Politica

Il caso Del Turco deve farci riflettere tutti…

Del Turco

Non voglio aggiungere nulla a quanti, molto più autorevoli di me, hanno espresso forti dubbi sulla condanna subita da Ottaviano Del Turco.

Basti qui ricordare ciò che tanti hanno detto: una condanna senza prove, basata solo sulle dichiarazioni dell’accusatore, con lo stesso Del Turco che prima era stato accusato di aver chiesto soldi all’accusatore e, a fine processo, di essere stato da quello stesso accusatore, corrotto.

Un processo che ha provocato la caduta di un’amministrazione regionale, con l’arresto del suo Presidente tenuto in carcerazione preventiva per 28 lunghi giorni, con una Procura che dichiarava ai quattro venti di avere raccolto sull’ipotesi di reato della concussione (poi mutata a fine processo, in corruzione) prove “schiaccianti”.

Si aggiunga che l’accusatore, un imprenditore della sanità privata abruzzese, ha collezionato negli anni successivi, una serie di imputazioni che ne hanno minato sensibilmente la credibilità.

Chi ha seguito il processo ha visto questa montagna di prove sciogliersi come neve al sole, la cosiddetta prova regina, quella della foto del famoso cesto di mele pieno di soldi, si è dimostrata un clamoroso e maldestro falso e soprattutto non è stata trovata nessuna traccia dei soldi delle presunte tangenti milionarie che sarebbero state pagate a Del Turco.

In qualunque paese del mondo dove vige il principio elementare che per condannare una persona debbano esistere prove e riscontri che vadano “al di là di ogni ragionevole dubbio”, Del Turco avrebbe dovuto essere assolto con tante scuse e con formula piena.

Eppure Del Turco è stato condannato, anche se continuo a confidare nei prossimi gradi di giudizio.

Tuttavia è questa condanna, sia pure in primo grado, che costituisce di per sé un punto nodale sul quale occorre che tutti riflettano e fino in fondo.

Non è un problema che riguarda la diatriba tra giustizialisti e garantisti, è qualcosa di più profondo e, se vogliamo, più drammatico.

Qualcosa che prescinde la persona di Del Turco il quale ha almeno buoni avvocati con i quali difendersi anche nei prossimi gradi di giudizio, e la consolazione di avere attorno a sé un certo numero di persone che lo stimano, lo difendono e gli esprimono solidarietà anche pubblicamente.

Il caso Del Turco ci dice che in Italia è, troppo spesso sufficiente che qualcuno vada in Procura, elevi delle accuse contro un altro, non importa se vere o false, fantasiose o concrete, perché queste accuse diventino di per sé elementi di prova.

Da qui l’innesco di un meccanismo che porta prima all’emissione di misure cautelari con un gip che dà il suo assenso ad una richiesta di arresto preventivo pur in assenza palese delle circostanze che lo motivano, poi un gup che dà il via ad un processo nonostante la mancanza di riscontri oggettivi e, infine, un collegio giudicante che, nonostante il dibattimento che è, come mi insegnano i giuristi, il cuore del processo, dimostri l’assoluta infondatezza dell’impianto accusatorio, fa proprie fino in fondo le tesi dell’accusa che si basano solo su quanto dichiarato da quel singolo accusatore.

Casi simili si verificano, purtroppo, sempre più spesso, e riguardano tantissime persone, meno note di Del Turco, che vengono risucchiate in un vortice da cui spesso non riescono ad uscire.

Nessuna persona, dotata di un minimo senso di umanità, può accettare che una sola di queste aberrazioni possa continuare o ripetersi.

In uno Stato di diritto solo i colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio possono essere condannati, se quel ragionevole dubbio persiste, dicono autorevoli giuristi, per il sistema è molto meglio un colpevole impunito che un innocente punito ingiustamente.

Qui è il nodo che, purtroppo, dal caso Tortora, quindi molto prima dell’era del garantismo peloso di Berlusconi, è rimasto insoluto nella giustizia italiana.

Negare che non è utile alla giustizia che lo stesso magistrato svolga nel corso della sua carriera funzioni completamente diverse, inquirenti e giudicanti, spesso senza soluzioni di continuità e nelle stesse sedi per molti anni, è una grande ipocrisia.

Ciò deve portare alla separazione delle carriere ? In altri paesi separate lo sono e non fa scandalo, ma se non si vuole pervenire a questa soluzione sulla quale è in corso una discussione che, come spesso accade in Italia, si ammanta di ideologia, almeno si fissino regole precise sulla separazione delle funzioni.

Si affronti, infine, anche qui senza ideologia, il tema del superamento di certo spirito corporativo della magistratura pervenendo, in qualche modo, al principio della responsabilità civile del magistrati laddove sussistano elementi incontrovertibili “di dolo e colpa grave” nell’errore giudiziario.

Quello della responsabilità, infatti, è un tema decisivo, fondamentale in uno Stato di diritto.

In quale società può esistere una categoria che praticamente non è assolutamente perseguibile per gli errori che commette nell’esercizio delle sue funzioni ?

Perché ciò che vale per impiegati, funzionari, dirigenti della PA, membri delle forze armate e degli apparati di sicurezza, medici, primari, infermieri, politici e amministratori ecc. non deve valere per chi amministra quotidianamente la giustizia ?

Sono domande semplici che meriterebbero risposte semplici.

Ma in questo nostro straordinario Paese le cose semplici sono, quasi sempre, le più difficili da fare.

 

Egitto, la via stretta e lunga per la democrazia tra autoritarismo e integralismo islamico…

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Diciamoci la verità, ciò che è successo in Egitto non è certamente un fatto normale per una democrazia normale. Un Presidente regolarmente eletto è stato deposto e messo agli arresti dalle forze armate che hanno sospeso la Costituzione e nominato un governo provvisorio in seguito ad una serie di manifestazioni di massa nei centri più importanti di quel paese.

Questa semplice cronaca dei fatti ci dà la misura di come il rapporto tra democrazia e cittadini nel mondo arabo (e islamico in generale) resti un problema in gran parte aperto.

Questo quadro ci viene confermato anche dalla vicenda della Turchia, paese islamico ma non arabo, dove il governo del Presidente Erdogan non riesce a fronteggiare una forte protesta di piazza cheda mesi ne contesta la politica giudicata, in generale, troppo filoislamica e in contrasto con la tradizione laica del Paese fondato da Ataturk.

Entrambe le proteste, pur se sviluppatesi in contesti economici e sociali ben diversi, pongono al centro la questione della modernizzazione dei propri paesi e l’insofferenza per una politica che, in forme differenti, cerca di utilizzare come instrumentum regni la questione religiosa.

Non deve quindi sorprendere che le folle delle piazze egiziane oggi inneggino alle forze armate, le stesse che avevano sostenuto per lunghi anni Mubarak (dai tempi di Nasser in Egitto i governanti vengono dai ranghi dell’esercito) deponendolo sempre in seguito alle pressioni della piazza quando questi era diventato indifendibile e favorendo lo svolgimento di elezioni che avevano dato la maggioranza ad un esponente di uno dei più antichi partiti egiziani, quello dei Fratelli Musulmani (fondato nel 1928), una formazione islamico-integralista con ramificazioni in tutto il mondo arabo.

I Fratelli Musulmani erano stati costretti alla clandestinità da Nasser e una delle sue correnti più estremiste fu risucchiata in pratiche terroristiche, arrivando persino ad assassinare nel 1981 il Presidente Sadat. Durante il governo Mubarak ne fu consentita la vita legale e la partecipazione alle elezioni (assai poco democratiche, in verità) in coalizioni con altre forze dell’opposizione ufficiale al regime.

La fine del regime di Mubarak insieme a quello di altri paesi del mondo arabo, passando per la sanguinosa guerra civile ancora in corso in Siria, hanno messo in evidenza il nodo gordiano della situazione politica e sociale della sponda sud del Mediterraneo.

Da una parte c’è una società civile, soprattutto giovani, che sono insofferenti sia ai vecchi regimi autoritari e corrotti che pure avevano garantito nel bene e nel male la modernizzazione di quei paesi, sia nei confronti di quelle forze politiche espressione del tradizionale fondamentalismo islamico che pure continua (è bene non dimenticarlo) ad avere caratteri di massa in quelle società.

In Egitto questi giovani oggi applaudono alle forze armate che, forse con un certo opportunismo, hanno inteso sostenere le loro rivendicazioni.

I giovani di quell’area sembrano aver compreso la direzione giusta ma devono fare i conti sia con un vecchio mondo autoritario e corrotto che cerca di riciclarsi sotto altre forme, sia con gli estremismi integralisti che usano la religione islamica come strumento di lotta politica e per l’affermazione di nuove forme di dominio e sopraffazione.

La strada per la democrazia è dunque ancora lunga e stretta e tuttavia non si può fare a meno di auspicare che venga percorsa fino in fondo.

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Cinquecento anni da Il Principe di Machiavelli e scoprire che da esso poco si è imparato finora…

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Tra il luglio e il novembre del 1513 Niccolò Machavelli, diplomatico repubblicano ormai estromesso dalla vita politica di Firenze dal ritorno dei Medici, scrisse Il Principe.

Quello che sarebbe diventata l’opera fondamentale della politica moderna fu scritto di getto da un uomo politicamente tagliato fuori dalle vicende storiche del suo tempo.

Un’opera di cui spesso si è discusso senza leggerla, soprattutto per stigmatizzarla, per la nota affermazione de “il fine giustifica i mezzi” che, tra l’altro Machiavelli non ha mai pronunciato.

Lo stesso termine “machiavellismo” è diventato sinonimo di opportunismo politico.

Nulla di più distante dal pensiero del Nostro, il quale, se rimprovero può essergli mosso, è solo quello di essere uomo di crudo realismo e di lettore attento del suo tempo.

Machiavelli non ci dice che il fine giustifica i mezzi ma rileva semplicemente che l’agire politico non può essere subordinato ad un sistema di valori esterno alla politica stessa che si presenta nient’altro che come una scienza umana retta, appunto, da iuxta propria principia, come diceva il suo contemporaneo Bernardino Telesio.

Certo al tempo di Machiavelli la politica si esprimeva attraverso l’agire concreto di re e principi i quali, pur proclamandosi cristianissimi e cattolicissimi, praticavano nell’agire politico ogni nefandezza pur di mantenere il proprio potere ed accrescere la potenza dei propri stati.

Il diplomatico fiorentino, che con quella politica era venuto a contatto guardandola da vicino, si limita a fornire un quadro realistico di essa, individuando modelli di comportamento e interrogandosi sulla natura del potere, sulle azioni che un principe accorto deve intraprendere per mantenere il suo principato, sul modo come comportarsi nei confronti dei sudditi, su come evitare i rovesci della “fortuna”, cioè quella serie di fattori contingenti, diremmo oggi, che spesso condizionano lo sviluppo della politica nella storia.

Al fondo c’è un forte pessimismo sulla natura umana, giudicata di in sé né buona né cattiva anche se il buon governante deve partire dal presupposto che l’uomo spesso è portato più al male che al bene nel suo agire quotidiano.

L’ideale politico di Machiavelli resta però la repubblica, in particolare la repubblica romana, in cui i cittadini sono sottoposti alla legge e dove il governo è della legge non dei singoli. Ma la realtà del suo tempo era ben diversa e drammatica.

In questo Machiavelli non è dissimile da Tommaso Moro che, di fronte alla crudele realtà della politica del suo tempo (che alla fine lo ucciderà) disegna un ideale di stato con la sua Utopia (o come il nostro Campanella con la Città del Sole).

In assenza di un sistema statale in cui la legge prevalga sull’arbitrio anche dello stesso principe (si farà una rivoluzione in Francia due secoli dopo proprio per affermare questo principio) Machiavelli esamina la politica per quella che è e cerca di fare in modo che l’agire dei governanti sia almeno retto da principi di buon senso e dalla necessità di fare il bene dei propri sudditi.

Siamo ancora lontani da Max Weber e dalla sua “etica della responsabilità”, ma il principio moderno per cui la politica non si riduca al solo esercizio e mantenimento del potere ma si ponga come strumento in grado di dirigere le cose umane per soddisfare esigenze collettive mi sembra già enunciato.

In questo senso l’agire politico non può essere sottoposto a nessuna visione ideologica, di qualsiasi segno sia (religiosa, etnica, politica, ecc..) ma seguire regole proprie che trovano la loro ragione nella responsabilità verso il bene comune e collettivo dei cittadini.

Quando la politica comincia a rispondere a dimensioni ideologiche esterne ad essa i danni per la collettività sono sempre terribili e provocano orrori.

Spiace rilevare che la lezione machiavelliana (e di tutti coloro che l’hanno seguito) sia ancora oggi disconosciuta.

Purtroppo assistiamo da una parte allo spettacolo di una politica che, di frequente, persegue solo l’opportunistico mantenimento di un potere fine a se stesso, dall’altra la solita ed ideologica denuncia moralistica che non solo è incapace di compiere un’analisi realistica dei problemi sociali e della maniera con la quale è possibile dare ad essi risposte concrete, ma che spesso non fa altro che spianare la strada a nuovi e più forti opportunismi politico-ideologici non di rado peggiori di quelli contro i quali si era levata.

Una politica che sia in grado di leggere la realtà, interpretarla e governarla senza farsi condizionare da chiacchiere ideologiche e che sia in grado di dirigere davvero le cose umane senza rincorrere le farfalle sotto l’arco di Tito resta, soprattutto in Italia, ancora un’utopia.

Far diventare la Santaché un caso politico mi sembra una gran stupidaggine…

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Chi scrive non ha in alcuna simpatia Daniela Santaché.

Per farvi capire come la penso si potrebbe dire che la Santaché sta a Berlusconi come Goebbels e la moglie Marta stavano ad Hitler.

Tuttavia aver fatto diventare la sua elezione ad una carica, diciamoci la verità, assolutamente secondaria come la vicepresidenza della Camera un fatto politico (alzino la mano quelli che sanno chi sono o addirittura quanti sono i vicepresidenti della Camera),  mi sembra il classico espediente di sparare in alto nel tentativo di colpire altrove.

L’obiettivo è il governo Letta ? Beh, se fosse questo, non capisco perché la crisi dovremmo aprirla sulla Santaché e non magari, ad esempio, su quali ricette proporre per la lotta alla disoccupazione.

Sarebbe più dignitoso e credo proprio che agli italiani interesserebbe di più.

Il buon senso sulla legge elettorale…

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Se fossimo un partito serio avremmo già detto sì nella passata legislatura ad una proposta di riforma della legge elettorale che prevedesse le preferenze, con la significativa correzione della doppia preferenza di genere.

Se fossimo un partito serio avremmo, ad esempio, fatto un minimo di analisi del voto confrontando innanzitutto le regionali con le politiche (si votò nello stesso giorno, ricordate ?) e queste ancora con le amministrative di un mese fa, scoprendo, ad esempio, che laddove si vota con le preferenze il PD prende più voti e forze come quella di Grillo si riducono all’inconsistenza.

D’altro canto voi tutti li votereste in una lista gente come Crimi e Lombardi e almeno l’80% dei candidati grillini messi lì apposta perché anonimi e votati a stare zitti tanto parla sempre il “guru” ?

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O forse Berlusconi avrebbe potuto avere quella rimonta che poi ha avuto, se il carattere populistico della sua proposta politica fosse stato depotenziato sul territorio da una miriade di candidati forti e radicati ?

Ma il voto con le preferenze ha anche un altro vantaggio: rende necessari i partiti che abbiano un minimo di organizzazione sul territorio, un minimo di radicamento, con gruppi dirigenti locali che nelle scelte hanno la possibilità di contare e pesare.

Ciò avviene in tutte le democrazie del mondo.

Il PD e l’Italia hanno bisogno come il pane di una democrazia che si nutra dal basso, in cui le classi dirigenti si misurano nel fuoco delle dinamiche politiche locali e siano poi in grado di ridurle a sintesi nelle istituzioni nazionali. Se invece i gruppi dirigenti sono selezionati dall’alto sulla base della fedeltà a questo o a quel dirigente, quale politica si potrà mai condurre rispetto ad interessi più ampi e anche più alti del Paese ?

Questi obiettivi, intendiamoci, sono raggiungibili anche con i collegi uninominali a condizione che le candidature siano anch’esse selezionate dai territori in un rapporto virtuoso con il centro di direzione politica nazionale, senza trascurare, anche qui, la necessità di costruire meccanismi che garantiscano la rappresentanza di genere rifuggendo dalle stupidaggini delle cosiddette “quote rosa”.

La storia delle candidature dei collegi uninominali del “mattarellum” purtroppo, questa impostazione, per chi non ha memoria corta, troppo spesso non l’ha rispettata.

Ma questo ragionamento di semplice buon senso non alberga in tanti e troppi dirigenti del PD, che con il “porcellum” si sono costruiti le filiere correntizie (e poi ci fanno le lezioni sui “capibastone”, sic !) con l’aggravante che sono correnti costruite senza neppure il consenso popolare.

Un ragionamento che fa il paio con gli interessi autoconservativi di tanti parlamentari senza voti (e spesso senza testa) che il porcellum lo difenderebbero fino alla morte, a prescindere da certe tirate propagandistiche.

Ora incombe la Consulta che dovrà pronunciarsi su una sentenza della Cassazione che ha detto quello che il buon senso ci diceva da tempo: non è democratica una legge che assegna un premio abnorme di maggioranza senza un minimo di soglia e dove i parlamentari non sono scelti dai cittadini ma da chi compila l’ordine delle liste.

Buon senso vorrebbe cambiare questa legge subito.

Buon senso vorrebbe che il PD non si opponesse alle preferenze per il semplice fatto che è un meccanismo che gli conviene.

Buon senso vorrebbe non aver paura della democrazia ma sostenerla sempre e comunque.

Ma di buon senso se ne vede in giro ?

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Il Movimento 5 stelle è ormai come la Fattoria degli Animali di Orwell.

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Forse non è chiaro ai più quello che sta succedendo nel Movimento di Grillo.

Se si caccia una senatrice dal movimento per la sola colpa di avere criticato il “Capo” non ci troviamo soltanto di fronte ad un problema di garanzie di democrazie interna.

Siamo all’essenza dello stalinismo, quello che George Orwell denunciò nella Fattoria degli Animali.

A seguire il dibattito interno dei grillini ci sembra di rivedere i personaggi del racconto orwelliano.

Grillo è Napoleon, il verro che “voleva avere sempre ragione”.

Vito Crimi e la Lombardi e tanti altri che non fanno che ripetere il Verbo del Capo, sono come il maiale Clarinetto, il propagandista che prende per i fondelli gli animali raccontandogli fandonie a cui non crede neppure lui.

Le pecore che ripetono gli slogan sono i presunti iscritti della rete, dove non si fa che ripetere ossessivamente la volontà del Capo, per zittire i dubbiosi e per smentire tutti coloro che pongono dubbi sul fatto che della rivoluzione annunciata ai quattro venti non si intravede neppure l’ombra.

Mancano ancora i cani, che nel racconto orwelliano rappresentavano la polizia e la NKVD, ma penso che Casaleggio si stia attrezzando anche in questo senso, magari dotando di qualche arma i responsabili della comunicazione messi a tutela dei gruppi parlamentari contro i cattivi giornalisti, che so, un laser che secchi la lingua del deputato nello stesso istante in cui si trova nel raggio di almeno 10 metri da un microfono !!!

Mai nella storia della politica italiana ci siamo trovati di fronte ad uno schema simile, incapace persino di cogliere il senso del ridicolo che questi episodi suscitano.

Per Grillo, come si è capito, vale la democrazia dell’articolo quinto, chi ha la mano ha vinto.

Per chi lo ha seguito in buona fede resta il dilemma se essere come l’asino Benjamin, l’unico animale ad aver conservato il proprio senso critico nel generale conformismo, o come il povero Gondrano, il cavallo stakanovista sincero sostenitore di una rivoluzione e che alla fine della sua vita invece di premiarne la devozione, lo manderà al macello per trasformarlo in colla.

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Anche sul web libertà è libertà per gli altri.

Albert Camus

La scorsa settimana si è tenuto a Cosenza un interessante convegno che ha fatto il punto sulla cosiddetta “minaccia cibernetica e il diritto alla privacy” promosso dall’ordine degli ingegneri di Cosenza e dalla Fondazione Mediterranea per l’ingegneria.

Al tavolo dei relatori personalità assai diverse, dal politico ai tecnici fino al rappresentante delle forze dell’ordine e della sicurezza. Sono infatti intervenuti l’ing. Alessandro Astorino (Consigliere Ordine Ingegneri Cosenza), l’on. Enza Bruno Bossio (Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni – Camera dei Deputati), il Gen. C.A. Giorgio Cornacchione (Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri), l’ing. Angelo Valsecchi (Consigliere Nazionale Ordine Ingegneri d’Italia), il dott. Stefano Zireddu (Director Global Security e Cyber Crime Investigations Italy, American Express), il dott. Raffaele Barberio, Direttore di Key4biz, il Gen. Luigi Ramponi, Presidente del CESTUDIS.

Non sfugge a nessuno che la straordinaria espansione della Rete quale strumento di informazione e comunicazione pone tutta una serie di problemi assai rilevanti sia sul piano della sicurezza dei dati e dei sistemi informatici che ormai regolano praticamente ogni momento della nostra vita quotidiana, sia sul piano del rispetto della privacy di milioni di persone.

La polemica nata negli USA contro il Presidente Obama sulla intercettazione e catalogazione dei dati riguardanti milioni di cittadini americani all’interno di un programma di lotta al terrorismo internazionale ne è, sostanzialmente, la prova più evidente.

L’on. Bruno Bossio, nel corso del suo intervento, ha messo in evidenza come la Rete non sia altro che “uno specchio del mondo in cui viviamo, ne riflette gli slanci (vedi primavera araba) ma anche le miserie. La Rete si presenta come un’estensione delle relazioni sociali, con profondissime potenzialità elaborative mai conosciute nella storia dell’umanità. Non è un mondo parallelo, ma un’estensione del mondo relazionale e informazionale della nostra società; rappresenta sicuramente il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto”.

Io credo che ciò sia la prima grande questione che dobbiamo tenere presente: l’umanità oggi ha uno strumento straordinario nelle sue mani per esercitare il proprio diritto alla libera espressione del proprio pensiero e all’acquisizione di informazioni sempre più dettagliate e recenti. Nello stesso tempo l’umanità, per la prima volta nella sua storia, può “sentirsi” finalmente una pur nelle sue enormi differenze, percepirsi come un unico organismo sociale e culturale.

Internet però è un mezzo, non il fine. E’ uno spazio pubblico, non un altro cosmo che vive di vita propria, una realtà virtuale da contrapporre a quella reale.

La Rete può migliorare la nostra qualità della vita ma, nello stesso tempo, restringere i nostri spazi di libertà a seconda dell’uso che se ne fa.

Torna quindi prepotente un tema antico, quello sui limiti della libertà individuale in una società, soprattutto quando questa società diventa sempre più complessa e interconnessa.

A nessuno può essere limitata la libertà di comunicare quello che vuole su Internet purché questa libertà non vada ad incidere sulle libertà di altri, soprattutto se questi ultimi sono più deboli e indifesi (si pensi solo al problema della tutela dei minori).

Da qui l’esigenza di regole e di strumenti di controllo che consentano l’esercizio della libertà di espressione da una parte e garantiscano i diritti individuali di ciascuno alla tutela della propria persona.

Scriveva Albert Camus: “La libertà senza limiti è il contrario della libertà. Solo i tiranni possono esercitare la libertà senza limiti; e, per esempio, Hitler era relativamente un  uomo libero, l’unico d’altronde di tutto il suo impero. Ma se si vuole  esercitare una vera libertà, non può essere esercitata unicamente nell’interesse dell’individuo che la esercita. La libertà ha sempre avuto come limite, è una  vecchia storia, la libertà degli altri. (…). Una libertà che comportasse solo dei diritti non sarebbe una libertà, ma una tirannia. Se invece comporta dei diritti e dei  doveri, è una libertà che ha un contenuto e che può essere vissuta. (…)  La libertà con dei limiti è l’unica cosa che faccia vivere allo stesso tempo colui che la esercita e coloro a favore dei quali viene esercitata”. Camus scrisse queste parole all’interno del saggio Il futuro della civiltà europea quando Internet forse era ancora nei sogni dei suoi inventori, ma le sue parole sono di una attualità stringente.

Per non dover essere costretti, un giorno, a dover scegliere tra il Grande Fratello orwelliano di 1984 e la totale anarchia di un web in cui l’uomo e i suoi diritti vengono maciullati quotidianamente, credo che sia doveroso trovare le forme e gli strumenti per fare in modo che l’enorme spazio di libertà e democrazia che Internet ci offre possa essere messo davvero a disposizione di tutti nel rispetto di tutti.

Il semipresidenzialismo non deve far paura. Basta con gli opportunisti e i parolai.

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Fa davvero sorridere come lo stesso fronte che, appena poche settimane fa, se ne andava in giro a sostenere “Rodotà Presidente perché voluto dal popolo” sull’onda delle magnifiche sorti e progressive di Rete e piazza, oggi si riunisca per dire no all’elezione diretta del Presidente della Repubblica.

Francamente è diventato insopportabile l’atteggiamento opportunistico e parolaio di alcuni protagonisti di una parte della sinistra italiana, tutta protesa a riempirsi la bocca di sani principi solo per mascherare il proprio conservatorismo indifferente ai problemi veri del Paese.

Ad essi si aggiungono i soliti “benaltristi”, che proclamano che agli italiani non importa nulla delle riforme istituzionali ma solo delle tristi condizioni della economia e della mancanza di prospettive per tante famiglie. Come se le difficoltà della politica a dare risposte concrete ai problemi economici e sociali non siano profondamente intrecciate anche alla crisi di funzionamento delle istituzioni repubblicane che ci trasciniamo dietro da vent’anni a questa parte.

Personalmente ritengo che una riforma istituzionale che introduca anche in Italia il cosiddetto “presidenzialismo alla francese” non rappresenti alcuno scandalo.

Nei fatti il nostro sistema è già evoluto in questo senso a Costituzione invariata.

L’importante è che questa riforma individui tutti gli elementi di controllo e garanzia dei poteri presidenziali tipici delle democrazie mature e si accompagni alla riduzione del numero dei parlamentari, preveda una sola Camera che dà la fiducia al Governo, un Senato delle Regioni e una legge elettorale a doppio turno.

In Francia questo sistema funziona bene e non mi pare che abbia mai dato adito a dittature mascherate.

Un Presidente della Repubblica che assume su di sé la responsabilità della politica nazionale sulla base di un chiaro mandato popolare assegnato con suffragio universale e diretto e un sistema elettorale che rompa finalmente con l’ingovernabilità e la pratica delle coalizioni disomogenee in cui a prevalere sono quasi sempre i condizionamenti delle minoranze, mi sembra una buona risposta alla crisi attuale della politica italiana che è soprattutto crisi delle responsabilità.

Com’è ovvio di soluzioni ce ne possono essere anche altre, purché raccolgano un ampio consenso sia nel Parlamento che nel Paese. Mi convince molto la scelta di voler comunque sottoporre le riforme istituzionali, a prescindere dalle maggioranze parlamentari che le approveranno, a referendum confermativo.

La democrazia, come si dice, non è mai troppa.

Una cosa è certa, però: la si smetta di menar il can per l’aia e si faccia presto, come ha sollecitato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. I partiti, tutti, scelgano e si assumano le proprie responsabilità di fronte al Paese. Di chiacchere se ne sono fatte fin troppe per sopportarne altre.

Grillo…ne resterà solo uno. Le illusioni deluse del fronte radical-giustizialista.

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Tutto si può dire di Beppe Grillo ma non certamente che non sia dotato di grande senso dell’humour.

L’ultima, essersi vestito come l’highlander, l’ultimo immortale interpretato da Cristopher Lambert in un film cult degli anni ’80, rappresenta bene la sua lotta solitaria contro tutto il sistema, l’idea assolutista e integralista di essere l’unico vero interprete del cambiamento di cui il Paese ha bisogno.

In questo quadro sono assolutamente coerenti i suoi attacchi a tutti coloro che ne criticano stile, strategia e tattica politica, fossero anche coloro che lui ha di recente incensato e portati al centro del dibattito politico, vedi la Gabanelli e Rodotà, definito poche ore fa con grande garbo “ottuagenario scongelato dalla Rete” per la sola colpa di averlo criticato in una intervista sul Corsera.

Con grande scorno di quel fronte radical-giustizialista che, dopo il successo elettorale di febbraio, ha cercato di inglobarlo, di asservirlo alle proprie visioni del mondo e alla sua gesuitica battaglia anticasta, Beppe Grillo continua a fregarsene altamente di tutti e di tutto.

Quando dice che ne resterà solo uno non fa tattica, dice le cose che pensa insieme a Casaleggio.

Quando dice che vuole destrutturare tutto il sistema dei partiti e delle stesse istituzioni per instaurare una utopistica “democrazia diretta della rete” ne è davvero convinto.

Lui non “fa” l’antipolitico come Di Pietro che la mattina tuonava contro la casta e il finanziamento pubblico ai partiti e la sera con quella casta si spartiva poltrone e assessori e con i soldi del partito comprava le case: lui è davvero antipolitico.

Lui davvero crede di essere al di là della destra e della sinistra, davvero è convinto che la democrazia sia un post sul suo blog e non la faticosa elaborazione di idee frutto di confronti anche aspri tra persone che, spesso e per fortuna, la pensano diversamente l’uno dall’altro.

Per lui la critica non è il sale del confronto politico, ma solo il suo veleno.

Come tutti i populisti ritiene di essere l’unico, vero e autentico interprete della volontà popolare e gli altri che non la pensano come lui possono tranquillamente “andare fuori dalle balle”.

Così se gli italiani cessano di votarlo la colpa è solo loro che non hanno capito o, peggio, sono servi e schiavi del vecchio sistema.

Convincetevi, Grillo è questo, è esattamente quello che ha sempre detto di essere.

Quando dice che non farà mai alleanze e che tutti devono andare a fan… tranne lui, è sincero, se ne convinca il buon Vendola definito proprio oggi dal nostro, “supercazzolaro”.

Se ne convincano tutti coloro che in questi mesi sul duo Grillo-Casaleggio hanno costruito tutti i possibili film e controfilm di nuovi partiti, di alternative di sinistra e di “falce e manette”.

Credere che un ex comico possa essere l’interprete del rinnovamento della democrazia e delle istituzioni italiane non è soltanto inutile, ma semplicemente ridicolo e anche un tantino pericoloso come ci insegna la storia nostra e dell’Europa.

E’ solo un altro capitolo della tendenza di una parte delle classi dirigenti italiane a deresponsabilizzarsi e ad affidarsi alla novità per evitare l’innovazione. Salvo restarci proprio male quando la “novità” manda anche loro “a fan…”.

INNOVAZIONE NON NUOVISMO

il futuro del partito nelle mani dei giovani

State certi che se volete strappare unanime consenso anche in una discussione informale prendendo un caffè al bar è sufficiente una tirata sulla necessità di novità: in politica, in TV, nello sport, ecc..

Il nuovo è affascinante per tutti, persino per i conservatori.

D’altro canto, come diceva Catalano buonanima, è retorico chiedersi se è meglio mettere un vestito vecchio e rotto o un vestito nuovo e sano.

La questione è assai più complessa quando si declina il nuovo come categoria della politica, soprattutto in una società come la nostra che, nei fatti, chiude ai giovani ogni prospettiva e ogni opportunità.

Liberare la società italiana e consegnarla alle giovani generazioni rappresenta una vera e propria emergenza democratica ed è uno dei primi compiti della politica, soprattutto della politica di una forza democratica.

Il tema che, però, viene quasi sistematicamente eluso, una volta enunciata la necessità del nuovo e del rinnovamento è quello di come questo nuovo e questo rinnovamento debbano essere effettivamente costruiti.

Qui vediamo che ci si ferma, per incapacità o per calcolo doloso, alla semplice enunciazione, alla proclamazione retorica ed indignata.

In questi anni, invece di costruire per davvero il nuovo si è messa in piedi una insopportabile retorica del nuovo, un nuovo senza alcun pensiero dietro, spesso semplificato al puro dato anagrafico, in una parola si è semplicemente declinato il “nuovismo del vuoto spinto”.

Le ultime elezioni ci hanno consegnato, ad esempio, un forte svecchiamento del Parlamento, ma non mi pare che le cose, almeno finora, stiano andando meglio, anzi.

Assistiamo infatti allo spettacolo di bravi ragazzi che, è l’esempio del Movimento 5 Stelle, per settimane e settimane hanno discusso di scontrini e ricevute. Oppure, nel PD, a giovani deputati così permeabili agli umori di pancia della rete da non garantire al partito che li ha eletti un minimo di tenuta nei momenti cruciali delle prove parlamentari.

La verità è che il nuovo senza un progetto politico, senza una idea di società, senza modelli di riferimento che lo sostengano è destinato a soccombere e a provocare, questo il danno maggiore, un effetto di reazione conservatrice che si riaffida spesso, per insicurezza e per tutela, sotto le ali del peggiore del vecchio.

Vi siete chiesti, ad esempio, perché, nonostante tutta la retorica del nuovo di cui è disseminato il nostro dibattito pubblico i sondaggi danno in crescita un vecchietto di 77 anni e in politica da venti di nome Silvio Berlusconi ?

La rivoluzione francese, il ’68, i grandi movimenti di massa che hanno prodotto profondi cambiamenti nella storia furono prodotti da grandi idee di liberazione portate avanti da persone nuove, non soltanto giovani ma soprattutto giovani.

Perché per produrre cambiamento e innovazione ci vogliono nuove idee non idee nuove.

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