L’incapacità di Berlusconi a comportarsi da vero leader
Chi ha la bontà di leggere le cose che ogni tanto scrivo sa che rispetto a Berlusconi non ho mai avuto alcun atteggiamento pregiudiziale o ideologico.
Per me resta un avversario politico che va battuto con l’arma della politica, cioè prendendo più voti di lui alle elezioni.
Ho sempre aborrito le scorciatoie giudiziarie e credo anche che, in qualche misura, su di lui un certo accanimento da parte di alcuni settori della magistratura c’è pure stato.
Aggiungo che anche questo è frutto dei suoi macroscopici errori politici. Se in questi anni, infatti, invece di procedere con leggine ad personam suggerite dai suoi avvocati, avesse invece perseguito, per il bene di tutti i cittadini, una profonda riforma della giustizia oggi non si troverebbe nelle condizioni in cui è. E magari tanti cittadini potrebbero oggi avere una giustizia che garantisce tutti, ricchi e poveri, potenti e deboli.
Ma il limite vero di Berlusconi è proprio questo, non sapere guardare oltre il ristretto orizzonte dei suoi interessi personali.
D’altro canto il suo è sempre stato un garantismo peloso, senza se e senza ma per sé e per i suoi, forcaiolo e giustizialista per gli avversari politici e per i poveri cristi.
Comunque oggi è stato condannato con sentenza definitiva. Le sentenze definitive, quando cioè sono stati espletati tutti i gradi di giudizio previsti dal nostro ordinamento nel pieno delle garanzie di uno stato di diritto, possono anche non piacere, si possono anche discutere, ma si devono rispettare. Ciò vale per tutti i cittadini ma vale soprattutto per chi ricopre incarichi politici.
Un vero leader politico che ha davvero a cuore i destini del suo Paese e della sua stessa parte politica dovrebbe, a questo punto, fare la cosa più giusta, mettersi da parte e favorire l’apertura di una nuova fase.
Ma così non è: da settimane si assiste, invece, a questo teatrino attorno al voto in Commissione per la sua decadenza da senatore e alle minacce di ritorsione sul governo Letta.
Si tratta, è bene ribadirlo, di questione alla fine ininfluente sul piano pratico: anche un voto contrario alla sua immediata decadenza non cancellerebbe la condanna e la pena che dovrà comunque scontare e, dopo la riformulazione di quella accessoria da parte della Corte d’Appello di Milano, la stessa questione si ripresenterebbe nei medesimi termini.
Persino l’eventuale ricorso alla Consulta sulla presunta incostituzionalità della retroattività della sentenza sarebbe ininfluente, perché non cancellerebbe né la condanna né la pena accessoria. E comunque Berlusconi, alle prossime elezioni, non è ricandidabile. Se ne facciano una ragione tutti, pitonesse e paggi.
Da parte sua il PD dovrebbe fare come si fa con certi vecchi molesti, che non vogliono proprio saperne di accettare la realtà. Ricorra pure alla Consulta, all’ONU e persino al Consiglio della Galassia. Primo o poi qualcuno troverà il coraggio di dirgli che sta sulle balle proprio a tutti, compresi quelli che gli gridano ancora “forza Silvio”.
La fine di un sogno. Storia di un Italiano di Mario Aloe.
Ho terminato di leggere in questi giorni un breve ma intenso romanzo di un autore di Amantea, Mario Aloe, pubblicato con i tipi delle edizioni Mannarino.
Il romanzo, intitolato La fine di un sogno. Storia di un Italiano, narra la vita di un giovane amanteano vissuto nel passaggio cruciale tra il XVIII ed il XIX secolo, figlio di una famiglia di piccola nobiltà provinciale che, attraverso la intraprendenza commerciale, è riuscita a consolidare una buona posizione economica in una realtà dove spesso i titoli nobiliari erano sinonimi di vita parassitaria sulle scarse rendite fondiarie.
Luigi Baffa, è questo il nome del protagonista, riesce così a studiare a Cosenza al Regio Collegio che Carlo III aveva fondato dopo l’espulsione dei gesuiti dal regno e poi a completare i propri studi a Napoli all’accademia militare della Nunziatella.
Il romanzo mostra come il giovane calabrese incontri, nel clima di rinnovamento che l’arrivo di Carlo III di Borbone era riuscito a instaurare nel regno, l’intellettualità illuminista che, com’è noto, proprio nella capitale del Sud ebbe uno dei suoi centri italiani più fiorenti.
Mario Aloe riesce bene a descriverci il clima politico e culturale di quegli anni, fervido di speranze che il regno di Napoli potesse diventare quella monarchia nazionale in grado di giocare un ruolo di primo piano negli equilibri politici e diplomatici non solo della Penisola ma dell’intera Europa.
Nello stesso tempo ci dà il quadro esatto e accurato storicamente di come fosse la Calabria tra Settecento ed Ottocento: una regione con isole culturali di primordine come Cosenza ma priva di strade praticabili, costellata da paludi malsane e coperta di foreste infestate da briganti che rendevano incerte e sempre pericolose le comunicazioni interne, schiacciata sotto lo strapotere di baroni che sfruttavano una massa di contadini costretti ai livelli minimi di sopravvivenza di una agricoltura poverissima e primitiva.
La questione della terra, dei diritti contadini sulle terre demaniali usurpate da questa classe di nuovi feudatari, la mancanza di legge ed autorità rispettate e la prevalenza dell’arbitrio sul diritto, rappresenta lo sfondo del romanzo il cui intreccio tra vicende individuali (con la presenza di tanti personaggi realmente esistiti, come il fondatore della massoneria in Calabria, l’abate Jerocades, il Salfi, il Toscano, la duchessa di Sanfelice, la Pimentel Fonseca, l’ammiraglio Caracciolo, ecc.) e fatti storici (il terribile terremoto del 1783 e le sue conseguenze, le guerre contro la Francia rivoluzionaria e le armate portate in Italia dal giovanissimo generale Bonaparte, l’effimera e drammatica esperienza della repubblica partenopea del 1799 spazzata via dalle masse sanfediste del Cardinale Ruffo, l’eroico episodio del forte della Vigliena in cui i calabresi della Legione Calabra comandati dal cosentino Antonio Toscano preferirono farsi saltare in aria pur di non cedere alla restaurazione assolutista borbonica, ecc.) e ne sono, a mio parere, l’elemento più interessante e significativo.
Si aggiungano le straordinarie descrizioni dei luoghi e dei costumi e ne viene fuori un romanzo che vale la pena di leggere e far conoscere.
Un romanzo storico che, e ciò va a merito dell’autore, ci riporta un quadro realistico e verosimile di come, agli albori del nostro Risorgimento nazionale, una intera generazione imparò, anche a costo della propria vita, ad essere italiana ed europea.
Una generazione che i Borbone di Napoli prima incoraggiarono sulla strada del rinnovamento e della modernizzazione e poi, come maldestri apprendisti stregoni, non riuscirono più a controllare mandandola al patibolo senza alcuna remora e pietà.
Prevalsero in quella casa regnante, come in tante altre in tutta Europa, i propri ristretti interessi dinastici.
Per quella generazione un’occasione perduta, la fine di un sogno per il quale bisognerà attendere ancora altri sessant’anni e a vantaggio di un’altra dinastia, quella subalpina dei Savoia.
Per i Borbone, come per altre dinastie italiane ed europee, la perdita dei regni e del potere e l’oblio della storia.
Una ricostruzione quella di Mario Aloe, lasciatemelo dire, che fa giustizia di tante altre, parziali ed esplicitamente revisioniste, che ci descrivono un Regno delle Due Sicilie come un esempio di buona amministrazione per popolazioni ricche e felici almeno fino all’arrivo dei cattivi “piemontesi”.
La storia, nella sua drammaticità, ci parla invece di un Sud e di una Calabria pronti a recepire le grandi idee di cambiamento del mondo ma anche di classi dirigenti miopi e grette, incapaci di guardare al di là dei propri ristrettissimi interessi di classe, di popolazioni contadine disperate nella loro richiesta di terra e migliori condizioni di vita e di lavoro e costrette spesso alla tragica ed individuale rivolta della vita alla macchia come briganti e anche in questa condizione, spesso ingannate nella difesa di interessi non propri.
Un bel libro, dunque, di cui mi sento di consigliare la lettura.
Il caso Del Turco deve farci riflettere tutti…
Non voglio aggiungere nulla a quanti, molto più autorevoli di me, hanno espresso forti dubbi sulla condanna subita da Ottaviano Del Turco.
Basti qui ricordare ciò che tanti hanno detto: una condanna senza prove, basata solo sulle dichiarazioni dell’accusatore, con lo stesso Del Turco che prima era stato accusato di aver chiesto soldi all’accusatore e, a fine processo, di essere stato da quello stesso accusatore, corrotto.
Un processo che ha provocato la caduta di un’amministrazione regionale, con l’arresto del suo Presidente tenuto in carcerazione preventiva per 28 lunghi giorni, con una Procura che dichiarava ai quattro venti di avere raccolto sull’ipotesi di reato della concussione (poi mutata a fine processo, in corruzione) prove “schiaccianti”.
Si aggiunga che l’accusatore, un imprenditore della sanità privata abruzzese, ha collezionato negli anni successivi, una serie di imputazioni che ne hanno minato sensibilmente la credibilità.
Chi ha seguito il processo ha visto questa montagna di prove sciogliersi come neve al sole, la cosiddetta prova regina, quella della foto del famoso cesto di mele pieno di soldi, si è dimostrata un clamoroso e maldestro falso e soprattutto non è stata trovata nessuna traccia dei soldi delle presunte tangenti milionarie che sarebbero state pagate a Del Turco.
In qualunque paese del mondo dove vige il principio elementare che per condannare una persona debbano esistere prove e riscontri che vadano “al di là di ogni ragionevole dubbio”, Del Turco avrebbe dovuto essere assolto con tante scuse e con formula piena.
Eppure Del Turco è stato condannato, anche se continuo a confidare nei prossimi gradi di giudizio.
Tuttavia è questa condanna, sia pure in primo grado, che costituisce di per sé un punto nodale sul quale occorre che tutti riflettano e fino in fondo.
Non è un problema che riguarda la diatriba tra giustizialisti e garantisti, è qualcosa di più profondo e, se vogliamo, più drammatico.
Qualcosa che prescinde la persona di Del Turco il quale ha almeno buoni avvocati con i quali difendersi anche nei prossimi gradi di giudizio, e la consolazione di avere attorno a sé un certo numero di persone che lo stimano, lo difendono e gli esprimono solidarietà anche pubblicamente.
Il caso Del Turco ci dice che in Italia è, troppo spesso sufficiente che qualcuno vada in Procura, elevi delle accuse contro un altro, non importa se vere o false, fantasiose o concrete, perché queste accuse diventino di per sé elementi di prova.
Da qui l’innesco di un meccanismo che porta prima all’emissione di misure cautelari con un gip che dà il suo assenso ad una richiesta di arresto preventivo pur in assenza palese delle circostanze che lo motivano, poi un gup che dà il via ad un processo nonostante la mancanza di riscontri oggettivi e, infine, un collegio giudicante che, nonostante il dibattimento che è, come mi insegnano i giuristi, il cuore del processo, dimostri l’assoluta infondatezza dell’impianto accusatorio, fa proprie fino in fondo le tesi dell’accusa che si basano solo su quanto dichiarato da quel singolo accusatore.
Casi simili si verificano, purtroppo, sempre più spesso, e riguardano tantissime persone, meno note di Del Turco, che vengono risucchiate in un vortice da cui spesso non riescono ad uscire.
Nessuna persona, dotata di un minimo senso di umanità, può accettare che una sola di queste aberrazioni possa continuare o ripetersi.
In uno Stato di diritto solo i colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio possono essere condannati, se quel ragionevole dubbio persiste, dicono autorevoli giuristi, per il sistema è molto meglio un colpevole impunito che un innocente punito ingiustamente.
Qui è il nodo che, purtroppo, dal caso Tortora, quindi molto prima dell’era del garantismo peloso di Berlusconi, è rimasto insoluto nella giustizia italiana.
Negare che non è utile alla giustizia che lo stesso magistrato svolga nel corso della sua carriera funzioni completamente diverse, inquirenti e giudicanti, spesso senza soluzioni di continuità e nelle stesse sedi per molti anni, è una grande ipocrisia.
Ciò deve portare alla separazione delle carriere ? In altri paesi separate lo sono e non fa scandalo, ma se non si vuole pervenire a questa soluzione sulla quale è in corso una discussione che, come spesso accade in Italia, si ammanta di ideologia, almeno si fissino regole precise sulla separazione delle funzioni.
Si affronti, infine, anche qui senza ideologia, il tema del superamento di certo spirito corporativo della magistratura pervenendo, in qualche modo, al principio della responsabilità civile del magistrati laddove sussistano elementi incontrovertibili “di dolo e colpa grave” nell’errore giudiziario.
Quello della responsabilità, infatti, è un tema decisivo, fondamentale in uno Stato di diritto.
In quale società può esistere una categoria che praticamente non è assolutamente perseguibile per gli errori che commette nell’esercizio delle sue funzioni ?
Perché ciò che vale per impiegati, funzionari, dirigenti della PA, membri delle forze armate e degli apparati di sicurezza, medici, primari, infermieri, politici e amministratori ecc. non deve valere per chi amministra quotidianamente la giustizia ?
Sono domande semplici che meriterebbero risposte semplici.
Ma in questo nostro straordinario Paese le cose semplici sono, quasi sempre, le più difficili da fare.
Sbagliato dedicare una via a Ferdinando II di Borbone.
Pubblicato su “Calabria Ora” del 14 Luglio 2013
Leggo della intenzione del Comune di Montalto Uffugo di voler dedicare, su proposta della delegazione locale dell’Associazione Nazionale Neoborbonica, una strada a Ferdinando II di Borbone.
La proposta mi sembra discutibile, non tanto per la volontà espressa di ricordare nella toponomastica di un Comune una dinastia che ha avuto certamente grande importanza nella storia italiana e segnatamente del Mezzogiorno, ma per la scelta proprio di uno dei suoi esponenti più discussi e sul quale il giudizio degli storici è, abbastanza largamente, negativo.
Ferdinando II, checché ne dica certa vulgata storiografica piuttosto recente, alimentata da un minoritario sentimento che definirei da “leghismo rovesciato” che tende a negare il valore storico del Risorgimento italiano, non fu certamente un buon governante per il popolo meridionale, anzi.
Se nella prima fase del suo trentennale regno sembrò voler introdurre processi di modernizzazione e di dinamismo, il suo viscerale antigiacobinismo, la tendenza personale alla sospettosità e all’egocentrismo (unita anche ad una religiosità a tratti irrazionale e supersitiziosa) lo portò a compiere scelte che chiusero il regno alle innovazioni politiche, economiche e sociali che invece stavano cambiando dovunque la società italiana ed europea.
Rimase prigioniero di una visione reazionaria, asfittica, figlia degli equilibri assolutamente precari scaturiti dal Congresso di Vienna dopo la fine dell’età napoleonica che si era illuso di riportare indietro per decreto le lancette della storia.
Affermare che il Regno delle Due Sicilie fosse una sorta di paese del Bengodi, un’epoca felice dal punto di vista economico e sociale, significa dire una straordinaria bugia. Il popolo meridionale sotto Ferdinando II viveva, nella sua stragrande maggioranza, di un’agricoltura appena superiore alla sussistenza.
Le promesse di risoluzione del secolare problema della terra fatte proprio dai predecessori di Ferdinando, non solo non avevano avuto alcuna risposta ma, nella maggioranza dei casi, avevano semplicemente legittimato decenni e decenni di usurpazioni di terre demaniali destinate agli usi civici delle diverse comunità calabresi, da parte di una classe di nuovi “baroni” che erano stati gli unici beneficiari delle leggi di eversione dalla feudalità varate sotto l’occupazione francese.
E’ pur vero che dopo l’Unità molti di questi problemi rimasero aperti (la questione della terra sarà risolta solo dopo la seconda guerra mondiale) ma le loro radici erano profondamente intrecciate alla storia di un Mezzogiorno che, a prescindere dai suoi governanti, viveva una condizione di profonda marginalità economica e sociale.
Anche certa mitologia su un presunto sviluppo industriale del Sud “bloccato” dai cattivi piemontesi va fortemente ridimensionata: se è vero che alcuni centri industriali come quello vibonese furono chiusi dopo l’Unità perché incapaci di reggere la concorrenza con gli stabilimenti di altre parti del paese, la loro importanza non va esagerata perché si trattava di impianti molto modesti in un contesto economico in cui lo Stato, per scelta politica, continuava a basare quasi esclusivamente la sua economia sull’agricoltura e l’esportazione di alcuni prodotti di eccellenza (olio, vino, agrumi) e all’importazione di prodotti industriali finiti soprattutto dalla Gran Bretagna.
Il Regno delle Due Sicilie aveva un livello di tassazione piuttosto basso che gravava comunque in grande misura sulla parte più povera della popolazione attraverso balzelli piuttosto odiosi, come quello sul sale, elemento fondamentale per la conservazione alimentare e quindi particolarmente odiato soprattutto dalla popolazione contadina. Nello stesso tempo aveva una spesa pubblica praticamente inesistente.
Gli unici investimenti andavano alla marina mercantile e militare (e all’esercito in generale, che si basava essenzialmente su alcuni reparti mercenari), rinunciando alla costruzione di una rete ferroviaria efficiente e all’estensione della viabilità ordinaria.
La Calabria praticamente non aveva strade (se si esclude la consolare Campotenese-Villa San Giovanni ammodernata dai francesi e tracciata sulla millenaria Via Popilia) così che per portare merci da Paola a Rossano si preferiva mandarle per nave attraverso lo Stretto.
Negli stessi anni in cui in tutta Europa e anche in alcuni stati italiani si varavano leggi sulla istruzione elementare obbligatoria nel Regno delle Due Sicilie i livelli di analfabetismo toccavano e superavano il 90 % della popolazione.
Per mantenere il consenso soprattutto nei ceti popolari della città di Napoli si procedeva, di tanto in tanto, alla distribuzione di pane e generi alimentari o a qualche festa in cui il re amava mostrarsi come paterno e generoso benefattore.
Dall’altro lato ogni forma di dissenso, soprattutto nei ceti intellettuali (che Ferdinando definiva “pennaiuoli”), veniva punito con la galera, i lavori forzati, la forca e le fucilazioni.
Che dire poi di un re che, dopo essere stato costretto a concedere la Costituzione (gennaio 1848), non esitò a far bombardare Napoli, la sua capitale, e a sciogliere il Parlamento eletto con la forza delle armi (maggio 1848) ?
Un re superstizioso e antimoderno, incapace di accogliere critiche e osservazioni e quindi inevitabilmente circondato da adulatori e inetti, comunque incapaci di dirgli la verità.
Fu questa sua sospettosità, unita ad una forte dosa di superstiziosa sfiducia nei medici, che lo portò alla morte per una banale infezione inguinale.
Non è un caso che il sistema che si era fino ad allora retto sulla sua comunque forte personalità, su una autocrazia incapace di riformarsi e di aprirsi, crollerà in pochi mesi per via di una iniziativa militare che, sia pure improvvisata, era dotata di un capo militarmente e politicamente determinato come Garibaldi.
Dedicare quindi una strada a Re Bomba (l’”affettuoso” nomignolo con il quale Ferdinando fu apostrofato dopo i fatti del 1848) mi sembra, quindi, una idea sbagliata.
Se si vuole invece onorare la memoria di una dinastia un altro dovrebbe essere il re a cui dedicare una strada: Carlo III che, nella prima metà del ‘700 seppe fare del Regno di Napoli uno stato importante nell’Europa del tempo, il primo a modernizzarsi e a dotarsi di una burocrazia basata sul merito e non più sui vecchi privilegi aristocratici.
Uno stato avanzato sul piano politico e culturale, capace di legarsi, sul piano internazionale, alle spinte innovative provenienti da altre nazioni europee. Una politica che i successori di Carlo III, l’intelligente ma ignorante e indolente Ferdinando IV (poi Ferdinando I delle Due Sicilie), l’incolore Francesco I e il nostro Ferdinando II, non seppero o non vollero portare avanti.
Preferirono non comprendere il vento della storia sviluppatosi dopo la rivoluzione francese che andava nella direzione opposta a quella da loro scelta.
Invece di puntare a diventare una moderna monarchia liberale e costituzionale si rinchiusero in un antigiacobinismo inconcludente e reazionario insieme a paesi come la Russia degli zar e dei servi della gleba.
La storia non si fa con i se, ma probabilmente, per il peso territoriale e demografico che il Regno delle Due Sicilie aveva nell’Italia ottocentesca, l’Unità avrebbero potuta farla i Borbone e non i Savoia che fino al 1848 non erano stati meno reazionari di loro, anzi. E forse anche per colpa della loro miopia politica, il Sud d’Italia perse un’altra delle sue occasioni storiche.
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Articolo su Ferdinando II pdf Calabria Ora del 14 luglio 2013
Egitto, la via stretta e lunga per la democrazia tra autoritarismo e integralismo islamico…
Diciamoci la verità, ciò che è successo in Egitto non è certamente un fatto normale per una democrazia normale. Un Presidente regolarmente eletto è stato deposto e messo agli arresti dalle forze armate che hanno sospeso la Costituzione e nominato un governo provvisorio in seguito ad una serie di manifestazioni di massa nei centri più importanti di quel paese.
Questa semplice cronaca dei fatti ci dà la misura di come il rapporto tra democrazia e cittadini nel mondo arabo (e islamico in generale) resti un problema in gran parte aperto.
Questo quadro ci viene confermato anche dalla vicenda della Turchia, paese islamico ma non arabo, dove il governo del Presidente Erdogan non riesce a fronteggiare una forte protesta di piazza cheda mesi ne contesta la politica giudicata, in generale, troppo filoislamica e in contrasto con la tradizione laica del Paese fondato da Ataturk.
Entrambe le proteste, pur se sviluppatesi in contesti economici e sociali ben diversi, pongono al centro la questione della modernizzazione dei propri paesi e l’insofferenza per una politica che, in forme differenti, cerca di utilizzare come instrumentum regni la questione religiosa.
Non deve quindi sorprendere che le folle delle piazze egiziane oggi inneggino alle forze armate, le stesse che avevano sostenuto per lunghi anni Mubarak (dai tempi di Nasser in Egitto i governanti vengono dai ranghi dell’esercito) deponendolo sempre in seguito alle pressioni della piazza quando questi era diventato indifendibile e favorendo lo svolgimento di elezioni che avevano dato la maggioranza ad un esponente di uno dei più antichi partiti egiziani, quello dei Fratelli Musulmani (fondato nel 1928), una formazione islamico-integralista con ramificazioni in tutto il mondo arabo.
I Fratelli Musulmani erano stati costretti alla clandestinità da Nasser e una delle sue correnti più estremiste fu risucchiata in pratiche terroristiche, arrivando persino ad assassinare nel 1981 il Presidente Sadat. Durante il governo Mubarak ne fu consentita la vita legale e la partecipazione alle elezioni (assai poco democratiche, in verità) in coalizioni con altre forze dell’opposizione ufficiale al regime.
La fine del regime di Mubarak insieme a quello di altri paesi del mondo arabo, passando per la sanguinosa guerra civile ancora in corso in Siria, hanno messo in evidenza il nodo gordiano della situazione politica e sociale della sponda sud del Mediterraneo.
Da una parte c’è una società civile, soprattutto giovani, che sono insofferenti sia ai vecchi regimi autoritari e corrotti che pure avevano garantito nel bene e nel male la modernizzazione di quei paesi, sia nei confronti di quelle forze politiche espressione del tradizionale fondamentalismo islamico che pure continua (è bene non dimenticarlo) ad avere caratteri di massa in quelle società.
In Egitto questi giovani oggi applaudono alle forze armate che, forse con un certo opportunismo, hanno inteso sostenere le loro rivendicazioni.
I giovani di quell’area sembrano aver compreso la direzione giusta ma devono fare i conti sia con un vecchio mondo autoritario e corrotto che cerca di riciclarsi sotto altre forme, sia con gli estremismi integralisti che usano la religione islamica come strumento di lotta politica e per l’affermazione di nuove forme di dominio e sopraffazione.
La strada per la democrazia è dunque ancora lunga e stretta e tuttavia non si può fare a meno di auspicare che venga percorsa fino in fondo.
Cinquecento anni da Il Principe di Machiavelli e scoprire che da esso poco si è imparato finora…
Tra il luglio e il novembre del 1513 Niccolò Machavelli, diplomatico repubblicano ormai estromesso dalla vita politica di Firenze dal ritorno dei Medici, scrisse Il Principe.
Quello che sarebbe diventata l’opera fondamentale della politica moderna fu scritto di getto da un uomo politicamente tagliato fuori dalle vicende storiche del suo tempo.
Un’opera di cui spesso si è discusso senza leggerla, soprattutto per stigmatizzarla, per la nota affermazione de “il fine giustifica i mezzi” che, tra l’altro Machiavelli non ha mai pronunciato.
Lo stesso termine “machiavellismo” è diventato sinonimo di opportunismo politico.
Nulla di più distante dal pensiero del Nostro, il quale, se rimprovero può essergli mosso, è solo quello di essere uomo di crudo realismo e di lettore attento del suo tempo.
Machiavelli non ci dice che il fine giustifica i mezzi ma rileva semplicemente che l’agire politico non può essere subordinato ad un sistema di valori esterno alla politica stessa che si presenta nient’altro che come una scienza umana retta, appunto, da iuxta propria principia, come diceva il suo contemporaneo Bernardino Telesio.
Certo al tempo di Machiavelli la politica si esprimeva attraverso l’agire concreto di re e principi i quali, pur proclamandosi cristianissimi e cattolicissimi, praticavano nell’agire politico ogni nefandezza pur di mantenere il proprio potere ed accrescere la potenza dei propri stati.
Il diplomatico fiorentino, che con quella politica era venuto a contatto guardandola da vicino, si limita a fornire un quadro realistico di essa, individuando modelli di comportamento e interrogandosi sulla natura del potere, sulle azioni che un principe accorto deve intraprendere per mantenere il suo principato, sul modo come comportarsi nei confronti dei sudditi, su come evitare i rovesci della “fortuna”, cioè quella serie di fattori contingenti, diremmo oggi, che spesso condizionano lo sviluppo della politica nella storia.
Al fondo c’è un forte pessimismo sulla natura umana, giudicata di in sé né buona né cattiva anche se il buon governante deve partire dal presupposto che l’uomo spesso è portato più al male che al bene nel suo agire quotidiano.
L’ideale politico di Machiavelli resta però la repubblica, in particolare la repubblica romana, in cui i cittadini sono sottoposti alla legge e dove il governo è della legge non dei singoli. Ma la realtà del suo tempo era ben diversa e drammatica.
In questo Machiavelli non è dissimile da Tommaso Moro che, di fronte alla crudele realtà della politica del suo tempo (che alla fine lo ucciderà) disegna un ideale di stato con la sua Utopia (o come il nostro Campanella con la Città del Sole).
In assenza di un sistema statale in cui la legge prevalga sull’arbitrio anche dello stesso principe (si farà una rivoluzione in Francia due secoli dopo proprio per affermare questo principio) Machiavelli esamina la politica per quella che è e cerca di fare in modo che l’agire dei governanti sia almeno retto da principi di buon senso e dalla necessità di fare il bene dei propri sudditi.
Siamo ancora lontani da Max Weber e dalla sua “etica della responsabilità”, ma il principio moderno per cui la politica non si riduca al solo esercizio e mantenimento del potere ma si ponga come strumento in grado di dirigere le cose umane per soddisfare esigenze collettive mi sembra già enunciato.
In questo senso l’agire politico non può essere sottoposto a nessuna visione ideologica, di qualsiasi segno sia (religiosa, etnica, politica, ecc..) ma seguire regole proprie che trovano la loro ragione nella responsabilità verso il bene comune e collettivo dei cittadini.
Quando la politica comincia a rispondere a dimensioni ideologiche esterne ad essa i danni per la collettività sono sempre terribili e provocano orrori.
Spiace rilevare che la lezione machiavelliana (e di tutti coloro che l’hanno seguito) sia ancora oggi disconosciuta.
Purtroppo assistiamo da una parte allo spettacolo di una politica che, di frequente, persegue solo l’opportunistico mantenimento di un potere fine a se stesso, dall’altra la solita ed ideologica denuncia moralistica che non solo è incapace di compiere un’analisi realistica dei problemi sociali e della maniera con la quale è possibile dare ad essi risposte concrete, ma che spesso non fa altro che spianare la strada a nuovi e più forti opportunismi politico-ideologici non di rado peggiori di quelli contro i quali si era levata.
Una politica che sia in grado di leggere la realtà, interpretarla e governarla senza farsi condizionare da chiacchiere ideologiche e che sia in grado di dirigere davvero le cose umane senza rincorrere le farfalle sotto l’arco di Tito resta, soprattutto in Italia, ancora un’utopia.
Far diventare la Santaché un caso politico mi sembra una gran stupidaggine…
Chi scrive non ha in alcuna simpatia Daniela Santaché.
Per farvi capire come la penso si potrebbe dire che la Santaché sta a Berlusconi come Goebbels e la moglie Marta stavano ad Hitler.
Tuttavia aver fatto diventare la sua elezione ad una carica, diciamoci la verità, assolutamente secondaria come la vicepresidenza della Camera un fatto politico (alzino la mano quelli che sanno chi sono o addirittura quanti sono i vicepresidenti della Camera), mi sembra il classico espediente di sparare in alto nel tentativo di colpire altrove.
L’obiettivo è il governo Letta ? Beh, se fosse questo, non capisco perché la crisi dovremmo aprirla sulla Santaché e non magari, ad esempio, su quali ricette proporre per la lotta alla disoccupazione.
Sarebbe più dignitoso e credo proprio che agli italiani interesserebbe di più.
Il buon senso sulla legge elettorale…
Se fossimo un partito serio avremmo già detto sì nella passata legislatura ad una proposta di riforma della legge elettorale che prevedesse le preferenze, con la significativa correzione della doppia preferenza di genere.
Se fossimo un partito serio avremmo, ad esempio, fatto un minimo di analisi del voto confrontando innanzitutto le regionali con le politiche (si votò nello stesso giorno, ricordate ?) e queste ancora con le amministrative di un mese fa, scoprendo, ad esempio, che laddove si vota con le preferenze il PD prende più voti e forze come quella di Grillo si riducono all’inconsistenza.
D’altro canto voi tutti li votereste in una lista gente come Crimi e Lombardi e almeno l’80% dei candidati grillini messi lì apposta perché anonimi e votati a stare zitti tanto parla sempre il “guru” ?
O forse Berlusconi avrebbe potuto avere quella rimonta che poi ha avuto, se il carattere populistico della sua proposta politica fosse stato depotenziato sul territorio da una miriade di candidati forti e radicati ?
Ma il voto con le preferenze ha anche un altro vantaggio: rende necessari i partiti che abbiano un minimo di organizzazione sul territorio, un minimo di radicamento, con gruppi dirigenti locali che nelle scelte hanno la possibilità di contare e pesare.
Ciò avviene in tutte le democrazie del mondo.
Il PD e l’Italia hanno bisogno come il pane di una democrazia che si nutra dal basso, in cui le classi dirigenti si misurano nel fuoco delle dinamiche politiche locali e siano poi in grado di ridurle a sintesi nelle istituzioni nazionali. Se invece i gruppi dirigenti sono selezionati dall’alto sulla base della fedeltà a questo o a quel dirigente, quale politica si potrà mai condurre rispetto ad interessi più ampi e anche più alti del Paese ?
Questi obiettivi, intendiamoci, sono raggiungibili anche con i collegi uninominali a condizione che le candidature siano anch’esse selezionate dai territori in un rapporto virtuoso con il centro di direzione politica nazionale, senza trascurare, anche qui, la necessità di costruire meccanismi che garantiscano la rappresentanza di genere rifuggendo dalle stupidaggini delle cosiddette “quote rosa”.
La storia delle candidature dei collegi uninominali del “mattarellum” purtroppo, questa impostazione, per chi non ha memoria corta, troppo spesso non l’ha rispettata.
Ma questo ragionamento di semplice buon senso non alberga in tanti e troppi dirigenti del PD, che con il “porcellum” si sono costruiti le filiere correntizie (e poi ci fanno le lezioni sui “capibastone”, sic !) con l’aggravante che sono correnti costruite senza neppure il consenso popolare.
Un ragionamento che fa il paio con gli interessi autoconservativi di tanti parlamentari senza voti (e spesso senza testa) che il porcellum lo difenderebbero fino alla morte, a prescindere da certe tirate propagandistiche.
Ora incombe la Consulta che dovrà pronunciarsi su una sentenza della Cassazione che ha detto quello che il buon senso ci diceva da tempo: non è democratica una legge che assegna un premio abnorme di maggioranza senza un minimo di soglia e dove i parlamentari non sono scelti dai cittadini ma da chi compila l’ordine delle liste.
Buon senso vorrebbe cambiare questa legge subito.
Buon senso vorrebbe che il PD non si opponesse alle preferenze per il semplice fatto che è un meccanismo che gli conviene.
Buon senso vorrebbe non aver paura della democrazia ma sostenerla sempre e comunque.
Ma di buon senso se ne vede in giro ?
Il Movimento 5 stelle è ormai come la Fattoria degli Animali di Orwell.
Forse non è chiaro ai più quello che sta succedendo nel Movimento di Grillo.
Se si caccia una senatrice dal movimento per la sola colpa di avere criticato il “Capo” non ci troviamo soltanto di fronte ad un problema di garanzie di democrazie interna.
Siamo all’essenza dello stalinismo, quello che George Orwell denunciò nella Fattoria degli Animali.
A seguire il dibattito interno dei grillini ci sembra di rivedere i personaggi del racconto orwelliano.
Grillo è Napoleon, il verro che “voleva avere sempre ragione”.
Vito Crimi e la Lombardi e tanti altri che non fanno che ripetere il Verbo del Capo, sono come il maiale Clarinetto, il propagandista che prende per i fondelli gli animali raccontandogli fandonie a cui non crede neppure lui.
Le pecore che ripetono gli slogan sono i presunti iscritti della rete, dove non si fa che ripetere ossessivamente la volontà del Capo, per zittire i dubbiosi e per smentire tutti coloro che pongono dubbi sul fatto che della rivoluzione annunciata ai quattro venti non si intravede neppure l’ombra.
Mancano ancora i cani, che nel racconto orwelliano rappresentavano la polizia e la NKVD, ma penso che Casaleggio si stia attrezzando anche in questo senso, magari dotando di qualche arma i responsabili della comunicazione messi a tutela dei gruppi parlamentari contro i cattivi giornalisti, che so, un laser che secchi la lingua del deputato nello stesso istante in cui si trova nel raggio di almeno 10 metri da un microfono !!!
Mai nella storia della politica italiana ci siamo trovati di fronte ad uno schema simile, incapace persino di cogliere il senso del ridicolo che questi episodi suscitano.
Per Grillo, come si è capito, vale la democrazia dell’articolo quinto, chi ha la mano ha vinto.
Per chi lo ha seguito in buona fede resta il dilemma se essere come l’asino Benjamin, l’unico animale ad aver conservato il proprio senso critico nel generale conformismo, o come il povero Gondrano, il cavallo stakanovista sincero sostenitore di una rivoluzione e che alla fine della sua vita invece di premiarne la devozione, lo manderà al macello per trasformarlo in colla.
La seconda guerra mondiale secondo Antony Beevor
Ci sono libri che meritano di essere letti anche quando parlano di argomenti sui quali si crede sia stato detto e scritto tutto ciò che c’era da dire e da scrivere.
Il prezioso volume di Antony Beevor, La seconda guerra mondiale. I sei anni che hanno cambiato la storia, edito da Rizzoli e uscito da poche settimane nelle librerie italiane, rappresenta un testo decisamente significativo, per la ricchezza della documentazione anche inedita che lo sorregge e per la leggerezza della scrittura che mantiene viva l’attenzione del lettore anche quando racconta particolari militari complessi.
Antony Beevor si conferma con quest’ultimo lavoro, uno dei migliori storici militari contemporanei, confermandosi scrittore capace di parlare ad un vasto pubblico di vicende storiche e militari anche complesse. Ricordo qui due suoi lavori assai interessanti come La guerra civile spagnola e Stalingrado che lo avevano fatto conoscere al pubblico internazionale.
Questa sua ultima fatica riesce a dare un quadro d’insieme di un fatto che sconvolse la vita di milioni di persone in praticamente tutte le latitudini del pianeta.
Beevor ci racconta la guerra dei grandi, di Churchill, di Stalin, di Roosvelt, di Hitler e Mussolini, ma anche quella degli oscuri ufficiali e soldati semplici proiettati sui fronti di guerra attraverso un sapiente innesto di documenti ufficiali e di diaristica.
La guerra ci appare così come il dramma collettivo e individuale di una umanità intera, uomini trascinati nei campi di battaglia, donne, bambini e anziani sterminati nei lager o nelle città bombardate, la tragedia degli stupri e persino del cannibalismo.
Scrive Beevor: “nessun altro periodo della storia offre una fonte di materiale tanto ricca per lo studio di dilemmi, tragedie individuali e collettive, corruzione del potere politico, ipocrisia ideologica, egocentrismo dei comandanti, tradimento, caparbietà, abnegazione, atti di incredibile sadismo e di imprevedibile compassione” (p. 988).
Non rappresentano così vezzi letterari i due episodi narrati dall’autore in premessa e a conclusione del suo lavoro.
La storia di un coscritto coreano, reclutato a forza dai giapponesi nel 1938, catturato dall’Armata Rossa nell’unica battaglia prima della guerra tra russi e nipponici (Khalkhin-Gol, in Mongolia 1939) e mandato in un campo di lavoro, arruolato ancora una volta dai sovietici nel 1942 per resistere all’invasione tedesca, catturato dai tedeschi nella battaglia di Char’kov in Ucraina e costretto a combattere contro gli americani che sbarcavano in Normandia nel 1944. Prigioniero in Gran Bretagna si trasferì dopo la fine della guerra negli USA per morirvi nell’Illinois nel 1992. Ma anche la storia di una donna, moglie di un agricoltore tedesco, che si era innamorata di un prigioniero francese assegnato alla loro fattoria in Germania con il quale aveva avuto una relazione. Alla fine della guerra aveva deciso di seguirlo in Francia nei treni che riportavano in patria i deportati in Germania, finendo però arrestata a Parigi.
Due storie diverse che rappresentano chiaramente il dramma degli uomini e delle donne semplici rispetto alle “soverchianti forze storiche” che ne cambiarono il destino.
Un libro straordinario dunque, di cui consiglio la lettura. Unico neo un Ciano definito “cognato” di Mussolini, forse un errore di traduzione che però nulla toglie a questo importante affresco di un periodo che ha davvero cambiato la storia del mondo.
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