Politica
La carcerazione preventiva è una vergogna per tutti, parlamentari e non…
Ho scelto volutamente di non scrivere nulla quando fu concessa l’autorizzazione all’arresto di Franco Antonio Genovese, deputato del PD.
Non volevo espormi alla critica, troppo semplice, di fare il garantista soltanto con quelli della mia parte politica.
Scelgo, invece, di parlare dell’autorizzazione all’arresto concessa dalla Camera per Giancarlo Galan.
I casi sono diversi ma presentano caratteristiche simili: a seguito di indagini da parte delle competenti procure è stato chiesto alla Camera la possibilità di procedere all’arresto preventivo per i due deputati.
Nel nostro ordinamento, vorrei ribadirlo, l’arresto preventivo si configura solo per alcuni casi ben specificati dal codice: pericolosità sociale, pericolo di fuga o di inquinamento delle prove.
Senza entrare nel merito dei diversi procedimenti, nei due casi specifici non mi pare ci trovassimo di fronte alle situazioni menzionate.
Nel caso di Galan, addirittura, la Camera ha concesso l’autorizzazione prima ancora che il Tribunale della Libertà si pronunciasse sulla istanza dei legali del parlamentare contro la richiesta di arresto. Una solerzia incredibile.
Il tutto mentre in Italia impazza il dibattito sull’immunità parlamentare che, come giustamente scrive oggi Pierluigi Battista sulle colonne del “Corriere della Sera”, è stata ridotta ad un simulacro rispetto a quella pensata come strumento per garantire l’autonomia dei parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni dai nostri padri costituenti.
Si è passati da una immunità prima garantita a tutti a prescindere a quella concessa solo agli amici di partito o concessa a prescindere. Con l’ipocrisia della lettura delle carte (quasi sempre alcune migliaia) e l’aggravante che nella maggioranza dei casi i parlamentari arrestati o no (vedi i casi di Papa e Tedesco) sono risultati innocenti.
La verità è che l’abuso che si fa della carcerazione preventiva è un obbrobrio in sé, sia per i politici (condizione che è diventata un’aggravante non scritta dei nostri codici) sia (e soprattutto) per tutti i cittadini.
Oggi il 40 % dei detenuti nelle nostre carceri è in attesa di giudizio o di sentenza definitiva, vale a dire, a norma della Costituzione più bella del mondo di cui si riempiono la bocca i giustizialisti di ogni ordine e grado, innocenti.
Un paese che tiene o manda in galera persone prima che una giuria li giudichi colpevoli con sentenza definitiva è un paese incivile.
Siamo sicuri che è questo il paese che vogliono gli italiani ? Ora che la scusa Berlusconi non c’è più di questi temi si potrà parlare liberamente, o no ?
Giovanni Giolitti, un vero statista.
Il 17 luglio del 1928 moriva all’età di 86 anni Giovanni Giolitti, uno dei pochi grandi statisti italiani.
Dico pochi, perché l’Italia non ha avuto grandi uomini di Stato: facendo uno sforzo enumerativo non riempiono le dita di una mano: Cavour, lo stesso Giolitti, De Gasperi, in qualche modo Bettino Craxi.
Per altri l’esperienza di governo è stata troppo breve o segnata dall’appartenenza a forze politiche di opposizione o minoritarie (penso a Nenni o allo stesso Togliatti).
Giovanni Giolitti fu, pienamente, un uomo di Stato e di governo.
Giolitti riteneva che l’Italia non avrebbe mai potuto diventare un paese moderno e pienamente inserito nel contesto delle grandi potenze europee del tempo, se non avesse allargato le basi della democrazia, condizione necessaria per lo sviluppo economico e sociale.
Pensava, giustamente, che non ci può essere sviluppo economico senza consenso e senza che a goderne siano tutte le classi sociali.
Era un liberale puro, che individuava nel Parlamento l’unico luogo dove i diversi e spesso contrastanti interessi della società italiana potessero trovare rappresentanza e risposte.
Credeva, in buona sostanza, nella centralità della politica e per questo fu il principale bersaglio delle spinte antipolitiche e irrazionaliste che cominciarono a pervadere la società italiana nel primo decennio del Novecento.
Contro Giolitti ed il giolittismo fu scatenata una vera e propria guerra che riecheggia molte parole d’ordine di oggi: nuovo contro vecchio, politicanti contro popolo (casta e anticasta), piazza contro Parlamento, ecc..
L’Italia antigiolittiana porterà il paese in una guerra sanguinosa e disastrosa e, poi, nel disordine politico e sociale propedeutico all’avvento della dittatura fascista.
Giolitti, dopo un iniziale riconoscimento del Governo di Benito Mussolini (che lo considererà, a ragione, il suo principale avversario politico) si ritirerà a vita privata in un atteggiamento di sempre maggiore ostilità nei confronti del regime che lo sottoporrà ad un’occhiuta vigilanza.
Questo riconoscimento non deve sorprendere in un uomo che aveva fatto del rispetto delle istituzioni e del re un imperativo categorico, arrivando persino a “caricarsi”, lui incolpevole, le responsabilità politiche dello scandalo della Banca romana per evitare che Monarchia e vecchie classi dirigenti liberali ne venissero travolte.
Qualcuno ha detto che i grandi uomini sono tali persino nelle loro contraddizioni: Giovanni Giolitti, anche in questo, non fu un’eccezione.
Scuola: l’ennesima “non-riforma”.
Ho letto, come tanti, gli articoli con i quali si annunciava una legge-delega sulla scuola proposta dal sottosegretario Roberto Reggi.
Dico subito che, al netto degli annunci sulla obbligatorietà dell’aggiornamento dei docenti e su altro, chiamarla riforma mi sembra assai pretenzioso. Essa va piuttosto ricondotta alla sua vera essenza, cioè l’ennesimo tentativo di intervento sul personale per rivedere orari e stipendi.
Il tutto sugellato con la solita frase ad effetto: “la scuola cessi di essere un ammortizzatore sociale” (bum).
Non credo sia necessario ribadire che le 18 ore nelle scuole secondarie inferiori e superiori e le 24 ore nelle scuole primarie si riferiscono solo alle ore di lezione in classe.
Poi c’è tutto un lavoro al quale l’insegnante è obbligato, che in gran parte non rientra in quel monte orario (organi collegiali, programmazione, incontri scuola-famiglia, correzione compiti, ecc.).
Un lavoro delicato, sottoposto ad un controllo continuo, e non soltanto dei dirigenti scolastici, ma di un’utenza sempre più complessa ed esigente.
Se mi è consentita una battuta, discutere con i genitori sul rendimento e comportamento dei loro figli talvolta è un’esperienza che non si augura neppure ai peggior nemici !!!
Non si comprende, poi, che cosa significa proporre un aumento dell’orario a 36 ore settimanali atteso che, per come è organizzata la scuola oggi, le ore di lezione frontale possono aumentare al massimo a 24 (la media europea è attorno a 19, ma con stipendi assai più alti).
A meno che non si pensi ad una scuola a tempo iper-pieno che però significa un aumento di spesa per lo Stato e gli EELL in termini di personale ATA, servizi di pulizia, mense, trasporti, ecc..
Ci sono queste risorse ? Magari, ma mi pare che i segnali vadano in ben altra direzione (vedi il caso di Genova, dove l’esigenza di contenere la spesa ha imposto la settimana corta). E comunque resterebbe da capire che cosa dovrebbero fare i docenti nelle ore in cui non fanno lezione al netto degli altri impegni professionali.
Nessuno nega, ovviamente, la presenza nella nostra scuola di insegnanti buoni e cattivi, quelli che a scuola praticamente ci vivono e altri che appartengono alla categoria dei “fantasmi”.
Queste due categorie percepiscono alla fine del mese lo stesso stipendio. Come, in generale, avviene in tutta la PA.
Poi ci sono gli incarichi sulle funzioni strumentali o di collaborazione con il dirigente scolastico o nei progetti PON che sono già, nei fatti, quegli incentivi economici al personale più impegnato e disponibile di cui tanto si parla.
Se oggi qualcuno dice, giustamente, introduciamo il principio secondo il quale chi lavora di più guadagna di più, non vedo come si possa essere in disaccordo. Come stabilire criteri e parametri oggettivi per non affidare tutto alla valutazione dei Dirigenti Scolatici ? Se ne discuta laicamente.
Tuttavia il vero tema che sta alla base della proposta Reggi, ripeto, non è questo.
La verità è che si vogliono produrre risparmi sul personale, azzerare le supplenze brevi e vedere come si fa cassa rispetto alle esigenze del bilancio dello Stato.
Nulla di nuovo, quindi, e nessuna riforma, solo destrutturazione di quello che c’è. E invece di una riforma vera la nostra scuola avrebbe davvero bisogno, una riforma che non solo ne ridurrebbe i costi, ma la renderebbe più efficace ed efficiente.
La nostra scuola oggi non ha identità: è la risultante di tante riformicchie senza respiro tenuta insieme con gli spilli e il senso di sacrificio di gran parte del suo corpo docente (che qualcuno lo riconoscesse, una volta tanto, non sarebbe male).
Non può sfuggire a nessuno, infatti, che dopo gli interventi sull’obbligo che, nei fatti, lo spingono fino ai diciotto anni in linea con i paesi più avanzati, si è aperto il problema di intervenire su alcuni segmenti del sistema, in particolare quello che va dal primo anno della secondaria inferiore al terzo anno della secondaria superiore.
Qui è il vero ventre molle, qui si concentrano tutte le criticità dal punto di vista pedagogico, didattico ed organizzativo.
Una vera riforma della scuola non può, quindi, limitarsi a discutere di orari e personale ma deve necessariamente porsi due domande fondamentali: primo, cosa pensiamo che la scuola debba fare, secondo come e con quali risorse debba farlo.
Hic Rhodus, hic salta. Non si sfugge.
Io penso che un intervento in quel segmento non possa non porsi come obiettivo quello squisitamente formativo, che si traduce in più ampi e diversificati contenuti disciplinari (si pensi, ad esempio, al ritorno del latino inteso come disciplina che struttura l’acquisizione corretta della lingua italiana) e in una robusta scelta a favore dell’innovazione tecnologica in linea con la cosiddetta rivoluzione digitale che stiamo vivendo.
In questo quadro può e deve essere pensato un diverso e più valorizzante uso del personale e quindi anche il superamento di evidenti discrasie, inefficienze e sprechi di risorse.
Un Governo del fare come si definisce quello di Matteo Renzi ha il dovere, anche su questo settore strategico, di introdurre una fase di netta discontinuità.
“Basta con i candidati calati dall’alto”
Intervista apparsa su www.vortexnewscalabria.com il 9 luglio 2014 di Francesca Gabriele
Lui per primo è quasi sobbalzato quando il ministro Lanzetta ha chiesto le dimissioni dei consiglieri regionali e i motivi li ha spiegati in una nota e poi in questa nostra conversazione. Magorno è il segretario del Pd “non il capo di una corrente” ci ha detto ancora il dirigente democrat, Gabriele Petrone, al quale abbiamo chiesto anche della candidatura di Mario Oliverio, del silenzio di Alfredo D’Attorre e Marco Minniti e dell’ultima indiscrezione, la scesa in campo per i renziani alle regionali del ministro Maria Carmela Lanzetta.
Immaginiamo lei abbia sorriso nel leggere le esternazioni prima del suo segretario regionale, Ernesto Magorno e poi del ministro, Lanzetta. Spiega anche ai nostri lettori perché i consiglieri regionali non devono dimettersi?
Non ho sorriso. Ho pensato soltanto che alla propaganda non c’è mai limite. Ma anche la propaganda deve dire la verità. Io non dico che i consiglieri regionali non devono dimettersi, dico soltanto che sarebbe inutile e ininfluente ai fini dell’accelerazione dei tempi per andare a nuove elezioni. Il Consiglio è sciolto dal 3 giugno e resta solo per l’ordinaria amministrazione. La Presidente f.f. della Giunta Regionale dott.ssa Stasi, entro 45 giorni, cioè entro il prossimo 18 luglio, deve, sentito il Ministero dell’Interno e il Prefetto del Comune capoluogo di Regione, individuare la data per le nuove elezioni. Funziona, per analogia, come per il Parlamento, quando il Presidente della Repubblica firma il decreto di scioglimento delle Camere. I singoli parlamentari rimangono in carica fino all’elezione del nuovo parlamento. Nessuno si sognerebbe di chiedere le dimissioni dei parlamentari nel momento in cui il parlamento è sciolto e va a nuove elezioni. Ora, che queste cose le ignorino i singoli cittadini può passare. Che non lo sappiano il segretario regionale di un grande partito o un ministro della Repubblica mi pare assai difficile. Penso che abbiano voluto fare propaganda, ma la propaganda deve partire da dati reali, altrimenti si alimentano nei cittadini sentimenti ingiustificati di ostilità nei confronti non tanto dei singoli uomini politici, che sarebbe politicamente legittimo a condizione di distinguere con nettezza le responsabilità che non sono tutte uguali, ma delle intere istituzioni. E ciò non va bene, perché le istituzioni sono di tutti e vanno sempre salvaguardate in un sistema democratico.
A onor del vero, la Lanzetta parlava di rivolta morale. Si spezzerebbe qualche meccanismo “amorale” all’interno del consiglio regionale con le dimissioni dei consiglieri del Pd?
Ripeto, le dimissioni dei singoli consiglieri sarebbero semplicemente inutili, anzi, con il meccanismo delle surroghe, darebbero addirittura la possibilità a coloro che vogliono perdere tempo, di tentare di prolungare la vita ad un Consiglio ormai sciolto. La Lanzetta, se vuole accelerare i tempi per tornare alle urne sa cosa deve fare. Intervenga sul Ministro dell’Interno e sul Governo per sollecitare alla Stasi l’indizione delle nuove elezioni anche prima del 18 luglio. I calabresi devono tornare a votare al più presto. Questa è la risposta politica e morale che si attendono. Le dico di più: trovo insopportabili i toni moralistici di certa polemica che viene condotta sic et simpliciter contro tutti i consiglieri regionali. Tra questi ci sono tante persone che fanno onestamente e fino in fondo il loro dovere e altre che non sarebbero degne di far parte neanche di un consiglio di condominio. Bisogna quindi distinguere. La polemica indistinta non ci fa individuare le vere responsabilità, a cominciare da quelle che hanno avuto indubbiamente il governo Scopelliti e la sua maggioranza in questi anni.
Dall’ultima polemica, facciamo un passo indietro e andiamo all’ultima assemblea regionale. In che cosa non è stato chiaro il segretario Magorno? In cosa la sua “area” si è sentita presa in giro?
L’ultima assemblea, tenutasi dopo molti rinvii, si è conclusa con un deliberato unanime e chiaro che impegna tutto il partito e a tutti i livelli, anche quello nazionale. Primarie entro il 21 settembre per scegliere il candidato alla presidenza. Rispetto a quel deliberato non si può tornare indietro. Ernesto Magorno deve rispettare quel mandato e farsi garante delle regole. E’ il segretario del partito non il capo di una corrente.
Immaginiamo lei si sia fatto un’idea sul perché non si voglia far candidare Mario Oliverio a presidente della Regione. Al di là delle frasi di convenienza, che cosa pensa veramente di questa situazione?
Davvero non so quali possono essere le ragioni cui lei fa cenno. Io credo che se non si vuole candidare Mario Oliverio, fatto legittimo, ci sia solo un modo: scegliere un candidato da contrapporgli alle primarie e chiedere ai calabresi i voti per farlo prevalere. E’ la democrazia…altre strade fatte di camarille, polpette avvelenate, inciuci, sarebbero sbagliate e ci farebbero solo perdere le elezioni.
Oliverio, potrebbe fare un passo indietro per il bene dell’unità, della Calabria e del partito. O no?
Perché dovrebbe ? Le primarie servono proprio a selezionare candidature e a riportare tutto all’unità dopo. Qualcuno ha chiesto a Battaglia o a Falcomatà, due esponenti del PD di primo piano di Reggio Calabria, di fare un passo indietro per presentarsi alle primarie con un solo candidato del partito in nome dell’unità ? A Reggio Calabria si sono fatte le primarie (con oltre 15mila partecipanti al voto) e i primi due più votati sono stati proprio i due esponenti del PD che già oggi sono insieme nella campagna elettorale per la conquista del Comune. Perché quello che è stato fatto a Reggio Calabria non può essere fatto a livello regionale ?
Pensa che non dico D’Attorre, l’ex commissario del Pd calabrese, ma Marco Minniti, abbia tradito Oliverio che proprio nei giorni scorsi ha detto: “Io non mi sono autocandidato, perché la mia scesa in campo mi è stata chiesta da D’Attorre e Minniti, più di un anno fa”.
E’ una domanda alla quale non posso rispondere, dovrebbe rivolgerla agli interessati. Io posso solo dire, in termini assai generali, che in politica cambiare idea è legittimo, purché se ne spieghino sempre bene e pubblicamente le ragioni.
Come se ne uscirà da questa situazione? Si troverà un accordo?
Si, con e dopo le primarie.
Se le dico che a Roma stanno contrattando sul nome della Lanzetta, cosa mi risponde?
Bene. Tutti i nomi vanno bene. L’importante è che si sottopongano alle primarie. Basta con i candidati calati dall’alto. I calabresi scelgano da chi vogliono essere governati.
La paura del popolo caprone dei soliti gattopardi.
La democrazia moderna è nata quando si disse al popolo: ora puoi scegliere.
Ovviamente agli inizi si pensava che il popolo fosse solo quello composto dai possidenti, perché, si diceva, solo chi ha da perdere e guadagnare può davvero decidere delle sorti dello Stato.
Spaventava, insomma, l’idea che il popolo caprone, analfabeta ed ignorante, potesse scegliere davvero.
Le prime leggi elettorali furono, quindi, censitarie: poteva votare soltanto chi pagava le tasse.
Questo criterio superava persino quello della capacità, per cui se il ricco era ignorante come una capra e analfabeta (fatto non raro a quei tempi) poteva votare lo stesso. I suoi saperi erano meno importanti dei suoi averi.
Decenni e decenni di battaglie democratiche hanno poi progressivamente affermato l’allargamento del diritto di voto fino all’affermazione del suffragio universale prima solo maschile, poi anche femminile. Fu un fenomeno mondiale e con il suffragio universale nacquero anche i grandi partiti di massa.
Ma la paura del popolo caprone è rimasta comunque, arrivando fino ai giorni nostri.
Certo oggi nessuno ha la faccia di proporre una legge elettorale censitaria, anche se non ci giurerei sopra.
Prevale, in tanti e trasversalmente, una sostanziale avversione alla decisioni frutto della reale volontà popolare. E’ anzi diffusa la convinzione che solo pochi siano davvero quelli in grado di scegliere. Al popolo, al massimo, spetta la ratifica della scelta
Se ci riflettete bene questa paura sottende tanto della politica di oggi.
Così quando si tratta di eleggere i deputati e i senatori non si può prescindere dalle liste bloccate, quando si parla di primarie si dice si, ma chi vince lo decidiamo prima a tavolino.
Costoro hanno una concezione della democrazia per cui si decide solo “colà dove si puote”, con la differenza che non sono padreterni, anzi.
Sono come quei vecchi feudatari la cui autorità derivava da titoli e possessi, che si riprodussero, come il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, sotto forma di deputati e senatori nei primi parlamenti italiani.
Oggi i loro epigoni li ritroviamo dappertutto anche nel campo cosiddetto progressista a propugnare la solita solfa: tu, caro popolo sei troppo caprone per poter scegliere, lascia fare a noi. Ma il popolo caprone, tutt’altro che mansueto, una bella cornata prima o poi, finisce per dargliela “laggiù ove si puote…e si deve”.
FESTA DELLA REPUBBLICA.
Principii fondamentali
“Il regime democratico ha per regola l’eguaglianza, la libertà, la fraternità. non riconosce titoli di nobiltà, né privilegi di nascita o casta.
La repubblica colle leggi e colle istituzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini”. (…).
Dalla “COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ROMANA” (1849)
Perché il “grillismo” non può non finire a destra.
Si fa un gran parlare degli approcci europei di Beppe Grillo con il movimento ultraconservatore e xenofobo di Nigel Farage, UKIP.
La cosa potrà fare inorridire tanti intellettuali che, a partire dal successo dello scorso anno, si sono dilungati in ardite disquisizioni politico-sociologiche sulla natura “rivoluzionaria” del Movimento 5 Stelle.
Il fascino che massimalismo, radicalismo e rivoluzionarismo hanno sempre avuto su alcuni settori dell’intellighentzia italiana (e non solo) non è nuovo, ed è frutto di una forte carenza di analisi sia dei contenuti del messaggio politico del cosiddetto “grillismo” sia della concreta valutazione degli interessi sociali che qualsiasi formazione politica, anche quella più fortemente antisistema, si pone l’obiettivo di rappresentare.
Ora non c’è dubbio che il Movimento 5 Stelle è un movimento tipicamente, autenticamente e coerentemente antipolitico.
Esso è riuscito a raccogliere una vasta area di consenso assolutamente trasversale nel quadro di una profonda crisi del nostro sistema politico raccogliendo in un unico contenitore assolutamente trasversale tutte le proteste, le insoddisfazioni, la rabbia sociale che è cresciuta e maturata nella società italiana soprattutto in ragione della crisi economica.
E’ vero anche che il M5S ha mutuato un linguaggio politico semplificato ma sostanzialmente condizionato dall’influenza culturale della cosiddetta sinistra movimentista, che ne costituisce anche la parte fondamentale della sua struttura “militante”.
Un linguaggio politico in cui tradizionalmente prevale la propensione protestataria su quella propositiva e programmatica, l’oltranzismo delle posizioni, il manicheismo condito da robuste dosi di moralismo giustizialista e il rifiuto di ogni compromesso considerato di per sé come l’anticamera della degenerazione.
Le forze antipolitiche ed antisistema possono nascere indifferentemente sia a destra che a sinistra dello schieramento politico ma è soprattutto a destra che riescono ad assumere dimensioni di massa.
Non è un fatto nuovo, anzi. Il linguaggio ed i contenuti politici del fascismo, ad esempio, nacquero e si svilupparono all’interno dell’ala più massimalista, radicale e movimentista del socialismo italiano (Mussolini stesso), del sindacalismo rivoluzionario (Michele Bianchi), del repubblicanesimo-garibaldino (al quale aderì un giovanissimo Italo Balbo) ed in generale nell’humus politico-culturale di quel complesso fronte che agli inizi del ‘900 si definiva anti-borghese e anti-giolittiano (oggi diremmo anti-casta) che si ritroverà in forme diverse nel cosiddetto “interventismo” al momento dello scoppio della Grande Guerra. Lo stesso termine “fascismo”, del resto, non aveva, agli inizi, connotazioni di destra ma in qualche modo era legato alla tradizione associativa del movimento socialista.
Ovviamente è del tutto evidente che il Movimento 5 Stelle è cosa assai diversa del fascismo delle origini e ancora oggi è difficile collocarlo precisamente all’interno delle tradizionali famiglie politiche.
Ma è altrettanto evidente che, con la crisi del populismo di massa incarnato in questi anni da Berlusconi e dal suo alleato leghista gli spazi politici si aprono soprattutto a destra.
L’ultima campagna elettorale di Grillo e Casaleggio, al netto del richiamo ad un Berlinguer completamente depoliticizzato ed assunto ad icona di un moralismo giustizialista e rancoroso, ha cercato di toccare proprio le corde di quell’elettorato che nella polemica anti-casta ha ormai messo anche e per intero le istituzioni democratiche.
Un elettorato che in tutto il mondo, ed anche in Italia, ha sempre votato per le forze conservatrici, populiste e reazionarie.
E’ in quell’area politica che, inevitabilmente, è destinato a finire il grillismo, con buona pace dei Dario Fo di turno.
La vittoria del PD e lo starnazzare inutile e vacuo
Durante questa campagna elettorale ho subito, insieme a tanti altri militanti, un vero e proprio assalto sui social ma anche per strada, nei bar, nei luoghi dove si svolge la discussione politica, da parte della nuova specie politica comunemente denominata “grillina”.
La promessa di pubblici processi, la divisione manichea tra puri e impuri non è stata soltanto la cifra della campagna elettorale dei leader Grillo e Casaleggio ma ha scatenato una “militanza” forcaiola, rancorosa e trasversale alle classi sociali di migliaia di persone, la cui aggressività (per fortuna prevalentemente solo verbale) si percepiva dappertutto.
Qualcosa che ha assunto spesso tratti “fascisti” e squadristici”, non trovo altri aggettivi per definirli.
La cosa bella è che se lo dicevi in campagna elettorale, denunciavi i tratti illiberali e reazionari di tutto ciò, ne sottolineavi l’evidente carattere antidemocratico e a tratti eversivo potevi star certo che subito subivi un altro assalto, quello della schiera dei rosicatori e benaltristi, specie assai diffusa a sinistra, che ti criticava e derideva per lo sforzo militante di andare a chiedere il voto, di andare ai comizi, di difendere quella comunità che per me e per fortuna tantissimi altri rimane il partito, il mio partito, il nostro partito.
Per costoro avevano sempre ragione coloro che protestano e ti mandano a “fare in c…” , che bisognava capire e interrogarsi, che gli 80 euro sono pochi e non servono, che l’aver abbassato il tetto degli stipendi dei manager è stata solo propaganda come le auto blu e che magari Renzi sarà anche bravo ma il problema è il suo partito che è vecchio, appesantito da correnti e “impresentabili”, bla, bla, bla.
Poi i risultati a valanga, ma invece di tacere gli stessi soggetti oggi ti criticano dicendo: come mai voi che Renzi non lo avete votato ora siete tutti con Renzi, siete opportunisti, senza contare le riflessioni “archeologiche” sulla rinascita della DC, una stupidaggine tanto grossa quanto fuori dalla storia, come se prendere i voti di chi non ti ha mai votato non sia lo scopo fondamentale di un partito ma un peccato mortale, la perdita della purezza delle origini.
Io dico sommessamente che il voto di domenica è stato merito senz’altro di Matteo Renzi, della forza della sua leadership, del suo coraggio nel mettersi in gioco, dell’energia con la quale ha affrontato questi due mesi di governo e per i provvedimenti assunti, della bella campagna elettorale che ha riportato la nostra gente nelle piazze.
Ma è stata anche merito di tutti noi che in quelle piazze ci siamo andati come lui, in quanto segretario del nostro partito (e quindi, sottolineo, di tutti) ci ha chiesto, abbiamo portato i fac simile, abbiamo parlato con le persone, una per una, motivandole ad andare a votare per dare forza al vero messaggio di questa campagna elettorale: la speranza contro la rabbia.
Tutti, quelli che a Renzi lo avevano votato e quelli che invece avevano votato Cuperlo, insieme, come fa appunto un partito.
Come la sconfitta sarebbe stata di tutto il PD oggi la vittoria appartiene a tutti coloro che si sono impegnati per vincere.
Per fortuna il popolo, quello vero e che soffre davvero, non quello dei talk show o dei social network, ci ha dato fiducia, ha voluto scommettere su questa speranza.
A tutti noi, non solo a Renzi, tocca ora essere all’altezza di quella speranza, di quella fiducia. Solo questo conta. Tutto il resto è solo starnazzare inutile e vacuo.
La sconfitta di Grillo
Si dovevano mangiare il mondo…avevano promesso pubblici processi per i nemici del popolo, con loro sarebbe arrivata la palingenesi, la purificazione, loro unici puri e gli altri tutti pattume indifferenziato, per mesi hanno insultato sul web, per strada, nelle e contro le istituzioni. Ora tacciono e dicono che parlano domani. Qualcun altro di fronte al 41 per cento parla di nuova DC e si arrampica sugli specchi di politicismi sconclusionati come tal livido Travaglio o certi radical chic con il porche parcheggiato sotto casa. Noi diciamo loro di non preoccuparsi, il nostro impegno per salvare l’Italia vale per tutti, anche per loro. Domani è un altro giorno.