Politica
Quando c’era Berlinguer…
Dico subito che il film merita di essere visto.
Poi si può discutere sulle interpretazioni da dare sulla ricostruzione che Veltroni fa di alcuni momenti storici della vicenda politica del PCI e del suo leader Enrico Berlinguer. Io, per esempio, ho molte perplessità soprattutto nella ricostruzione del rapporto col PSI di Craxi, sulla scelta di intervistare l’ex leader delle Brigate Rosse Franceschini e di non intervistare anche altri protagonisti di quella stagione come ad esempio Achille Occhetto o Massimo D’Alema che fu Segretario nazionale dei giovani comunisti del PCI berlingueriano.
Diciamo pure che dal punto di vista storiografico il film non mi ha convinto molto. Una riflessione critica e storicamente fondata sul segretario del PCI e su quella stagione credo non sia stata ancora compiuta.
Confesso però che alcune testimonianze ed alcune immagini mi hanno commosso profondamente.
Quella di Giorgio Napolitano, ad esempio, che richiama l’esperienza di Berlinguer e alla fine si commuove quando rievoca quella “comunità” nella quale vissero l’impegno politico. O una lettera inedita nella quale Berlinguer spiegava come l’apoliticità non fosse altro che una forma più o meno esplicita di fascismo alla quale si deve contrapporre la politica che altro non è che l’attività umana più alta e nobile.
Nel sentire poi l’intervista dell’operaio veneto che assistette agli ultimi istanti di vita di Berlinguer nel suo comizio a Padova, non ho potuto fare a meno di pensare come quel bello e musicale dialetto che raccontava di grandi emozioni collettive e nazionali, oggi è usato come paravento ideologico di razzismi da bar dello sport che sproloquiano su secessioni da imporre dalla torretta di un trattore taroccato da carro armato. Un altro segno di come sia cambiato in questi ultimi trent’anni questo nostro Paese.
Tuttavia una speranza mi è rimasta accesa: ho visto il film insieme ad un amico con i nostri figli nati decenni dopo la morte di Berlinguer.
Proprio sulla politica, su quelle piazze stracolme di popolo e bandiere rosse, sulla nostra commozione ci hanno fatto più domande alle quali siamo stati felici di rispondere. Segno che un futuro, forse, è ancora possibile.
Renzi al governo ? E dov’è la sorpresa ?
Come tutto lascia supporre Matteo Renzi riceverà fra poche ore l’incarico per formare il nuovo Governo. Già dalla prossima settimana, credo, riceverà la fiducia e potrà cominciare ad operare.
Considero l’esito di questa vicenda, cominciata dopo la non vittoria nelle recenti elezioni del centrosinistra, tutt’altro che una sorpresa.
Pertanto mi fanno ridere certe stupidaggini ideologiche sul non mandato popolare. Noi siamo una repubblica parlamentare e il premier lo indica, dopo consultazioni formali, il Presidente della Repubblica. E se proprio vogliamo essere onesti se Renzi ha avuto una legittimazione dalle primarie, l’ha avuta più come leader di governo che di partito.
Quanto a tutte le balle che si leggono e si dicono sul premier non eletto e sulle congiure di palazzo, poiché le ho sempre considerate una gran cazzata quando hanno riguardato altri leader (leggi D’Alema) le considero stupidaggini anche adesso.
La politica è matematica applicata e gli errori di valutazione si pagano sempre. Sbagliò valutazione, all’epoca, Prodi, ha sbagliato ora Letta.
L’insofferenza verso un Governo che pure si era fatto carico di affrontare un momento difficile ma che si era impantanato nelle difficoltà politiche che sono sotto gli occhi di tutti sono evidenti ed è inutile tornarci. Renzi riuscirà a superare queste difficoltà e guidare il Paese fuori dalla crisi politica, economica ed istituzionale che stiamo vivendo ? Questa è la vera domanda che dobbiamo porci ed è la domanda che si pongono gli italiani. Il resto è gossip da lasciare a dietrologi e a sfaccendati.
La mia paura è che, se Renzi dovesse fallire, raccoglieremmo solo macerie. Per questo motivo, soprattutto, non l’ho votato nel congresso e continuano a non piacermi atteggiamenti e comportamenti.
Ma il PD, nonostante tutto, è ancora un soggetto collettivo con una sua vita democratica. E’ l’unico partito vero rimasto in piedi.
Ieri al giovanotto di Firenze abbiamo consegnato tutta la leadership. A lui saperla usare bene e per il bene del Paese. A noi vigilare e mantenere in piedi un partito che possa, nella peggiore delle ipotesi, sopravvivere all’eventuale fallimento del suo leader.
GRAZIE AD ENZA BRUNO BOSSIO PER LA SUA POSIZIONE SULL’ITALICUM
Sono troppo amico di Enza perché queste mie parole non sembrino condizionate da affetto e vicinanza. E tuttavia mi sentirei omissivo se oggi non la ringraziassi pubblicamente per la posizione da lei assunta in merito alla riforma della legge elettorale.
L’Italicum è pessimo e presenta gli stessi difetti del porcellum.
Se non verrà corretto in alcuni dei suoi punti più controversi (premio di maggioranza, soglie di accesso e liste bloccate) resta esposto a seri rischi di incostituzionalità. Renzi fa bene ad accelerare ma la democrazia è cosa troppo seria per gestirla con fretta e superficialità. Pesa poi l’ipoteca berlusconiana su tutto l’impianto che sacrifica la rappresentatività al populismo. Queste cose le sanno tutti, dentro e fuori il parlamento. Enza ha avuto il coraggio di essere coerente con quello che dice, anche al di là di schieramenti interni ed esterni. Al suo posto, io militante storico educato nei partiti-chiesa, non so se avrei avuto il suo stesso coraggio. Per questo la ringrazio.
La verità sulla demonizzazione delle preferenze
L’autore di Indignatevi !, Stéphane Hessel, poco prima di morire l’anno scorso scriveva che “l’attuale sistema dei partiti è in crisi, in Spagna come in altri Paesi. la gente non si fida dei partiti minati dagli scandali, dalla corruzione, e diretti da pesanti apparati che si preoccupano più della propria sopravvivenza politica e della spartizione di quote di potere che non di cambiare davvero le cose. Il sistema elettorale, soffocato in Spagna dal meccanismo delle liste chiuse e bloccate, impedisce il rinnovamento necessario“.
Questo passo, tratto dalla sua ultima opera Non arrendetevi ! e che rappresenta un vero e proprio appello al rinnovamento della democrazia e il tentativo di dare una risposta alla crisi della politica e delle istituzioni in Europa (crisi che in Spagna è stata interpretata dal movimento degli indignados che proprio negli scritti di Hessel aveva cercato una base teorica), mi è tornato in mente in questi giorni in cui si discute di legge elettorale in Italia e soprattutto di preferenze si o no.
Il grande provincialismo della politica italiana, dopo l’obbrobrio del porcellum, non è riuscito a far altro che proporre l’imitazione di un sistema elettorale che, dove è applicato, la Spagna, è sottoposto a forte critica e contestazione e addirittura additato come responsabile primo della crisi politico-istituzionale. Insomma, rischiamo di prenderci un vestito che altrove non vedono l’ora di togliersi di dosso.
Il fantasma delle liste bloccate è tornato dunque ad aleggiare nel dibattito politico. Per giustificare ciò si sta riproponendo tutto il vecchio armamentario ideologico contro le preferenze, il sistema con il quale, tradizionalmente, in Italia gli elettori hanno sempre scelto i propri rappresentanti in presenza di liste plurinominali.
Le accuse più frequenti sono: 1) le preferenze esistono solo in Italia, 2) sono generatrici di corruzione perché comportano eccessive spese elettorali, 3) comportano una eccessiva personalizzazione della politica. Ma è tutto vero ? Proviamo a rispondere.
1) Le preferenze esistono solo in Italia. Mica vero. Proprio in Spagna la parte elettiva del Senato spagnolo è eletto con il meccanismo del voto limitato, vale a dire se i candidati in un collegio sono 4 se ne possono votare solo 3, se sono 3 solo due e così via. Meccanismi analoghi sono previsti per la selezione di candidati in liste plurinominali in altri sistemi elettorali (alcuni prevedono anche il voto di candidati di liste diverse) fino al sistema elettorale usato, per esempio, in Australia dove gli elettori sulla scheda trovano una lista di candidati con a fianco degli spazi sui quali scrivono con numeri l’ordine con il quale desiderano siano eletti i deputati di quella circoscrizione. Insomma, delle preferenze.
2) Le preferenze sono generatrici di corruzione perché comportano eccessive spese elettorali. Premesso che a commettere i reati sono le persone e non le leggi, tali difetti possono essere facilmente risolti con l’applicazione più stringente delle norme sui tetti di spesa consentiti e limitando l’ampiezza delle circoscrizioni elettorali. D’altro canto non mi pare che, con le liste bloccate, si sia contribuito poi in maniera così incisiva alla moralizzazione delle istituzioni parlamentari dal momento che persone accusate di essere corrotte o addirittura colluse con organizzazioni criminali hanno continuato ad farvi il loro ingresso e forse in maniera anche più semplice. I Batman, dunque, non sono figli delle preferenze ma della cattiva politica, che trova sempre il modo di farsi eleggere a prescindere dal sistema elettorale vigente.
3) Comportano una eccessiva personalizzazione della politica. Una critica francamente incomprensibile in tempi in cui la personalizzazione della politica è diventata regola e non eccezione, soprattutto in una fase storica in cui i partiti hanno perso il ruolo di organizzatori di interessi collettivi in nome di grandi valori ideali. Anche qui, dunque, fermare la propria attenzione ai soli meccanismi elettorali (senza contare che ce ne sono altri ancora più basati sulla personalizzazione, pensiamo ai collegi uninominali) significa scambiare l’effetto con la causa.
Sulla base di queste considerazioni e premesso che nessun sistema è esente da difetti, mi pare evidente che molte di queste critiche, in realtà, sono strumentali alla difesa del meccanismo delle liste bloccate che, a sua volta, è funzionale alla garanzia di ristrette nomenclature.
Insistere nel voler mantenere le liste bloccate, dunque, non solo significa andare contro la volontà della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica italiana (oltre il 65% non le vuole più e chiede o i collegi uninominali o le preferenze secondo un recente sondaggio Ipsos) ma anche ostinarsi a non comprendere che gran parte della contestazione che oggi investe la politica è il frutto del vero e proprio rifiuto e rigetto nei confronti di un parlamento fatto da “nominati”.
In Italia, del resto, solo in due momenti storici si è fatto ricorso a liste bloccate e gli italiani non hanno potuto scegliere i propri rappresentanti: durante il fascismo (che poi il parlamento finì per abolirlo del tutto) e con il porcellum che, statene certi, se non fosse stato”cassato” dalla Consulta, starebbe ancora tutto in piedi e in mano dei ristrettissimi gruppi dirigenti di partiti sempre più chiusi e autoreferenziali.
PS. Ultima questione di cui si parla: le primarie. Si dice che per far scegliere i cittadini siano sufficienti le primarie. Benissimo, come essere contrari ? A condizione, però che siano imposte per legge a tutti i partiti. Le leggi sono sempre erga omnes. In Germania, ad esempio, dove esistono le liste bloccate, i candidati sono selezionati dai partiti con una sorta di “primaria” che si svolge alla presenza di funzionari dello Stato. Può essere una strada, che deve però partire dal presupposto che i partiti italiani, come in gran parte d’Europa e del mondo democratico siano “costituzionalizzati” fino in fondo e sottoposti ad una legge che ne regoli, almeno in grandi linee, anche la vita interna e gli obblighi nei confronti dei propri aderenti. Si può fare ? Certamente, anche se resta da capire perché darsi tanta pena (ed aumentare anche i costi a carico dello Stato) per organizzare due momenti elettorali per dare al cittadino un possibilità di scelta dei candidati per garantire la quale è sufficiente consentire l’espressione di preferenze sulla scheda.
Corsi e ricorsi della legge elettorale
Renzi ha avanzato una proposta di legge elettorale presentandola come una grande novità per il nostro Paese.
La verità è che questo paese non ha memoria storica.
Nel 1882 la Sinistra Storica varò una legge elettorale maggioritaria a doppio turno molto simile a quella proposta da Renzi oggi basata su collegi plurinominali che assegnavano da un massimo di 5 seggi ad un minimo di due.
Solo che quella legge prevedeva la preferenza, perché l’elettorale aveva diritto a votare per i singoli candidati di una lista fino ad un massimo di 4 nei collegi con 5 candidati per tutelare la rappresentanza delle minoranze.
A nessuno veniva in mente di limitare il diritto degli elettori a scegliere i propri rappresentanti. Stiamo parlando di una legge dell’800. Meno male che oggi siamo progressisti.
Il veleno dei populismo e le liste bloccate
Il problema non è affermare una repulsa moralistica dell’incontro con Silvio Berlusconi.
I pistolotti moralistici li lascio tutti ai giustizialisti di professione che, a dire il vero, oggi vedo assai disponibili a concedere a Renzi ciò che non hanno concesso ad altri esponenti del centrosinistra negli anni passati.
Né c’è da scandalizzarsi che l’incontro si tenga nella sede del partito, salvo rilevare che questa va bene come set di una fiction mediatica mentre non va bene per tenervi le riunioni degli organismi.
In una democrazia normale è naturale che i leader di grandi partiti contrapposti si incontrino per definire le regole della contesa e lo facciano nelle sedi dei partiti.
Il problema è che questo incontro avvenga, nei fatti, sulla base di una visione sostanzialmente comune, quella cioè di una leadership che pretende di esaurire in sé la stessa funzione delle istituzioni della democrazia parlamentare.
Al di là dei modelli elettorali che, com’è noto, sono solo un primo passo per la soluzione di problemi ben più profondi del sistema politico italiano, Berlusconi e Renzi condividono una concezione populista che si illude di poter ridurre la politica al semplice esercizio della mission of leadership.
Per questi motivi la base vera del loro accordo è costituita dalle liste bloccate nell’illusione (Berlusconi lo sa bene perché ci è passato, ma a quanto pare non ha imparato) che “nominare” i parlamentari eviti a loro il “fastidio” di fare i conti con rappresentanze e territori e li metta al riparo da ribaltoni e trasformismi. La storia di questi anni, com’è noto, dimostra esattamente il contrario. Ed è un pezzo fondamentale della crisi politica italiana.
Dare una risposta seria, coerente e di prospettiva a questa crisi è un obiettivo ben più importante del destino di Letta, di Berlusconi, di Renzi o di Alfano. Invece a prevalere sono solo gli effetti venefici del populismo.
Dare questo tipo di risposte dovrebbe essere il primo assillo dei responsabili di grandi partiti che guardano innanzitutto all’interesse generale del paese prima che a quelli di parte o personali. Da Berlusconi non ci si può attendere certamente tutto questo. Dal segretario del primo partito del centrosinistra e dello stesso paese, si.
I veri statisti, il parlamento e la legge elettorale
I grandi statisti italiani sono stati davvero pochi, a contarli non riempiono le dita di una mano: Cavour, Giolitti, De Gasperi. Parlo solo, per comodità, di quelli che hanno avuto funzioni di governo, perché si può essere uomini di stato anche se costretti a ruoli di opposizione.
Questi uomini, pur nella diversità personali e di contesto storico in cui operarono, avevano però una caratteristica comune: tutti e tre erano straordinari parlamentari che mettevano proprio il parlamento al centro della loro azione politica.
Ora, per definizione, il parlamento è il luogo dove si esprime la rappresentanza attraverso eletti che sono espressione di pezzi di società e di territori diversi e, di conseguenza, portatori di interessi vari e spesso configgenti tra loro.
La forza di quei leader fu proprio essere riusciti a dirigere ed a dare un senso unitario a quelle spinte diverse e farle diventare una politica in momenti assai difficili della nostra storia. Esattamente lo stesso che seppero fare i loro omologhi in tutto il mondo democratico. Al contrario coloro che, anche in Italia, basarono le loro fortune (sempre temporanee e con effetti disastrosi per sé e per il loro paese) solo sulla propria leadership, hanno sempre avuto in odio il parlamento definendolo di volta in volta o come inutile orpello e/o come il simbolo stesso di tutti i mali possibili.
La politica di oggi, in Italia, continua ad essere caratterizzata da questa seconda concezione: leaderhip assoluta, inizio e fine di sé stessa. Non è un caso, dunque, che l’accordo sulla legge elettorale Renzi e Berlusconi lo stiano trovando sull’unico vero punto condiviso, le liste bloccate.
Giuseppe De Rita su “Il Mattino” di oggi dice che “la paura di fare un flop induce i partiti ad affidarsi al carisma di uno solo. Ed è inevitabile che il leader cerchi di mantenere il controllo sui suoi eletti, perché correrebbe il rischio in Parlamento di non avere soldati in grado di seguirlo”.
E’ questo e solo questo il motivo della resistenza nei confronti delle preferenze (ma anche dei collegi a questo punto), a cominciare dai due leader sopracitati (con la sottolineatura che almeno Berlusconi lo dice senza ipocrisia). Le preferenze, infatti, rappresentano l’unico modo, in presenza di liste di candidati, lunghe o corte che siano, per dare agli elettori la facoltà di scegliere direttamente i propri rappresentanti. Allo stesso modo non si vogliono i collegi uninominali per evitare di essere “tediati” da qualche centinaio di “sindacalisti del territorio” come, spesso inevitabilmente, diventano i parlamentari eletti in questo modo.
Per dire no alle preferenze poi, si usano argomenti lombrosiani, come se fossero queste la causa di tanti fenomeni degenerativi. La storia recente dimostra, invece, che non solo le liste bloccate del “porcellum” non hanno posto fine a tali fenomeni ma in alcuni casi li hanno addirittura favoriti.
Ma è mai possibile che nessuno sappia guardare alla storia recente di legislature in cui il tasso di migrazione politica o di trasformismo è aumentato rendendo instabili governi con maggioranze enormi come ha dovuto sperimentare lo stesso Berlusconi ? O forse che le liste bloccate hanno impedito l’ingresso in parlamento di persone che eufemisticamente non possono certamente definirsi degli stinchi di santo ?
Non si meni, dunque, il can per l’aia: le liste bloccate sono funzionali ad una concezione populistica che riduce tutto alla funzione salvifica della leadership. Ma la leadership da sola non sempre è sufficiente a dare risposte a problemi che sono tutti politici. Al massimo, quando va bene, fa vincere le elezioni. Ma per diventare statisti la strada è molto più lunga e difficile.
Sulla legge elettorale evitiamo furbizie riproponendo le liste bloccate
La sentenza della Corte Costituzionale è chiara. Sono incostituzionali sia il premio di maggioranza che distorce il principio democratico per il quale è possibile trasformare “una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea” , sia le liste bloccate che impediscono all’elettore di scegliere il proprio rappresentante.
“Non c’è”, infatti, (cito ancora testualmente la sentenza) “un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale, in quanto quest’ultima lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema che ritenga più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico. Il sistema elettorale, tuttavia, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole”.
Stando così le cose la Corte non poteva che limitarsi a cassare le parti della legge palesemente incostituzionali perché altrimenti si sarebbe appropriata di prerogative legislative che non le competono. Le leggi le fa il parlamento, che ne ha, come è stato ribadito ancora una volta dalla stessa Corte, la piena legittimità e, anzi, il dovere.
In questo contesto va anche lettala questione relativa alle liste bloccate perché con il “porcellum” veniva a verificarsi “la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione” mancasse “il sostegno della indicazione personale dei cittadini che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione. Simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)”.
In questa parte molti commentatori hanno voluto leggere un via libera a modelli elettorali di altri paesi, quello spagnolo e tedesco per intenderci, dove le liste bloccate esistono pur essendo molto corte (Spagna) e riferite a circoscrizioni assai piccole o limitate ad una parte degli eleggibili (Germania) essendo gli altri deputati eletti in collegi uninominali. In entrambi i casi i nomi dei candidati sono riportati sulla scheda.
Insomma, la tentazione che si possano riproporre, in forme più “potabili” le liste bloccate, cioè liste più corte ma pur sempre di nominati per essere espliciti, è assai forte. Ed è qui, che a mio parere i cittadini devono vigilare.
Perché se è vero che in Spagna e in Germania esistono liste bloccate è anche vero che in quei Paesi è cresciuta in questi anni l’insofferenza contro quelle leggi elettorali che non consentono il voto diretto al parlamentare da parte dell’elettore.
Non si comprende perché, dunque, dovremmo imitare sistemi elettorali che in quegli stessi paesi sono sottoposti a forti critiche e richieste di revisione. Senza contare che si trascura di dire che già nel sistema spagnolo, per quanto riguarda la parte elettiva del Senato (l’altra parte è delegata delle autonomie locali) sono previste le preferenze. I senatori spagnoli, infatti, sono eletti con il meccanismo del voto limitato, vale a dire che gli elettori, se gli eleggibili in una circoscrizione sono, ad esempio, 4 ne possono votare fino ad un massimo di tre.
Riproporre nella nuova legge elettorale le liste bloccate sarebbe dunque un errore che non farebbe che alimentare la contestazione antipolitica, perché farebbe rientrare dalla finestra ciò che si è cercato di cacciare via dalla porta, vale a dire un parlamento di “nominati”.
Ecco perché la nuova legge elettorale, anche (e io dico soprattutto) su questo punto non può permettersi furbizie che non farebbero che alimentare l’insofferenza dei cittadini.
Le uniche due forme nelle quali l’elettore può scegliere direttamente il proprio rappresentante sono la preferenza e il collegio uninominale. Personalmente preferisco la prima, soprattutto la doppia preferenza di genere che consente alle donne di poter concorrere alla pari degli uomini alla possibilità di essere elette. Ma le forme per garantire questo diritto di scelta degli elettori possono essere diverse, anche guardando all’Europa con occhi meno strabici di quanto spesso si fa (la non citazione del metodo di elezione del Senato spagnolo è, a mio parere, emblematica).
Le forze politiche in parlamento ne scelgano uno, ma decidano, perché fare una buona legge elettorale rappresenta un passo fondamentale anche se non sufficiente per dare finalmente un nuovo assetto alla democrazia italiana.
MACALUSO: LA QUESTIONE MORALE DI BERLINGUER NON ERA GIUSTIZIALISMO
Ho finito di leggere l’ultimo libro di Emanuele Macaluso Comunisti e riformisti. Togliatti e la via italiana al socialismo (Milano, Feltrinelli, 2013). E’ un libro intenso e profondo che affronta con lucidità alcuni dei nodi più stringenti dell’evoluzione storica della sinistra italiana e riflette sulle radici dei tanti problemi che essa vive ancora oggi.
In questa sede voglio solo offrire un passo tra i tanti che mi hanno colpito e che condivido. Macaluso parla, infatti della questione morale posta da Enrico Berlinguer e rileva come la lettura che ne è stata data, soprattutto a posteriori, risulti essere falsata in quanto essa, sia pure gravissima, non può essere posta come il solo discrimine all’interno della società trascurando e oscurando la “questione sociale e tutto il complesso di battaglie che da sempre danno senso a una politica di sinistra” (cfr. p. 120). La questione morale, dunque, “si è purtroppo venuta intrecciando con il giustizialismo. L’effetto è stato quello di offuscare la questione sociale, i tratti distintivi del riformismo socialista e le questioni connesse alla ricomposizione della sinistra. Il ruolo assegnato da tutti i dirigenti del PDS/DS/Ulivo/PD a un politicante come Antonio Di Pietro e al suo partitino personale e clientelare, è stato solo un segnale della deriva del centrosinistra al governo e all’opposizione negli anni in cui non è stato possibile tracciare una strada per rinnovare il sistema ormai usurato della Prima repubblica. E più recentemente, in occasione delle elezioni del febbraio 2013 un altro magistrato, Antonio Ingroia, aveva accantonato (non lasciato) la toga di pubblico ministero e pubblico predicatore, per capeggiare una lista patrocinata anche da Di Pietro e un altro pm, De Magistris, in cui si ritrovano i residuati di guerre perdute, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, Verdi ridotti al verde; con il sostegno di un giornale di successo come Il Fatto Quotidiano che ha sposato la via giudiziaria alla democrazia. L’insuccesso elettorale di Ingroia e soci non deve farci sottovalutare una deriva che non nasce dal nulla, ma dalla corrosione morale della politica aggravatasi negli anni del berlusconismo e dall’incapacità della sinistra di imporre il primato della questione sociale e una battaglia politica nella lotta alla mafia e alla corruzione.
I masanielli in toga sono stati assunti (anche nel PDS/DS/PD) come testimoni della purezza della sinistra; ora si sono messi in proprio e al loro seguito vediamo pezzi del vecchio e del nuovo estremismo parolaio”. (pp.123-124).
Bastoniamo don Abbondio !!!
Ne I promessi sposi un personaggio centrale è certamente il curato don Abbondio, quello che minacciato dai “bravi” di Don Rodrigo, si rifiuta di celebrare le nozze tra Renzo e Lucia e innesca il complesso processo narrativo del romanzo manzoniano.
Don Abbondio è un personaggio comico nel suo crudo realismo: un povero prete di campagna messo di fronte ad avvenimenti più grandi di lui e che reagisce nell’unico modo che conosce, fuggendo dalle proprie responsabilità.
Quelle responsabilità alle quali lo richiama il cardinale Federigo Borromeo e che però trovano il nostro assolutamente incapace di comprendere. Le parole appassionate del cardinale, infatti, non lo smuovono, prova anzi disappunto nel riconoscere nelle argomentazioni dell’alto prelato le stesse che, all’inizio della storia, aveva usato con lui l’umile Perpetua, ha voglia di scappare e pensa tra sé “che sant’uomo, ma che tormento” fino a sbottare nella famosa frase: “Il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare”.
E’ questa frase che lo rende simpatico, quasi che Manzoni, da grande artista ci dica: si dovremmo prenderlo a bastonate a questa bestia, ma in fondo egli non può essere diverso da quello che è, un povero uomo piccolo piccolo, un ignavo di cui al massimo sorridere se non con comprensione almeno con indulgenza
E in verità il prete manzoniano le bastonate se le merita tutte: perché Don Abbondio è il classico debole con i forti e forte con i deboli. Si comprende questo aspetto del suo carattere quando la famosa notte in cui doveva celebrarsi il matrimonio a sorpresa, lo stratagemma con il quale lo strappano dal letto è la restituzione di un prestito, segno che il nostro era uso a prestar denaro ad interesse, un’attività tutt’altro che consona al suo ruolo di “pastore di anime”.
Don Abbondio nel momento cruciale sceglie la strada che gli sembra più semplice e non quella, certamente più difficile che pure Perpetua in tutta la sua umiltà, aveva saputo indicargli. Come tanti, come troppi.
Troppe volte chi dovrebbe prendersi le responsabilità, piccole o grandi che siano, del proprio ruolo, fugge o ne scarica il peso sugli altri senza curarsi che i danni del suo comportamento finiranno per pagarli tutti.
Senza contare che spesso sono proprio questi “don Abbondio” a indossare la veste dei moralisti o, peggio, degli implacabili inquisitori dei mali della “serva Italia, di dolore ostello”, senza riflettere sul fatto che di don Abbondio ce ne stanno in tutte le categorie: imprenditori, professionisti, giornalisti, dirigenti, funzionari, semplici impiegati, insegnanti, politici, operai, ecc., nella gente che semplicemente non fa il proprio dovere.
Perché fare il proprio dovere non significa “fare gli eroi” (nemmeno a Don Abbondio si chiedeva questo) ma semplicemente assumersi le proprie responsabilità.
Ecco perché i tanti don Abbondio dei nostri tempi, quelli che spesso sollevano forche e forconi sempre contro gli altri, dovrebbero interrogarsi su quante bastonate loro stessi hanno già meritato di beccarsi sul groppone.