Gabriele Petrone

Il tradimento senza dignità.

Il Traditore

Esistono diversi modi di tradire. Ci sono traditori che, ad esempio, riescono a mantenere, almeno in parte, una loro credibilità perché conservano il rispetto delle persone e del campo che si sceglie di abbandonare.
Conservano, cioè, una propria etica, che si può non condividere ma che si può rispettare.
Insopportabile e decisamente ripugnante, invece, è il tradimento nel quale, senza neppure sentire vergogna di se stessi, ci si erge a paladini di tutto ciò che prima si disprezzava profondamente, sostenendo il contrario delle convinzioni per le quali, a prescindere da tutto, si erano condotte vigorose battaglie ideali e culturali. Chi tradisce così è uno che rinnega se stesso vendendo la sua testa e il suo cuore.
Egli non è neppure un traditore. Non ha la dignità di un Giuda o di un Bruto. È solo un puro e semplice venduto. È uno che giudica gli altri sul metro del suo cuore meschino. Non merita considerazione. Neanche disprezzo. Soltanto indifferenza.

La vera lotta alla illegalità e gli improbabili fantini della tigre giustizialista.

Mario Oliverio in Consiglio regionale

Conosco Mario Oliverio da circa trent’anni.
Lo conosco dai tempi in cui, io segretario della giovanile, intervenni ad una manifestazione di solidarietà quando, giovanissimo assessore regionale all’agricoltura, ricevette una terribile intimidazione mafiosa: una testa di lupo mozzata davanti alla sua abitazione.
Pochi ricordano oggi quell’episodio, come non ricordano l’ultradecennale impegno contro la ndrangheta di Oliverio e di tanti come lui nei tempi funesti che stiamo vivendo.
Oliverio e tanti come lui non hanno mai cambiato idea sulla lotta intransigente contro ogni forma di illegalità.
Anche questa inchiesta finirà in una bolla di sapone. Ho letto l’ordinanza. Rilevo che per accuse uguali sindaci di grandi città non hanno avuto alcun provvedimento cautelare. Ma tant’è. Ci siamo sempre difesi nei processi e non dai processi. Sarà così anche questa volta.
Intanto sarebbe utile riflettere, tutti, a prescindere da come la pensiamo, sul fatto che, forse, non è la verità giudiziaria che si persegue ma solo fare esplodere l’ennesimo polverone mediatico.
Che qualcuno conta di poter cavalcare. Non sapendo che il giustizialismo è una tigre che disarciona tutti, anche gli improbabili fantini dell’ultima ora.

Il Sindaco della falsa nobiltà e della miseria vera

Il crollo del manto stradale a Corso Umberto

Il crollo del manto stradale a Corso Umberto

Cosenza sprofonda nel fango delle voragini che si aprono nell’asfalto sotto le ruote dei malcapitati automobilisti, nella cronica mancanza di acqua, nel traffico impazzito per le strade chiuse e le ZTL demenziali predisposte come gigantesche trappole per fare cassa con le multe. E la chiusura di Viale Mancini voluta dal sindaco ufficialmente per la metro, ma in verità per realizzare un fantomatico Parco del benessere, quello che nel frattempo ci sta togliendo. I commercianti non battono chiodo, nei quartieri la miseria è diventata una compagna abituale, non si attivano finanziamenti perché il Comune non mette le risorse di sua competenza per la viabilità alternativa che potrebbe alleviare il traffico cittadino, ma il Sindaco si preoccupa di spendere centinaia di migliaia di euro per far affrescare la sala consiliare e comprare patacche da spacciare come “conio speciale e di pregio” (sic) per la distribuzione dei buoni alimentari alla povera gente. D’ora in poi a Cosenza si sarà pure poveri, ma si potrà pagare aru ntinnu con “conio di pregio” ! Nel frattempo si avvicina il Natale e ricomincia la solita pantomima delle luci e delle paillettes, degli alberi addobbati, ma non si va oltre corso Mazzini. Cosenza è stata ridotta come quelle case dei nobili decaduti che ricevono le persone nel salotto buono per non mostrare la miseria e il degrado delle altre stanze. Ma che ci frega? Tanto abbiamo il Sindaco del fare e della bellezza, per il resto la colpa è sempre degli altri.

Crollo  corso Umberto 2

Il crollo del manto stradale a Corso Umberto

Il crollo del manto stradale a Corso Umberto

Il crollo del manto stradale a Corso Umberto

La presunzione di onestà

Di Maio figlio Di Maio padre

Di Maio figlio Di Maio padre

In questa vicenda di Di Maio padre, figlio, fratelli e mammà c’è qualcosa di più: c’è la presunzione dell’uomo qualunque di essere sempre migliore della classe politica che lo governa (e che comunque si sceglie lui) e la presunzione da mosca cocchiera dei politici demagogici.
Al di là del merito, delle eventuali violazioni di norme, dei possibili risvolti penali e persino delle implicazioni di carattere etico, ciò che emerge, nuda e cruda, è l’Italia, la splendida e meschina terra in cui viviamo.
La Di Maio family non è molto diversa dalle tante che praticano nei confronti dello Stato il vecchio refrain: prendere molto e possibilmente dare nulla. Ma per questo non si sentono in colpa, anzi. Ritengono di compiere una giusta azione risarcitoria nei confronti di una politica e di una pubblica amministrazione inefficiente, corrotta, geneticamente disonesta.
Siamo di fronte ad un fenomeno di ipocrisia di massa, che si nutre di retorica antisistema ed è la prima causa dei fenomeni degenerativi di cui soffre il nostro Stato.
L’antipolitica di questi anni, di cui si sono nutrite tutte le forze politiche, non solo non ha combattuto questo atteggiamento ma lo ha incoraggiato, ne ha fatto una politica. Credendo di essere migliori, un esercito di uomini qualunque insieme a un ceto politico di demagoghi riciclati oggi ha assunto ruoli di governo al grido di “onestà onestà” e in nome della lotta alle tasse brutte, sporche e cattive e del “fuori i poveri disgraziati di immigrati che ci rubano il lavoro”.
È così che abbiamo portato il bar dello sport in parlamento e al governo. Una massa di persone che imprecano per le multe e lasciano la macchina in tripla fila. Che si incazzano per gli immigrati che sono troppi e si lamentano perché non trovano la badante per il vecchio il mese di agosto. Il tipo che ha trovato lavoro facendo la fila nelle segreterie politiche dei “soliti politici” che tuona tutti i giorni contro il clientelismo. L’elenco potrebbe continuare all’infinito. Continua a leggere

E…Lezioni americane

(Photos: Courtesy GOP.org, Democrats.org)

Afroamericani, ispanici, nativi americani, gay dichiarati e tantissime donne. I democratici negli USA sfidano la destra razzista e maschilista impersonata da Trump con impostazione politica e candidati radicalmente alternativi. La destra populista e sovranista che sollecita solo paure si batte con una sinistra che indica con chiarezza la strada del progresso e della fiducia nella società aperta.

Democratica.com

Il Piave mormorò: “Fuoco sulla Brigata “Catanzaro” ! di Mario Aloe

La brigata Catanzaro alla quota 208, 1916. In "Storia illustrata", n. 2, 1981.

La brigata Catanzaro alla quota 208, 1916. In “Storia illustrata”, n. 2, 1981.

di Mario Aloe

Il giallo dei campi della Calabria lo aveva negli occhi, dalla sua casa, adesso, avrebbe potuto guardare il mare celeste tingersi dei colori della sera. Sognava e nella mente scorrevano immagini che gli accarezzavano il cuore riempiendo il ricordo fino a sfinirlo, mentre punte di malinconia gli afferravano l’animo.
Presto la sera si sarebbe portata con se il grecale e il buio avrebbe suonato le note della notte, una serenata di grilli e rane gracidanti.  Anche qui era caldo, un caldo che le prime ombre avevano fugato come se un panno bagnato fosse passato sulla fronte lasciandosi dietro una scia di umido, che non era riuscita a rinfrancare il corpo .
Il sudore della giornata si era trasformato in un velo appiccicaticcio che avvolgeva la pelle.
Quindici luglio; erano nel paese dalla fine di Giugno di ritorno da mesi di prima linea e di combattimenti all’arma bianca. Un meritato riposo che il comandante dell’armata, il duca d’Aosta, aveva accordato ai due reggimenti della brigata. Se lo erano meritato il riposo.
Quindici luglio a Santa Maria La Longa, anche stanotte avrebbero dormito al chiuso, sulla paglia dopo aver mangiato un pasto caldo e non la sbobba che arrivava in trincea. La pasta e poi il pane e forse un pezzo di carne.
“Mike, ci vogliono rimandare al fronte, domani ci porteranno a morire. Mike l’ho saputo dal portaordini che è arrivato dal comando di divisione. Siamo carne perduta, uomini senza futuro.” Gli parlava Tonino, con quel suo accento siciliano, articolando le parole in preda ad un profondo stato di agitazione. “Lo sanno già tutti, altri hanno parlato con gli ufficiali, la notizia è sicura. Mi hanno mandato da te, pensano che tu possa parlare con il Poeta, che le tue parole possano ottenere il rinvio della data del ritorno sul Carso”.
Lo ascoltava e ancora non riusciva a rendersi conto dell’accaduto.  Possibile che ci fanno ritornare sul Carso?  Di nuovo al centro del massacro come se il sacrificio compiuto il 23 e 24 maggio non fosse bastato. Continua a leggere

Il senso di una ricorrenza di cento anni fa.

Immagine d'epoca del Monumento ai caduti di Cosenza

Immagine d’epoca del Monumento ai caduti di Cosenza

Articolo su “Il Quotidiano del Sud” del 4 novembre 2018

Mi sono sempre domandato cosa possono dire ai ragazzi di oggi gli elenchi di nomi che campeggiano sui tanti monumenti dedicati ai caduti della prima guerra mondiale e che ormai fanno parte della geografia urbana di tutti i nostri comuni, dalle Alpi fino a Trapani.
Credo non molto. Al massimo il ripetersi di alcuni cognomi avrà spinto qualcuno a chiedersi se quel soldato di cento anni fa fosse un lontano parente.
Eppure a 100 anni distanza il 4 novembre resta una ricorrenza vissuta a metà.
Non è questa la sede per analizzare il difficile rapporto che la società italiana ha sempre avuto con la propria storia. Basti pensare alle discussioni che ancora oggi si aprono puntualmente in occasione del 25 aprile, sullo stesso 2 giugno.
In questo contesto va letto il recente tentativo operato da alcuni settori della destra politica di recuperare il 4 novembre e la memoria della Grande Guerra all’interno delle spinte neosovraniste e neonazionaliste che interessano numerosi paesi europei, Italia compresa.
In verità, a partire dalla Presidenza di Carlo Azeglio Ciampi si è assistito ad una certa inversione di tendenza che non ha mancato di influire sulla coscienza collettiva del Paese che oggi tende a riconoscersi più facilmente in un comune quadro di valori nazionali.
La patria, le sue istituzioni, comprese le sue forze armate, appartengono a tutti, così come i valori democratici che si incarnano nelle ricorrenze del 25 aprile e del 2 giugno.
Le parole “patria” e “viva l’Italia”, del resto, erano le ultime che venivano pronunciate dai condannati a morte della Resistenza, come testimoniano le loro lettere.
Ecco perché una parte del ceto politico dovrebbe smetterla di usare le divisioni del passato per cercare di tenere in piedi le proprie identità nel presente: è vera politica, invece, quella che sa riconoscersi in un comune quadro di valori e dividersi, come è giusto che sia, solo su cosa fare nel presente.
Ai giovani di oggi abbiamo il dovere di offrire una comunità nazionale aperta, democratica, protesa alla cooperazione internazionale, che ripudia la guerra e si fonda sul diritto per come delineato dalla nostra Costituzione.
In questo senso ricordare il 4 novembre significa non solo celebrare la fine di una delle guerre più sanguinose della storia ma riflettere su alcuni elementi decisivi per la costruzione dell’Italia di oggi.
La guerra che si concluse il 4 novembre del 1918 fu, infatti, un evento che ha segnato la storia italiana in maniera forse più profonda rispetto agli altri paesi europei.
In Italia, infatti, il consenso alla guerra riguardava una minoranza, sia pure particolarmente attiva composta da intellettuali come D’Annunzio, dai futuristi, ma anche da personalità di cultura democratica come Salvemini, una frangia dell’estrema sinistra sindacalista-rivoluzionaria, i repubblicani, i nazionalisti, i liberali moderati, alcuni settori della industria pesante e parte della Corte. Su posizioni neutraliste erano invece i liberali di sinistra che facevano riferimento a Giovanni Giolitti, i socialisti, i cattolici, vale a dire la stragrande maggioranza del Paese e del Parlamento. Per portare il paese in guerra il governo dell’epoca, (Governo Salandra), sfiorò la crisi istituzionale perché non aveva maggioranza parlamentare e, nei fatti, operò un “colpo di stato” surrettizio. Ben altra cosa accadde negli altri paesi europei, con manifestazioni di piazza e arruolamenti volontari di massa nelle prime settimane di guerra e persino i partiti socialisti che votavano per la guerra nei diversi parlamenti.
Inoltre, la guerra cominciata il 24 maggio 1915 (un anno dopo gli altri paesi coinvolti nel conflitto) fu condotta, almeno fino alla disfatta di Caporetto nell’autunno del 1917, con metodi brutali e con assoluta indifferenza per la sorte di quella moltitudine di soldati contadini, mandati a morire in azioni disperate e prive di senso.
Solo l’Italia, ad esempio, trattò i suoi prigionieri caduti in mano all’esercito austro-ungarico come vili, disertori, rifiutandosi di sottoscrivere con gli avversari specifici accordi (come avevano fatto ad esempio inglesi e tedeschi) per garantire comunque l’assistenza alimentare e perseguitando perfino le loro famiglie negando ad esse i sussidi di guerra.
L’uso indiscriminato dei processi sommari, delle fucilazioni e delle decimazioni come quella inflitta alla Brigata “Catanzaro” nell’estate del 1917, reparto composto prevalentemente da calabresi che pure si era coperto di gloria nel corso della guerra per il suo coraggio, rappresentano la prova più evidente di un atteggiamento diffuso in tutti gli eserciti ma che nel nostro si colorava dell’antico disprezzo per le classi subalterne chiamate solo ad obbedire senza discutere. Molti soldati furono fucilati semplicemente perché parlavano il dialetto, e gli ordini, in italiano, suonavano loro incomprensibili.

La Brigata Catanzaro in una delle celebri copertine della Domenica del Corriere

La Brigata Catanzaro in una delle celebri copertine della Domenica del Corriere

Eppure quella guerra, quella “inutile strage”, come la definì papa Benedetto XV cercando inutilmente di fermarla con una accorata lettera nell’agosto del 1917 ai capi degli stati belligeranti, quei soldati-contadini continuarono a combatterla, a prezzo di immani sacrifici, per salvare una nazione che non avevano mai conosciuto e che a loro si era manifestata soltanto con il volto arcigno della repressione.
Fu nelle trincee, nella quotidiana condivisione della morte imminente che maturò un concetto di patria che finalmente non veniva imposto da una vuota retorica ma dalla necessità di salvare la propria vita, la propria terra, la propria famiglia, il proprio mondo.
Fu in quei quattro anni e mezzo che uomini, ragazzi di 18 anni, provenienti da ogni parte del Paese, di estrazioni sociale diversa (il ruolo degli ufficiali di complemento, per lo più di estrazione piccolo-borghese che erano più a contatto con la truppa, fu decisivo) entrarono per la prima volta in contatto, nella comune sofferenza.
La prima guerra mondiale rappresentò la prima vera esperienza collettiva di una nazione giovane, divisa, ancora immatura. E riuscì a vincerla, a costo di 650mila morti i cui nomi sono scolpiti su quei monumenti che oggi neppure guardiamo, solo perché seppe trovare, ad un certo momento, le ragioni dell’unità, del comune riconoscimento.
Una esperienza che si ripeterà in altre circostanze nel corso della nostra storia, tutte drammatiche: l’8 settembre del 1943, la nascita della Resistenza e la Liberazione; gli anni di piombo, il delitto Moro e la sconfitta del terrorismo. Sembra quasi che l’Italia dia il meglio di sé nei momenti più difficili.
Ricordare, dunque, questi eventi, forse ci farà trovare quelle energie necessarie a fare in modo che questa nostra Italia si senta quella bella, grande e generosa comunità che è, tutti i giorni e non soltanto quando è costretta a vivere l’ennesima tragedia.

Il Quotidiano del Sud del 4 novembre 2018

Difendere la buona accoglienza

Difendere la buona accoglienza 2

La propaganda giallo-verde mira ad instillare nei cittadini sentimenti che si concretizzano nella criminalizzazione della solidarietà (Mimmo Lucano ne è un esempio piuttosto emblematico).
Per tali motivi, il Primo Circolo PD Centro Storico e Frazioni sostiene il coordinamento SPRAR CS e l’accoglienza diffusa contro i centri di detenzione CAS, CARA e CPR che trasformano i migranti in invisibili della città, senza diritti e senza doveri. Nel centro storico di Cosenza, dove le comunità rom straniere presenti e i migranti subiscono il diniego del permesso di soggiorno lo tocchiamo con mano. Sono, infatti, considerate inesistenti da parte dell’amministrazione comunale generando degrado sociale.
Per questo noi siamo a favore dell’Unione Europea, ci schieriamo dalla parte di Mimmo Lucano e difendiamo, fortemente, l’integrazione. Ci auspichiamo che tutti i comuni si uniscano per difendere il modello SPRAR che Salvini-Di Maio vogliono smantellare.
NO al fascismo, a chi chiude i porti condannando migliaia di esseri umani a morte, alla deriva xenofoba del governo!
#RESTIAMOUMANI

Difendere la buona accoglienza

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