Gabriele Petrone

Ideologia e stupidità di chi ancora difende la Bossi-Fini e si oppone all’amnistia.

Morti di lampedusa

Prima scena: centinaia di immigrati muoiono in mare…uomini, donne e bambini. I superstiti si trovano indagati per il reato di immigrazione clandestina introdotta da una legge stupida e propagandistica come la Bossi-Fini.

Da più parti, giustamente, si fa notare come questa cosa oltre che stupida è anche vergognosa per un paese civile. Eppure ancora oggi Alfano, mentre Barroso e Letta visitavano Lampedusa per rendere omaggio alle vittime e cercare soluzioni al problema, si è sentito in dovere di difenderla.

Seconda scena: il Presidente della Repubblica giustamente manda un messaggio alle Camere per proporre un provvedimento di clemenza nei confronti dei detenuti che, nelle carceri italiane ormai sovraffollate, vivono in condizioni al limite dei più elementari diritti umani.

Ad opporsi i grillini, che in questo provvedimento vedrebbero un favore a Berlusconi. Cosa c’entri il vecchietto di Arcore con un provvedimento di amnistia che riguarda i carcerati è inspiegabile, anche perché, se fosse vero ciò bisognerebbe chiedersi perché la Lega di Maroni e Fratelli d’Italia, vale a dire i migliori e unici alleati di Berlusconi, hanno annunciato barricate contro questo eventuale provvedimento.

L’unica spiegazione è sempre quella vecchia: l’ideologia si nutre di propaganda, è falsa coscienza e spesso va a braccetto con la stupidità.

Il generale Giap, simbolo della lotta contro il colonialismo

Giap

E’ morto, alla veneranda età di 102 anni uno dei più grandi generali della storia, Vo Nguyen Giap.

Artefice dell’indipendenza vietnamita di cui fu il braccio militare e Ho Chi Mihn quello politico, al comando di un esercito di contadini sommariamente armati sconfisse prima i francesi nella grande battaglia di Dien Bien Phu nel 1954 e poi la più grande potenza militare del mondo, gli USA, nella lunga guerra non dichiarata del Vietnam (1963-1975).

Siamo molto lontani dal clima politico ed ideologico che, negli anni  ’60 e ’70. mosse tutto il mondo in una gara di solidarietà nei confronti del Vietnam che combatteva contro il gigante americano.

Di certo il regime che scaturì da quella guerra rimase nel campo delle dittature comuniste dove lo aveva relegato la guerra fredda e dove, nonostante aperture e liberalizzazioni, purtroppo ancora rimane.

Ma la lotta che Giap e Ho Chi Minh combatterono fu animata soprattutto dalla volontà di liberarsi da secoli di colonialismo e di subalternità.

Fu un episodio fondamentale della fine del colonialismo in cui milioni di donne e di uomini combatterono e morirono per conquistare la propria libertà.

Fosse solo per questi motivi io credo che sia giusto, comunque, ricordarlo.

Visita al Museo della Guerra ad Ho Chi Minh City

Visita al Museo della Guerra ad Ho Chi Minh City

Visita al Museo della Guerra ad Ho Chi Minh City, Padiglione della solidarietà internazionale

Visita al Museo della Guerra ad Ho Chi Minh City, Padiglione della solidarietà internazionale

Responsabilità civile dei giudici: why not ?

Why not

Un giudice ha condotto un’inchiesta che è costata 10 milioni di euro.

Questa inchiesta ha indagato e sottoposto a processo decine e decine di persone che alla fine sono state tutte assolte con formula piena.

Alcune di queste persone hanno avuto la vita personale e professionale rovinata e per anni sono stati additati al pubblico ludibrio della gogna mediatica.

Addirittura questa inchiesta è stata la causa della caduta di un governo della repubblica.

L’intera inchiesta, oggi lo dimostrano anche le sentenze, era soltanto una fantomatica bufala.

Nonostante questo il giudice in questione, grazie alla notorietà mediatica acquistata durante le indagini, è riuscito a farsi eleggere prima deputato europeo e poi Sindaco di una delle più grandi città d’Italia.

Dei suoi evidenti errori non risponderà mai davanti a nessun tribunale.

Se invece un medico, un insegnante, un ingegnere o un qualsiasi cittadino che guida la sua macchina sbaglia, è condannato quantomeno al risarcimento del danno che provoca.

In tutto il mondo democratico esistono leggi che stabiliscono la responsabilità civile dei giudici.

Per questi motivi ho firmato il referendum proposto dai radicali.

La fine del populismo e la ricerca del “quid”.

Il quid

Una mia riflessione sulla giornata di ieri al Senato.

Senza voler esagerare ciò che è successo ieri al Senato rappresenta certamente una svolta politica rilevante. Se sarà anche una svolta storica dipenderà dagli effetti che avrà sull’assetto politico-istituzionale del Paese. Le novità mi sembrano, tuttavia, rilevanti e proverò ad evidenziarle qui di seguito.

 Rottura dello schema leaderistico-populistico

Quello di ieri non è stato solo un passaggio parlamentare che ha sancito la rinnovata fiducia ad uno dei tanti governi della Repubblica, ma l’esemplificazione plastica di come antipolitica e populismo siano insufficienti e totalmente inadeguati quando è necessario misurarsi con problemi politico-istituzionali seri. Per dirla in altre parole è apparso evidente come i partiti personali e del leader non ce la fanno a reggere la sfida della complessità.

Ciò vale per Berlusconi che, dopo avere tentato di derubricare la fronda interna sotto l’epiteto semplicistico e populistico dei “traditori”, ha finito per scoprire di essere politicamente in minoranza nel suo stesso partito, la creatura che per vent’anni, sotto le diverse denominazioni, è stata una sua proprietà personale, i suoi aderenti dei semplici dipendenti.

Ma vale anche per Grillo e le sue truppe sempre più spaesate e confuse che tutto avevano scommesso sullo showdown, pronti ad andare al voto anche con quel porcellum solo a parole vituperato ma assolutamente funzionale alle formazioni politiche populiste e leaderistiche.

Se si vuole avere contezza di ciò si può andare a quanto diceva ieri in TV Daniela Santaché, la quale affermava di aver votato la fiducia a Berlusconi e non a Letta e esprimeva disprezzo per i colleghi di partito “traditori” irriconoscenti al “Caro Leader” che li aveva “nominati” in parlamento.

Lo stessa intolleranza, lo stesso disprezzo dimostrati nei confronti della senatrice  Paola De Pin dai suoi colleghi 5 stelle perché colpevole di votare la fiducia in dissenso con il “Leader assente”.

C’è in queste parole tutta l’incapacità di comprendere l’essenza stessa della politica per quella che è, vale a dire la più alta forma di direzione delle cose umane e anche la più complessa.

La politica non si fa dando ordini ma discutendo posizioni diverse e portandole a sintesi se è possibile, oppure scegliendo secondo il principio della maggioranza e della minoranza che è l’essenza stessa della democrazia. Ieri nel PDL è avvenuto quello che fino a solo qualche settimana fa sembrava impossibile: si è sviluppato un vero dibattito politico tra posizioni diverse ed opposte. Il suo leader incontrastato, quello stesso che spesso ha tuonato contro il “teatrino della politica” è stato costretto ad una retromarcia degna dei più consumati “politicanti”.

Lo stesso avverrà quanto prima anche nel Movimento 5 Stelle: è solo questione di tempo.

Perché chi dissente non sempre è uno Scilipoti, un opportunista, un traditore, ma semplicemente uno che discute ed ha deciso di non mandare il proprio cervello all’ammasso.

La paura della DC

Molti hanno paventato nell’asse dei quarantenni Letta-Alfano il “ritorno della DC”.

Francamente non vedo perché dovrebbe fare paura ad ogni sincero democratico la nascita finalmente in Italia di un partito veramente moderato come esistono in tutta Europa e che generalmente fanno riferimento al PPE.

Sarebbe questa l’evoluzione più giusta per correggere l’anomalia populista berlusconiana, che il PPE per realpolitik ha tenuto comunque dentro di sé.

Anzi, e lo dice uno che democristiano non è mai stato, questa evoluzione sarebbe utile anche per completare la transizione del campo progressista, per fare finalmente in Italia un partito che non trova ragione di essere soltanto nel suo essere alternativo al berlusconismo.

Se la fase che si è aperta ieri servirà a far fare passi in avanti a questa evoluzione, ben venga.

Anzi, la sinistra, ora che non ha più l’alibi e la coperta ideologica del “nemico” sotto cui nascondersi, deve essere all’altezza di questa sfida e, come scrive giustamente Peppino Caldarola, deve essere in grado di trovare anche lei il suo “quid”.

 

Irresponsabili non solo verso il Paese ma anche verso se stessi e chi li ha votati.

La bella morte

Quanto è successo stasera con il ritiro della delegazione PDL dal Governo Letta è l’epilogo di una vicenda che sfugge ad ogni analisi politica.

Atteso che solo ingenui o in malafede possono credere alla motivazione data da Berlusconi per uscire dal Governo Letta (l’IVA aumenta perché Berlusconi ha aperto la crisi, non il contrario) ci troviamo di fronte ad uno scenario assai inquietante.

C’è un uomo, leader ventennale del centrodestra italiano che è stato condannato, a torto o a ragione (non ci interessa dibattere ancora su questo) in maniera comunque definitiva per un reato.

Quest’uomo, a prescindere da Giunte per le elezioni e voti d’aula, il 16 ottobre andrà o ai domiciliari o ai servizi sociali. La sua libertà personale sarà comunque limitata per un periodo abbastanza lungo. In ogni caso, con quella condanna, non potrà ricandidarsi alle elezioni e non potrà per un periodo di tempo anch’esso più o meno lungo, ricoprire cariche pubbliche.

Questa, può piacere o non piacere, è la nuda e cruda realtà. Una realtà che conoscono tutti, a cominciare dall’interessato passando per Alfano, Santachè, Brunetta, Cicchitto e Schifani.

Si può urlare quanto si vuole, dibattersi fino all’inverosimile, agitare lo spettro della persecuzione giudiziaria, ma nulla potrà cambiare questa realtà.

Ora, se è comprensibile che Berlusconi non voglia riconoscerla e magari dia anche di matto incomprensibile è l’atteggiamento dei suoi seguaci.

Questi non solo non si preoccupano di vedere come uscire dalla crisi terribile che il nostro Paese sta attraversando, ma neppure di come continuare a dare agli elettori di centrodestra una rappresentanza anche al di là delle vicende personali del loro leader.

Perché comunque in questo Paese ci dovrà essere un centrodestra che si confronta democraticamente con un centrosinistra, come avviene in tutto il resto del mondo.

Sia che preferiscano la “bella morte” nella ridotta di Arcore, sia che sperino in tardivi ripensamenti di un Capo che non comprendono più o, infine, perché sperano di portarsi a casa qualche pezzo di piccola e improbabile rendita di posizione politico-elettorale, stanno mandando tutto a puttane, compreso se stessi e quello stesso popolo di centrodestra che pure li aveva mandati a rappresentarli e a governare il Paese.

La Resistenza partì dal Sud 27-30 settembre 1943. Le quattro giornate di Napoli

Napoli, 27 settembre 1943

Pubblicato su “L’Ora della Calabria” del 28 settembre 2013, p. 33.

La Resistenza è stata spesso rappresentata come un fenomeno prevalentemente centro-settentrionale per la semplice circostanza che in quell’area geografica si verificarono gli episodi più significativi dello scontro con i fascisti della Repubblica di Salò e l’esercito tedesco di occupazione. Il Sud, invece, non conobbe la lotta partigiana perché occupato in gran parte dalle truppe alleate anglo-americane già nel settembre del 1943, e per la presenza del governo Badoglio e del re Vittorio Emanuele III.

Le settimane che vanno dalla fuga del re e del governo da Roma (8-9 settembre), gli sbarchi alleati a Salerno e a Taranto (9 settembre), la disperata resistenza di reparti dell’esercito italiano in difesa della capitale a Porta San Paolo (10 settembre), la liberazione di Mussolini dalla sua prigione sul Gran Sasso (12 settembre) e la costituzione della Repubblica di Salò (23 settembre), sono state ricordate come quelle in cui “la Patria morì”.

L’8 settembre fu, indubbiamente, il punto più basso della “catastrofe dell’Italia” e delle sue classi dirigenti. La fuga del re e del governo lasciò l’esercito italiano dislocato in Italia e nei vari teatri di guerra senza ordini e direttive, alla mercé dei tedeschi trasformati d’un tratto da alleati in nemici.

Infatti le trattative con gli alleati sbarcati in Sicilia il 10 luglio, avviate subito dopo la caduta di Mussolini (25 luglio), erano state condotte tra mille astuzie e bizantinismi. Vittorio Emanuele III e il primo ministro Pietro Badoglio dimostrarono di non avere alcuna consapevolezza di quanto il fascismo fosse inviso al popolo italiano e di quanto forte fosse il desiderio di porre fino ad una guerra disastrosa in cui la dittatura aveva trascinato un Paese riluttante e impreparato. Si preferì proseguire invece per settimane con la formula “la guerra continua a fianco dell’alleato germanico” senza impedire e addirittura favorendo l’occupazione della Penisola da parte dell’esercito tedesco e soprattutto senza predisporre, una volta firmato l’armistizio (2 settembre), un adeguato piano per difendersi dalla più che prevedibile reazione tedesca.

All’annuncio dell’ armistizio (anche questo proclamato da Badoglio con la formula ipocrita secondo la quale le truppe italiane avrebbero reagito “ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”) lo Stato cessò praticamente di esistere da un momento all’altro. Alla coscienza individuale di ciascun italiano fu lasciata la responsabilità di scegliere. Ci furono così coloro che colsero l’occasione per tornare a casa e altri che invece decisero di assumersi comunque la responsabilità per molti e per tutti, quelle responsabilità da cui il re e il governo erano invece fuggiti. Quelle responsabilità che seppe assumersi, tra i tanti in quei giorni e negli anni successivi,  Gennarino Capuozzo di appena 12 anni, uno scugnizzo morto  a Napoli il 29 settembre dopo aver tirato una bomba a mano contro un carro armato tedesco.

La scena del celebre film di Nanni Loy

In questo senso si può dire che le quattro giornate di Napoli rappresentarono il momento della scelta per un’intera popolazione. Ridotta ad un cumulo di macerie dai bombardamenti alleati, occupata dall’esercito tedesco che compiva quotidiani rastrellamenti per il lavoro forzato e la deportazione in Germania di tutti gli uomini validi e degli sbandati delle forze armate italiane, terrorizzata dalle feroci e indiscriminate rappresaglie, Napoli si sollevò come un solo uomo combattendo per quattro lunghe giornate contro un nemico armato ed organizzato e costringendolo ad abbandonare la città. Lo splendido film di Nanni Loy del 1962 (Le quattro giornate di Napoli) rappresenta bene il momento in cui tutti insieme, popolani e borghesi, vecchi e ragazzini, donne ed uomini, ex soldati e persino uomini di Chiesa decisero di ribellarsi e combattere.

La sera del 29 settembre il comandante tedesco di Napoli, il colonnello Walter Schöll, trattò la liberazione dei prigionieri italiani detenuti nello Stadio del Littorio ottenendo in cambio la possibilità di abbandonare la città. L’evacuazione delle truppe tedesche fu completata nella giornata del 30 anche se queste non rispettarono l’impegno a cessare le ostilità continuando a bombardare la città ed a sparare sugli insorti. Il 1 ottobre le truppe alleate entrarono in una città ormai liberata dai soldati tedeschi. Settant’anni fa. Per quanto accaduto tra il 27 ed il 30 settembre 1943 Napoli è medaglia d’oro della Resistenza italiana.

Ancora dal film di Nanni Loy

L’epilogo misero e rancoroso del berlusconismo.

silvio-berlusconi-preoccupato

Anch’io, come scrive lucidamente oggi Peppino Caldarola, ho sempre pensato che la storia di Berlusconi non possa essere derubricata ad una vicenda criminale e che la maggioranza del popolo italiano non può essere considerata una massa di ingenui o peggio delinquenti che nel principe dei criminali hanno trovato la loro naturale rappresentanza.

Anch’io ho sempre pensato che una sinistra moderna che voglia cambiare davvero le cose e produrre in Italia finalmente quella modernizzazione diventata ormai ineludibile debba rifuggire dalla logica ideologica dello scontro amico/nemico.

Anch’io ho sempre pensato che il berlusconismo è stata qualcosa di più profondo e complesso, che richiede un’analisi più seria di quella che si può esprimere nell’urlo scomposto o nell’invettiva nei talk show o sui social network. E tuttavia questa commedia popolata da nani, ballerine e improbabili comparse in cerca di autore, mi lascia sconcertato.

L’uomo di Arcore sta trascinando inesorabilmente se stesso e il suo partito (e temo anche il Paese) nel vortice di inconcludente rancore in cui evidentemente si dibatte da settimane.

Se ne sta lì, nel chiuso della sua villa, circondato da yesmen e yeswomen che continuano ad adularlo nella speranza di lucrare improbabili rendite di posizione politica o personale o da coloro che comunque non hanno il coraggio di dirgli che sta sbagliando tutto. Entrambi, c’è da star sicuri, girano le dita sulle tempie appena non vede, come si fa con i parenti che hanno perso il senno.

Da qui le ultime mosse: le dimissioni in massa dei parlamentari (ma non dei ministri) consegnate ai capigruppo, le sparate sul golpe, le proposte di occupazione delle Camere…propaganda dettata dal Capo che spera in un qualcosa che non esiste, che il Presidente della Repubblica, anche se volesse, non potrebbe mai concedere.

Il berlusconismo si avvia così ad un declino popolato di miserie e rancori, con l’effetto probabile che proprio quello che si era proclamato di voler realizzare sostenendo il governo Letta, la pacificazione e l’uscita politica da un ventennio fatto di contrapposizione violenta e di danni profondi al Paese, evapori nei vaneggiamenti di un vecchio che non vuole accettare la semplice realtà del tempo che passa.

Un cupio dissolvi popolato dalle facce di Brunetta e Santachè, candidati eredi del nulla.

L’ESSENZA DELL’ANTIPOLITICA

Antipolitica e populismo

L’essenza dell’antipolitica in fondo è semplice. Preferire ascoltarsi invece che ascoltare e giocare a chi grida più forte chiedendo conto sempre di tutto, soprattutto di ciò di cui non gli importa assolutamente nulla. Antipolitica significa, infatti, nascondersi dietro chi invece si assume le responsabilità prendendosi onori che solo in pochi gli riconosceranno ed oneri di cui in molti chiederanno conto.

11 settembre 1973. Quarant’anni dal golpe cileno.

Salvador Allende

L’11 settembre 1973 i militari cileni attaccarono il Palazzo della Moneda a Santiago e rovesciarono con un golpe il governo democratico del Presidente Salvador Allende.

Salvador Allende, socialista a capo di una coalizione di sinistra denominata Unidad Popular, morì difendendo il palazzo presidenziale, probabilmente suicida.

A capo del golpe c’era il generale Augusto Pinochet, che rimarrà al potere fino al 1988, travolto da un referendum popolare da lui stesso voluto con l’intenzione di confermare plebiscitariamente il suo regime.

La sua dittatura, sostenuta dagli USA di Richard Nixon nel clima della contrapposizione della guerra fredda, fu una delle più feroci della storia, con migliaia di arresti, omicidi di massa, persecuzioni, esili.

Oppositori politici rinchiusi nello stadio di SantiagoIl Palazzo del governo, la Moneda, bombardato

Il Cile, paese di tradizioni democratiche, fu proiettato nella spirale delle dittature che, tra gli anni ’60 e ’70, oppressero il Sudamerica in nome della difesa da una inesistente minaccia comunista.

La guerra fredda fece il resto, facendo prosperare in quel continente una pattuglia di tiranni sanguinari e corrotti sotto la protezione degli USA.

La vicenda del Cile ebbe, inoltre, una grande influenza sulla sinistra italiana: se la vittoria di Allende del 1970 aveva incoraggiato la speranza che un’alleanza social-comunista potesse vincere le elezioni e governare un paese democratico senza dover ricorrere ad una rivoluzione violenta, il golpe del 1973 ebbe, invece, l’effetto di uno shock.

Da una parte confermò la sfiducia di una parte della sinistra nelle cosiddette istituzioni “borghesi” spingendola verso la deriva estremista e addirittura eversiva che alimenterà le file del terrorismo, dall’altra convinse il segretario del PCI Enrico Berlinguer a impostare la strategia del compromesso storico, cioè un’alleanza vasta di forze politiche anche non di sinistra per riformare la democrazia, partendo dall’assunto che con il 51% non si governa.

Molti critici hanno inteso mettere in discussione soprattutto questo aspetto della politica berlingueriana, che proprio dalla tragica vicenda del golpe cileno trasse gran parte della sua elaborazione.

La strategia del compromesso storico non produsse effetti positivi sull’evoluzione della sinistra italiana, approfondì, anzi, la distanza tra PSI e PCI spingendo il primo sulla strada di un esasperato autonomismo e di una collocazione praticamente permanente nell’orbita di alleanze della DC.

Inoltre, per ammissione dello stesso Berlinguer, non si verificò neppure quella profonda riforma del Paese e del suo sistema politico ed istituzionale italiano di cui si avvertiva la necessità già a metà degli anni ’70.

Il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, che dalla sponda DC più aveva spinto in direzione dell’incontro con il PCI, ne segnò, drammaticamente la fine.

Di certo, tuttavia, i fatti del Cile ebbero l’effetto di rafforzare in Italia la convinzione che un’uscita dal sistema democratico sarebbe stato disastroso per tutti, moderati e progressisti.

Ecco perché credo valga la pena ricordarli ancora oggi a distanza di quarant’anni, quale monito a considerare la democrazia il bene più prezioso che non bisogna mai cessare di difendere.

I veri riformisti

Grillini sul tetto di montecitorio

I parlamentari 5 stelle sono saliti sul tetto di Montecitorio per protestare contro le possibili riforme costituzionali. Singolare che chi ha preso i voti per cambiare tutto oggi protesti per non cambiare niente, neanche la legge elettorale. In realtà sono veri riformisti: dal momento che il Parlamento fa acqua da tutte le parti sono andati ad aggiustare le grondaie.

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