire da dati reali, altrimenti si alimentano nei cittadini sentimenti ingiustificati di ostilità nei confronti non tanto dei singoli uomini politici, che sarebbe politicamente legittimo a condizione di distinguere con nettezza le responsabilità che non sono tutte uguali, ma delle intere istituzioni. E ciò non va bene, perché le istituzioni sono di tutti e vanno sempre salvaguardate in un sistema democratico.
A onor del vero, la Lanzetta parlava di rivolta morale. Si spezzerebbe qualche meccanismo “amorale” all’interno del consiglio regionale con le dimissioni dei consiglieri del Pd?
Ripeto, le dimissioni dei singoli consiglieri sarebbero semplicemente inutili, anzi, con il meccanismo delle surroghe, darebbero addirittura la possibilità a coloro che vogliono perdere tempo, di tentare di prolungare la vita ad un Consiglio ormai sciolto. La Lanzetta, se vuole accelerare i tempi per tornare alle urne sa cosa deve fare. Intervenga sul Ministro dell’Interno e sul Governo per sollecitare alla Stasi l’indizione delle nuove elezioni anche prima del 18 luglio. I calabresi devono tornare a votare al più presto. Questa è la risposta politica e morale che si attendono. Le dico di più: trovo insopportabili i toni moralistici di certa polemica che viene condotta sic et simpliciter contro tutti i consiglieri regionali. Tra questi ci sono tante persone che fanno onestamente e fino in fondo il loro dovere e altre che non sarebbero degne di far parte neanche di un consiglio di condominio. Bisogna quindi distinguere. La polemica indistinta non ci fa individuare le vere responsabilità, a cominciare da quelle che hanno avuto indubbiamente il governo Scopelliti e la sua maggioranza in questi anni.
Dall’ultima polemica, facciamo un passo indietro e andiamo all’ultima assemblea regionale. In che cosa non è stato chiaro il segretario Magorno? In cosa la sua “area” si è sentita presa in giro?
L’ultima assemblea, tenutasi dopo molti rinvii, si è conclusa con un deliberato unanime e chiaro che impegna tutto il partito e a tutti i livelli, anche quello nazionale. Primarie entro il 21 settembre per scegliere il candidato alla presidenza. Rispetto a quel deliberato non si può tornare indietro. Ernesto Magorno deve rispettare quel mandato e farsi garante delle regole. E’ il segretario del partito non il capo di una corrente.
Immaginiamo lei si sia fatto un’idea sul perché non si voglia far candidare Mario Oliverio a presidente della Regione. Al di là delle frasi di convenienza, che cosa pensa veramente di questa situazione?
Davvero non so quali possono essere le ragioni cui lei fa cenno. Io credo che se non si vuole candidare Mario Oliverio, fatto legittimo, ci sia solo un modo: scegliere un candidato da contrapporgli alle primarie e chiedere ai calabresi i voti per farlo prevalere. E’ la democrazia…altre strade fatte di camarille, polpette avvelenate, inciuci, sarebbero sbagliate e ci farebbero solo perdere le elezioni.
Oliverio, potrebbe fare un passo indietro per il bene dell’unità, della Calabria e del partito. O no?
Perché dovrebbe ? Le primarie servono proprio a selezionare candidature e a riportare tutto all’unità dopo. Qualcuno ha chiesto a Battaglia o a Falcomatà, due esponenti del PD di primo piano di Reggio Calabria, di fare un passo indietro per presentarsi alle primarie con un solo candidato del partito in nome dell’unità ? A Reggio Calabria si sono fatte le primarie (con oltre 15mila partecipanti al voto) e i primi due più votati sono stati proprio i due esponenti del PD che già oggi sono insieme nella campagna elettorale per la conquista del Comune. Perché quello che è stato fatto a Reggio Calabria non può essere fatto a livello regionale ?
Pensa che non dico D’Attorre, l’ex commissario del Pd calabrese, ma Marco Minniti, abbia tradito Oliverio che proprio nei giorni scorsi ha detto: “Io non mi sono autocandidato, perché la mia scesa in campo mi è stata chiesta da D’Attorre e Minniti, più di un anno fa”.
E’ una domanda alla quale non posso rispondere, dovrebbe rivolgerla agli interessati. Io posso solo dire, in termini assai generali, che in politica cambiare idea è legittimo, purché se ne spieghino sempre bene e pubblicamente le ragioni.
Come se ne uscirà da questa situazione? Si troverà un accordo?
Si, con e dopo le primarie.
Se le dico che a Roma stanno contrattando sul nome della Lanzetta, cosa mi risponde?
Bene. Tutti i nomi vanno bene. L’importante è che si sottopongano alle primarie. Basta con i candidati calati dall’alto. I calabresi scelgano da chi vogliono essere governati.
Auguri a tutti di Buon Natale e Felice Anno Nuovo
Amnistia e indulto: il dovere di spiegare
Nelle carceri italiane il 60% e oltre dei detenuti è in attesa di giudizio. Significa che si tratta di persone che ancora nessun tribunale ha giudicato e condannato a nessuna pena.
Inoltre in Italia esistono una miriade di reati che in altri paesi del mondo sono stati completamente depenalizzati e prevedono, giustamente, sanzioni amministrative e non detentive. Senza contare che sulle misure penali alternative al carcere siamo ancora all’anno zero.
Anche per questo in Italia l’emergenza carceraria è più grave che in altri Paesi.
Si consideri, infine, che in carcere, in genere, ci restano comunque i più deboli, i più poveri, i più emarginati perché chi ha mezzi per difendersi e buoni avvocati riesce ad evitarlo.
Come si stia nelle carceri italiane, poi, è indegno di un qualsiasi paese civile e democratico. Vivere in tre o cinque persone in nove metri quadrati è indegno, e contraddice lo spirito della nostra Costituzione che individua nella pena non un fine ma un mezzo per il recupero sociale del condannato.
Per questa situazione la Corte di Giustizia europea ha già condannato l’Italia.
Che il Presidente della Repubblica inviti, dunque, il Parlamento a valutare eventuali misure di clemenza per dare una risposta a questa emergenza, mi sembra un atto non solo di umanità ma anche di semplice buon senso.
La politica dovrebbe dunque interrogarsi sulla necessità ed opportunità di un tale atto, assumendosi, con coraggio, la responsabilità di mettere in campo una iniziativa che porti a quella riforma organica della giustizia che da due decenni è rimasta impiccata alle vicende personali di Berlusconi, colmando i ritardi legislativi accumulati e che un provvedimento di amnistia o di indulto può solo tardivamente e temporaneamente risolvere.
Invece niente di tutto questo.
Urlare “in galera” è troppo facile e aiuta a prendere consensi. Salvo poi ritrovarsi con le carceri piene e il problema della sicurezza ancora più aggravato.
Altri invece amano disquisire su presunti favori a Berlusconi per motivare il proprio no, nonostante un provvedimento del genere con la condanna dell’uomo di Arcore non c’entra assolutamente nulla.
La politica vera avrebbe il dovere di spiegare all’opinione pubblica il senso di scelte impopolari ma giuste perché garantiscono il pieno godimento dei diritti individuali, i quali non sono mai negoziabili per motivi di “opportunità politica o elettorale”, perché fondamento stesso della democrazia.
Infatti, cosa sarebbe successo, ad esempio, se per continuare a dare retta alla pancia dell’opinione pubblica in Italia non si fosse approvata la legge Basaglia ? Avremmo continuato a tenere i matti nei manicomi con le camicie di forza e trattandoli ad elettroshock continuando a condannare tanta povera gente colpevole solo di soffrire forme, nella maggioranza dei casi, lievi di disagio mentale alla emarginazione sociale ed alla morte civile, anticamera di quella fisica ?
La politica, dunque, si assuma le proprie responsabilità. Che non lo facciano Grillo o la Lega, non mi sorprende. Che non lo faccia chi si candida a fare il segretario del mio partito, del primo partito della sinistra italiana, lo trovo profondamente sbagliato e inaccettabile.
Responsabilità civile dei giudici: why not ?
Un giudice ha condotto un’inchiesta che è costata 10 milioni di euro.
Questa inchiesta ha indagato e sottoposto a processo decine e decine di persone che alla fine sono state tutte assolte con formula piena.
Alcune di queste persone hanno avuto la vita personale e professionale rovinata e per anni sono stati additati al pubblico ludibrio della gogna mediatica.
Addirittura questa inchiesta è stata la causa della caduta di un governo della repubblica.
L’intera inchiesta, oggi lo dimostrano anche le sentenze, era soltanto una fantomatica bufala.
Nonostante questo il giudice in questione, grazie alla notorietà mediatica acquistata durante le indagini, è riuscito a farsi eleggere prima deputato europeo e poi Sindaco di una delle più grandi città d’Italia.
Dei suoi evidenti errori non risponderà mai davanti a nessun tribunale.
Se invece un medico, un insegnante, un ingegnere o un qualsiasi cittadino che guida la sua macchina sbaglia, è condannato quantomeno al risarcimento del danno che provoca.
In tutto il mondo democratico esistono leggi che stabiliscono la responsabilità civile dei giudici.
Per questi motivi ho firmato il referendum proposto dai radicali.
Il caso Del Turco deve farci riflettere tutti…
Non voglio aggiungere nulla a quanti, molto più autorevoli di me, hanno espresso forti dubbi sulla condanna subita da Ottaviano Del Turco.
Basti qui ricordare ciò che tanti hanno detto: una condanna senza prove, basata solo sulle dichiarazioni dell’accusatore, con lo stesso Del Turco che prima era stato accusato di aver chiesto soldi all’accusatore e, a fine processo, di essere stato da quello stesso accusatore, corrotto.
Un processo che ha provocato la caduta di un’amministrazione regionale, con l’arresto del suo Presidente tenuto in carcerazione preventiva per 28 lunghi giorni, con una Procura che dichiarava ai quattro venti di avere raccolto sull’ipotesi di reato della concussione (poi mutata a fine processo, in corruzione) prove “schiaccianti”.
Si aggiunga che l’accusatore, un imprenditore della sanità privata abruzzese, ha collezionato negli anni successivi, una serie di imputazioni che ne hanno minato sensibilmente la credibilità.
Chi ha seguito il processo ha visto questa montagna di prove sciogliersi come neve al sole, la cosiddetta prova regina, quella della foto del famoso cesto di mele pieno di soldi, si è dimostrata un clamoroso e maldestro falso e soprattutto non è stata trovata nessuna traccia dei soldi delle presunte tangenti milionarie che sarebbero state pagate a Del Turco.
In qualunque paese del mondo dove vige il principio elementare che per condannare una persona debbano esistere prove e riscontri che vadano “al di là di ogni ragionevole dubbio”, Del Turco avrebbe dovuto essere assolto con tante scuse e con formula piena.
Eppure Del Turco è stato condannato, anche se continuo a confidare nei prossimi gradi di giudizio.
Tuttavia è questa condanna, sia pure in primo grado, che costituisce di per sé un punto nodale sul quale occorre che tutti riflettano e fino in fondo.
Non è un problema che riguarda la diatriba tra giustizialisti e garantisti, è qualcosa di più profondo e, se vogliamo, più drammatico.
Qualcosa che prescinde la persona di Del Turco il quale ha almeno buoni avvocati con i quali difendersi anche nei prossimi gradi di giudizio, e la consolazione di avere attorno a sé un certo numero di persone che lo stimano, lo difendono e gli esprimono solidarietà anche pubblicamente.
Il caso Del Turco ci dice che in Italia è, troppo spesso sufficiente che qualcuno vada in Procura, elevi delle accuse contro un altro, non importa se vere o false, fantasiose o concrete, perché queste accuse diventino di per sé elementi di prova.
Da qui l’innesco di un meccanismo che porta prima all’emissione di misure cautelari con un gip che dà il suo assenso ad una richiesta di arresto preventivo pur in assenza palese delle circostanze che lo motivano, poi un gup che dà il via ad un processo nonostante la mancanza di riscontri oggettivi e, infine, un collegio giudicante che, nonostante il dibattimento che è, come mi insegnano i giuristi, il cuore del processo, dimostri l’assoluta infondatezza dell’impianto accusatorio, fa proprie fino in fondo le tesi dell’accusa che si basano solo su quanto dichiarato da quel singolo accusatore.
Casi simili si verificano, purtroppo, sempre più spesso, e riguardano tantissime persone, meno note di Del Turco, che vengono risucchiate in un vortice da cui spesso non riescono ad uscire.
Nessuna persona, dotata di un minimo senso di umanità, può accettare che una sola di queste aberrazioni possa continuare o ripetersi.
In uno Stato di diritto solo i colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio possono essere condannati, se quel ragionevole dubbio persiste, dicono autorevoli giuristi, per il sistema è molto meglio un colpevole impunito che un innocente punito ingiustamente.
Qui è il nodo che, purtroppo, dal caso Tortora, quindi molto prima dell’era del garantismo peloso di Berlusconi, è rimasto insoluto nella giustizia italiana.
Negare che non è utile alla giustizia che lo stesso magistrato svolga nel corso della sua carriera funzioni completamente diverse, inquirenti e giudicanti, spesso senza soluzioni di continuità e nelle stesse sedi per molti anni, è una grande ipocrisia.
Ciò deve portare alla separazione delle carriere ? In altri paesi separate lo sono e non fa scandalo, ma se non si vuole pervenire a questa soluzione sulla quale è in corso una discussione che, come spesso accade in Italia, si ammanta di ideologia, almeno si fissino regole precise sulla separazione delle funzioni.
Si affronti, infine, anche qui senza ideologia, il tema del superamento di certo spirito corporativo della magistratura pervenendo, in qualche modo, al principio della responsabilità civile del magistrati laddove sussistano elementi incontrovertibili “di dolo e colpa grave” nell’errore giudiziario.
Quello della responsabilità, infatti, è un tema decisivo, fondamentale in uno Stato di diritto.
In quale società può esistere una categoria che praticamente non è assolutamente perseguibile per gli errori che commette nell’esercizio delle sue funzioni ?
Perché ciò che vale per impiegati, funzionari, dirigenti della PA, membri delle forze armate e degli apparati di sicurezza, medici, primari, infermieri, politici e amministratori ecc. non deve valere per chi amministra quotidianamente la giustizia ?
Sono domande semplici che meriterebbero risposte semplici.
Ma in questo nostro straordinario Paese le cose semplici sono, quasi sempre, le più difficili da fare.
LA MOSTRUOSA NORMALITA’ DEL DELITTO DI CORIGLIANO.
Se fossi il padre della ragazza uccisa a Corigliano i miei sentimenti, oggi, sarebbero di rabbia e di vendetta.
Ho guardato mia figlia ieri, una ragazza quasi della stessa età di Fabiana e ho pensato che, se quell’orrore fosse capitato a lei, non avrei sopportato, forse non sarei sopravvissuto a tanto dolore.
Ho provato sdegno impotente e volontà di annientamento del responsabile di tanta violenza.
Poi ho pensato che sarebbe stata vendetta e non giustizia.
E ho guardato mio figlio, oggi un ragazzetto di 12 anni, mi sono sforzato di vederlo più grande di qualche anno.
E ho pensato che il ragazzo che ha ucciso e torturato ora probabilmente sarà nell’inferno, che solo dopo ore avrà realizzato l’enormità del suo gesto, che ciò che ha vissuto non è come un videogioco in cui le vite si rigenerano dopo averle perdute.
Ho pensato ai genitori dell’assassino che magari in queste ore stanno continuando a chiedersi (e forse lo faranno per tutta la vita, senza alcuna possibilità di risposta) com’è potuto accadere che il loro figlio abbia potuto trasformarsi in quel mostro che giornali e TV raccontano, in cosa e quando hanno sbagliato, in quale momento della loro vita di adulti normali non hanno capito e non hanno aiutato quel bambino diventato ragazzo e oggi omicida.
E allora mi sono convinto che è giusto che la giustizia faccia il suo corso, che la legge aiuti tutti noi ad uscire dai sentimenti contrastanti di queste ore, dalle reazioni emotive.
Nonostante i media che su questa storia staranno per mesi, nonostante la miriade di esperti psicologi, sociologi e quant’altro che parleranno dicendo cose giuste ma che non restituiranno la vita a chi l’ha persa, né alla vittima, né al carnefice.
Spero che, alla fine, tutti quanti noi potremo riflettere.
Perché questo delitto, questo ennesimo caso di femminicidio, per usare un termine entrato nel dibattito corrente, non sia soltanto punito dalla legge ma ci aiuti anche a capire cosa in questo nostro mondo si è rotto e come ricostruirlo.
Magari sforzandoci tutti noi, genitori di ragazzi, ad aiutare i nostri figli, ad insegnare loro il rispetto per gli altri, soprattutto se sono più deboli di noi.
Parlare alle nostre ragazze e soprattutto ai nostri ragazzi, non pensare che il tutto si risolva con il semplice esaudimento dei loro desideri materiali.
Assumendoci tutti quanti le nostre responsabilità di adulti.
Perché l’orrore di Corigliano non è distante da noi; perché possiamo riconoscerlo prima che accada nella sua, purtroppo, mostruosa normalità.
RICORDIAMO ENZO TORTORA MA EVITIAMO IPOCRISIE
Venticinque anni fa, il 18 maggio 1988, moriva Enzo Tortora.
Enzo Tortora fu accusato ingiustamente di essere un affiliato della camorra, costretto in carcere, massacrato mediaticamente, condannato in primo grado e assolto in appello con formula piena.
Un errore giudiziario clamoroso che lo portò alla morte.
Enzo Tortora si difese sempre con determinazione nel processo, arrivando persino a rinunciare all’immunità di parlamentare europeo. Altra tempra, altro uomo.
Fu grazie alla battaglia condotta da Enzo Tortora che gli italiani diedero un consenso plebiscitario al referendum che introduceva la responsabilità civile dei giudici “per colpa grave”.
Tuttavia, la legge Vassalli che uscì fuori da quel referendum, stabilì che il cittadino che ha subito le conseguenze di un errore giudiziario può rivalersi sullo Stato che pagherà un risarcimento e solo dopo, eventualmente, lo Stato può rivalersi sul giudice che ha sbagliato ma solo “entro un terzo di annualità dello stipendio”.
Non ho notizia che questo secondo passaggio si sia mai verificato negli ultimi venticinque anni, mentre ammontano a parecchi milioni di euro le somme pagate dallo Stato per ingiusta detenzione.
In buona sostanza, i magistrati continuano ad essere l’unica categoria di impiegati pubblici i cui errori commessi per “dolo o colpa grave” vengono pagati da tutti i cittadini e che di persona non ne subiscono alcuna conseguenza, neppure, che so, il semplice trasferimento d’ufficio.
Sarebbe dunque bene che, ricordando Tortora, si evitassero facili ipocrisie e ci si rendesse conto che, Berlusconi a parte, in Italia esiste una questione giustizia grande quanto una casa.
GIULIO ANDREOTTI: UN UOMO DI POTERE IN UN PARTITO CONDANNATO AL POTERE.
Quando scompaiono personalità come quella di Giulio Andreotti non si può fare a meno dal rifuggire da giudizi semplicistici e liquidatori.
Lo si deve alla grandezza di un personaggio che comunque è parte fondamentale della storia d’Italia degli ultimi settant’anni.
Lo si deve, lasciatemelo dire, all’intelligenza dei cittadini, ai quali non può essere propinata la solita lettura “giudiziaria” di una vicenda vasta e tragica che è quella dell’Italia del dopoguerra, delle sue luci e delle sue ombre.
Andreotti fu, soprattutto, un uomo politico e un uomo di stato. Fu un uomo di potere in un partito condannato dalla situazione internazionale a restare comunque al potere, la Democrazia Cristiana. Un partito in cui lui e la sua corrente non furono mai maggioranza ma spesso rappresentarono il punto (di potere, appunto) più avanzato di equilibrio.
Proprio per questo l’uomo nella sua vita, ha suscitato più odio che amore.
Andreotti fu odiato dai comunisti che in lui vedevano la personificazione di tanti mali: la DC, i cattivi “amerikani”, la mafia. Sì, perché per tanti comunisti Andreotti era mafioso ben prima che il processo di Caselli e il presunto “bacio” di Riina dessero credito a questa tesi.
La sua stessa figura fisica sembrava richiamare l’antica idiosincrasia ipocrita di tanti intellettuali italiani per la politica intesa come intrigo, segreto, manovra. Di che meravigliarsi ? Siamo il Paese che ha dato i natali a Machiavelli e nello stesso tempo più odia Machiavelli.
Ma Andreotti era odiato anche da tanti democristiani nell’infinito gioco delle correnti contrapposte dalle quali sembrava emergere sempre lui, nonostante tutti e tutto. Neanche nel PSI era particolarmente amato.
In verità Andreotti fece, nelle condizioni storiche date, quello che si richiedeva ad un politico moderato nato dal patto degasperiano di tenere fuori l’Italia dall’influenza sovietica.
I dirigenti comunisti più accorti e tutti coloro che conoscevano la politica, quella vera, lo sapevano e ad Andreotti riconoscevano il ruolo che si era assunto. Lo riconoscevano e lo rispettavano.
Poi la vicenda giudiziaria: molti l’hanno ricordato e non posso non tornarci. Andreotti si difese nel processo e non pretese di difendersi dal processo. Altro uomo, altra stoffa. E tuttavia quel processo fu, per me, un grave vulnus alla vicenda politica e sociale del Paese, la cui storia non può essere letta come un romanzo criminale.
Intendiamoci, non sostengo che la politica non si processa, anzi. Credo invece che sia la storia a non potere essere letta con le lenti di un processo giudiziario. I processi devono stabilire se ci sono reati e punirli. Non possono scrivere la storia di un Paese.
Sarà dunque la storia ad assegnare torti e ragioni. L’ha già fatto, se ci pensiamo bene.
In attesa che qualcuno con meno pregiudizi e maggiore obiettività la scriva, rendiamo ad Andreotti il rispetto che gli è, comunque, dovuto.
D’ALEMA: IL COMPORTAMENTO DI INGROIA RENDE POCO CREDIBILE IL PAESE
“Ingroia prima ha condotto l’inchiesta Stato-mafia, non a caso conclusa con una candidatura elettorale, usando il suo ruolo per processare la storia del nostro Paese, poi ha abbandonato il suo ufficio internazionale. Da ministro degli Esteri, so cosa ha significato riuscire a ottenere dall’Onu l’incarico in Guatemala per un italiano. E so cosa vuol dire per la credibilità del Paese che l’incaricato stia lì solo una settimana, per giunta in collegamento con Santoro, e poi se ne vada”.
LA SENTENZA DELL’AQUILA SA TROPPO DI CACCIA AGLI UNTORI
Condannare degli esperti per omicidio colposo per non avere, in sostanza, previsto un terremoto che notoriamente è un evento scientificamente imprevedibile, sa troppo di sentenza basata sulla pressione di una opinione pubblica sconvolta da un evento drammatico e disastroso, sa di volontà di trovare comunque capri espiatori, untori da dare in pasto a folle superstiziose come avveniva nei secoli passati. Senza contare il fatto che, d’ora in avanti la Commissione Grandi Rischi sarà nei fatti messa in condizione di non potere esprimere pareri, perché condizionata o dalla paura di procurare allarmi o di non procurarli. E ciò varrà per ogni esperto chiamato ad esprimere valutazioni di merito su fatti piccoli e grandi, con buona pace del principio dell’autonomia della scienza, che è un valore conquistato da secoli con Bernardino Telesio e Galileo Galilei. Non è un caso che questo processo, prima ancora della sentenza è stato seguito dalla stampa internazionale e sta suscitando forti critiche rispetto al nostro sistema giudiziario che già non godeva di buona fama. Mi chiedo e vi chiedo, fermo restando tutte le valutazioni giuridiche del caso e il processo di appello: si poteva evitare tutto ciò, e soprattutto i colpevoli del disastro dell’Aquila non andavano forse meglio cercati in tanti che hanno alimentato abusivismo e violazioni di leggi antisismiche, in chi non ha mai predisposto piani di protezione civile, ecc. ?