Gabriele Petrone

Anche sul web libertà è libertà per gli altri.

Albert Camus

La scorsa settimana si è tenuto a Cosenza un interessante convegno che ha fatto il punto sulla cosiddetta “minaccia cibernetica e il diritto alla privacy” promosso dall’ordine degli ingegneri di Cosenza e dalla Fondazione Mediterranea per l’ingegneria.

Al tavolo dei relatori personalità assai diverse, dal politico ai tecnici fino al rappresentante delle forze dell’ordine e della sicurezza. Sono infatti intervenuti l’ing. Alessandro Astorino (Consigliere Ordine Ingegneri Cosenza), l’on. Enza Bruno Bossio (Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni – Camera dei Deputati), il Gen. C.A. Giorgio Cornacchione (Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri), l’ing. Angelo Valsecchi (Consigliere Nazionale Ordine Ingegneri d’Italia), il dott. Stefano Zireddu (Director Global Security e Cyber Crime Investigations Italy, American Express), il dott. Raffaele Barberio, Direttore di Key4biz, il Gen. Luigi Ramponi, Presidente del CESTUDIS.

Non sfugge a nessuno che la straordinaria espansione della Rete quale strumento di informazione e comunicazione pone tutta una serie di problemi assai rilevanti sia sul piano della sicurezza dei dati e dei sistemi informatici che ormai regolano praticamente ogni momento della nostra vita quotidiana, sia sul piano del rispetto della privacy di milioni di persone.

La polemica nata negli USA contro il Presidente Obama sulla intercettazione e catalogazione dei dati riguardanti milioni di cittadini americani all’interno di un programma di lotta al terrorismo internazionale ne è, sostanzialmente, la prova più evidente.

L’on. Bruno Bossio, nel corso del suo intervento, ha messo in evidenza come la Rete non sia altro che “uno specchio del mondo in cui viviamo, ne riflette gli slanci (vedi primavera araba) ma anche le miserie. La Rete si presenta come un’estensione delle relazioni sociali, con profondissime potenzialità elaborative mai conosciute nella storia dell’umanità. Non è un mondo parallelo, ma un’estensione del mondo relazionale e informazionale della nostra società; rappresenta sicuramente il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto”.

Io credo che ciò sia la prima grande questione che dobbiamo tenere presente: l’umanità oggi ha uno strumento straordinario nelle sue mani per esercitare il proprio diritto alla libera espressione del proprio pensiero e all’acquisizione di informazioni sempre più dettagliate e recenti. Nello stesso tempo l’umanità, per la prima volta nella sua storia, può “sentirsi” finalmente una pur nelle sue enormi differenze, percepirsi come un unico organismo sociale e culturale.

Internet però è un mezzo, non il fine. E’ uno spazio pubblico, non un altro cosmo che vive di vita propria, una realtà virtuale da contrapporre a quella reale.

La Rete può migliorare la nostra qualità della vita ma, nello stesso tempo, restringere i nostri spazi di libertà a seconda dell’uso che se ne fa.

Torna quindi prepotente un tema antico, quello sui limiti della libertà individuale in una società, soprattutto quando questa società diventa sempre più complessa e interconnessa.

A nessuno può essere limitata la libertà di comunicare quello che vuole su Internet purché questa libertà non vada ad incidere sulle libertà di altri, soprattutto se questi ultimi sono più deboli e indifesi (si pensi solo al problema della tutela dei minori).

Da qui l’esigenza di regole e di strumenti di controllo che consentano l’esercizio della libertà di espressione da una parte e garantiscano i diritti individuali di ciascuno alla tutela della propria persona.

Scriveva Albert Camus: “La libertà senza limiti è il contrario della libertà. Solo i tiranni possono esercitare la libertà senza limiti; e, per esempio, Hitler era relativamente un  uomo libero, l’unico d’altronde di tutto il suo impero. Ma se si vuole  esercitare una vera libertà, non può essere esercitata unicamente nell’interesse dell’individuo che la esercita. La libertà ha sempre avuto come limite, è una  vecchia storia, la libertà degli altri. (…). Una libertà che comportasse solo dei diritti non sarebbe una libertà, ma una tirannia. Se invece comporta dei diritti e dei  doveri, è una libertà che ha un contenuto e che può essere vissuta. (…)  La libertà con dei limiti è l’unica cosa che faccia vivere allo stesso tempo colui che la esercita e coloro a favore dei quali viene esercitata”. Camus scrisse queste parole all’interno del saggio Il futuro della civiltà europea quando Internet forse era ancora nei sogni dei suoi inventori, ma le sue parole sono di una attualità stringente.

Per non dover essere costretti, un giorno, a dover scegliere tra il Grande Fratello orwelliano di 1984 e la totale anarchia di un web in cui l’uomo e i suoi diritti vengono maciullati quotidianamente, credo che sia doveroso trovare le forme e gli strumenti per fare in modo che l’enorme spazio di libertà e democrazia che Internet ci offre possa essere messo davvero a disposizione di tutti nel rispetto di tutti.

Il semipresidenzialismo non deve far paura. Basta con gli opportunisti e i parolai.

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Fa davvero sorridere come lo stesso fronte che, appena poche settimane fa, se ne andava in giro a sostenere “Rodotà Presidente perché voluto dal popolo” sull’onda delle magnifiche sorti e progressive di Rete e piazza, oggi si riunisca per dire no all’elezione diretta del Presidente della Repubblica.

Francamente è diventato insopportabile l’atteggiamento opportunistico e parolaio di alcuni protagonisti di una parte della sinistra italiana, tutta protesa a riempirsi la bocca di sani principi solo per mascherare il proprio conservatorismo indifferente ai problemi veri del Paese.

Ad essi si aggiungono i soliti “benaltristi”, che proclamano che agli italiani non importa nulla delle riforme istituzionali ma solo delle tristi condizioni della economia e della mancanza di prospettive per tante famiglie. Come se le difficoltà della politica a dare risposte concrete ai problemi economici e sociali non siano profondamente intrecciate anche alla crisi di funzionamento delle istituzioni repubblicane che ci trasciniamo dietro da vent’anni a questa parte.

Personalmente ritengo che una riforma istituzionale che introduca anche in Italia il cosiddetto “presidenzialismo alla francese” non rappresenti alcuno scandalo.

Nei fatti il nostro sistema è già evoluto in questo senso a Costituzione invariata.

L’importante è che questa riforma individui tutti gli elementi di controllo e garanzia dei poteri presidenziali tipici delle democrazie mature e si accompagni alla riduzione del numero dei parlamentari, preveda una sola Camera che dà la fiducia al Governo, un Senato delle Regioni e una legge elettorale a doppio turno.

In Francia questo sistema funziona bene e non mi pare che abbia mai dato adito a dittature mascherate.

Un Presidente della Repubblica che assume su di sé la responsabilità della politica nazionale sulla base di un chiaro mandato popolare assegnato con suffragio universale e diretto e un sistema elettorale che rompa finalmente con l’ingovernabilità e la pratica delle coalizioni disomogenee in cui a prevalere sono quasi sempre i condizionamenti delle minoranze, mi sembra una buona risposta alla crisi attuale della politica italiana che è soprattutto crisi delle responsabilità.

Com’è ovvio di soluzioni ce ne possono essere anche altre, purché raccolgano un ampio consenso sia nel Parlamento che nel Paese. Mi convince molto la scelta di voler comunque sottoporre le riforme istituzionali, a prescindere dalle maggioranze parlamentari che le approveranno, a referendum confermativo.

La democrazia, come si dice, non è mai troppa.

Una cosa è certa, però: la si smetta di menar il can per l’aia e si faccia presto, come ha sollecitato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. I partiti, tutti, scelgano e si assumano le proprie responsabilità di fronte al Paese. Di chiacchere se ne sono fatte fin troppe per sopportarne altre.

Grillo…ne resterà solo uno. Le illusioni deluse del fronte radical-giustizialista.

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Tutto si può dire di Beppe Grillo ma non certamente che non sia dotato di grande senso dell’humour.

L’ultima, essersi vestito come l’highlander, l’ultimo immortale interpretato da Cristopher Lambert in un film cult degli anni ’80, rappresenta bene la sua lotta solitaria contro tutto il sistema, l’idea assolutista e integralista di essere l’unico vero interprete del cambiamento di cui il Paese ha bisogno.

In questo quadro sono assolutamente coerenti i suoi attacchi a tutti coloro che ne criticano stile, strategia e tattica politica, fossero anche coloro che lui ha di recente incensato e portati al centro del dibattito politico, vedi la Gabanelli e Rodotà, definito poche ore fa con grande garbo “ottuagenario scongelato dalla Rete” per la sola colpa di averlo criticato in una intervista sul Corsera.

Con grande scorno di quel fronte radical-giustizialista che, dopo il successo elettorale di febbraio, ha cercato di inglobarlo, di asservirlo alle proprie visioni del mondo e alla sua gesuitica battaglia anticasta, Beppe Grillo continua a fregarsene altamente di tutti e di tutto.

Quando dice che ne resterà solo uno non fa tattica, dice le cose che pensa insieme a Casaleggio.

Quando dice che vuole destrutturare tutto il sistema dei partiti e delle stesse istituzioni per instaurare una utopistica “democrazia diretta della rete” ne è davvero convinto.

Lui non “fa” l’antipolitico come Di Pietro che la mattina tuonava contro la casta e il finanziamento pubblico ai partiti e la sera con quella casta si spartiva poltrone e assessori e con i soldi del partito comprava le case: lui è davvero antipolitico.

Lui davvero crede di essere al di là della destra e della sinistra, davvero è convinto che la democrazia sia un post sul suo blog e non la faticosa elaborazione di idee frutto di confronti anche aspri tra persone che, spesso e per fortuna, la pensano diversamente l’uno dall’altro.

Per lui la critica non è il sale del confronto politico, ma solo il suo veleno.

Come tutti i populisti ritiene di essere l’unico, vero e autentico interprete della volontà popolare e gli altri che non la pensano come lui possono tranquillamente “andare fuori dalle balle”.

Così se gli italiani cessano di votarlo la colpa è solo loro che non hanno capito o, peggio, sono servi e schiavi del vecchio sistema.

Convincetevi, Grillo è questo, è esattamente quello che ha sempre detto di essere.

Quando dice che non farà mai alleanze e che tutti devono andare a fan… tranne lui, è sincero, se ne convinca il buon Vendola definito proprio oggi dal nostro, “supercazzolaro”.

Se ne convincano tutti coloro che in questi mesi sul duo Grillo-Casaleggio hanno costruito tutti i possibili film e controfilm di nuovi partiti, di alternative di sinistra e di “falce e manette”.

Credere che un ex comico possa essere l’interprete del rinnovamento della democrazia e delle istituzioni italiane non è soltanto inutile, ma semplicemente ridicolo e anche un tantino pericoloso come ci insegna la storia nostra e dell’Europa.

E’ solo un altro capitolo della tendenza di una parte delle classi dirigenti italiane a deresponsabilizzarsi e ad affidarsi alla novità per evitare l’innovazione. Salvo restarci proprio male quando la “novità” manda anche loro “a fan…”.

LA LETTERA DELLA CALABRESE CHAOUQUI NON E’ RAZZISTA. E’ SOLO TRISTE.

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Una brillante ragazza che lavora in una multinazionale, partita da un paesino della Calabria tanti anni fa oggi ottiene il posto d’onore con una sua lettera sulle pagine del “Corriere della Sera”, il più grande quotidiano d’Italia.

Francesca Chaouqui ci racconta di una Calabria barbara, matriarcale, in cui la discriminazione di genere e il femminicidio sono solo il frutto di una società arretrata, chiusa, in cui maschi e femmine vivono in una dimensione arcaica, con ruoli ben definiti.

Francesca Chaouqui è partita anni fa ed ha trovato, purtroppo come tanti, come troppi calabresi, solo fuori dalla sua terra le opportunità che cercava e che meritava.

Come tanti calabresi emigrati ha assorbito la concezione del mondo della città e della comunità che l’ha accolta ed ha cominciato a guardare alla sua terra prima con distacco poi, forse, anche con un po’ di implicito rancore.

La morte della povera Fabiana a Corigliano diventa così non l’ennesimo capitolo di una strage di donne che riguarda l’intero territorio nazionale, dalle Alpi alla Trinacria come si diceva un tempo, ma l’effetto di una specificità locale, regionale, il frutto di una società in cui si dice e si pratica il  “citto tu ca si fimmina”.

Potremmo dire a questa ragazza che si sbaglia, che le donne calabresi sono tutt’altro da come le descrive.

Potremmo dirle che le donne calabresi non sono affatto subalterne, che spesso proprio da loro sono partite grandi lotte di emancipazione che hanno scosso e cambiato profondamente la loro terra e anche i loro uomini.

Potremmo insistere sul concetto che le donne vengono discriminate ed uccise a Brescia e a Busto Arsizio come a San Sosti o ad Avetrana.

Potremmo dirle che le sue parole odorano troppo di pregiudizi e generalizzazioni da bar dello sport, ma lei rimarrebbe dello stesso parere, fiera di essersi “salvata” dalla sorte che è convinta sia nel destino e nel DNA delle sfortunate sue conterranee rimaste a casa.

Francesca, infatti, come tanti emigrati, cerca solo conferme alle ragioni che la spinsero ad abbandonare la sua terra per bisogno o per scelta.

Perché per tanti come Francesca questa terra è più facile leggerla con gli occhi degli altri: è più facile ma anche molto più triste.

 

 

LA MOSTRUOSA NORMALITA’ DEL DELITTO DI CORIGLIANO.

Fabiana Luzzi, la vittima dell'omicidio di Corigliano Calabro

Se fossi il padre della ragazza uccisa a Corigliano i miei sentimenti, oggi, sarebbero di rabbia e di vendetta.

Ho guardato mia figlia ieri, una ragazza quasi della stessa età di Fabiana e ho pensato che, se quell’orrore fosse capitato a lei, non avrei sopportato, forse non sarei sopravvissuto a tanto dolore.

Ho provato sdegno impotente e volontà di annientamento del responsabile di tanta violenza.

Poi ho pensato che sarebbe stata vendetta e non giustizia.

E ho guardato mio figlio, oggi un ragazzetto di 12 anni, mi sono sforzato di vederlo più grande di qualche anno.

E ho pensato che il ragazzo che ha ucciso e torturato ora probabilmente sarà nell’inferno, che solo dopo ore avrà realizzato l’enormità del suo gesto, che ciò che ha vissuto non è come un videogioco in cui le vite si rigenerano dopo averle perdute.

Ho pensato ai genitori dell’assassino che magari in queste ore stanno continuando a chiedersi (e forse lo faranno per tutta la vita, senza alcuna possibilità di risposta) com’è potuto accadere che il loro figlio abbia potuto trasformarsi in quel mostro che giornali e TV raccontano, in cosa e quando hanno sbagliato, in quale momento della loro vita di adulti normali non hanno capito e non hanno aiutato quel bambino diventato ragazzo e oggi omicida.

E allora mi sono convinto che è giusto che la giustizia faccia il suo corso, che la legge aiuti tutti noi ad uscire dai sentimenti contrastanti di queste ore, dalle reazioni emotive.

Nonostante i media che su questa storia staranno per mesi, nonostante la miriade di esperti psicologi, sociologi e quant’altro che parleranno dicendo cose giuste ma che non restituiranno la vita a chi l’ha persa, né alla vittima, né al carnefice.

Spero che, alla fine, tutti quanti noi potremo riflettere.

Perché questo delitto, questo ennesimo caso di femminicidio, per usare un termine entrato nel dibattito corrente, non sia soltanto punito dalla legge ma ci aiuti anche a capire cosa in questo nostro mondo si è rotto e come ricostruirlo.

Magari sforzandoci tutti noi, genitori di ragazzi, ad aiutare i nostri figli, ad insegnare loro il rispetto per gli altri, soprattutto se sono più deboli di noi.

Parlare alle nostre ragazze e soprattutto ai nostri ragazzi, non pensare che il tutto si risolva con il semplice esaudimento dei loro desideri materiali.

Assumendoci tutti quanti le nostre responsabilità di adulti.

Perché l’orrore di Corigliano non è distante da noi; perché possiamo riconoscerlo prima che accada nella sua, purtroppo, mostruosa normalità.

INNOVAZIONE NON NUOVISMO

il futuro del partito nelle mani dei giovani

State certi che se volete strappare unanime consenso anche in una discussione informale prendendo un caffè al bar è sufficiente una tirata sulla necessità di novità: in politica, in TV, nello sport, ecc..

Il nuovo è affascinante per tutti, persino per i conservatori.

D’altro canto, come diceva Catalano buonanima, è retorico chiedersi se è meglio mettere un vestito vecchio e rotto o un vestito nuovo e sano.

La questione è assai più complessa quando si declina il nuovo come categoria della politica, soprattutto in una società come la nostra che, nei fatti, chiude ai giovani ogni prospettiva e ogni opportunità.

Liberare la società italiana e consegnarla alle giovani generazioni rappresenta una vera e propria emergenza democratica ed è uno dei primi compiti della politica, soprattutto della politica di una forza democratica.

Il tema che, però, viene quasi sistematicamente eluso, una volta enunciata la necessità del nuovo e del rinnovamento è quello di come questo nuovo e questo rinnovamento debbano essere effettivamente costruiti.

Qui vediamo che ci si ferma, per incapacità o per calcolo doloso, alla semplice enunciazione, alla proclamazione retorica ed indignata.

In questi anni, invece di costruire per davvero il nuovo si è messa in piedi una insopportabile retorica del nuovo, un nuovo senza alcun pensiero dietro, spesso semplificato al puro dato anagrafico, in una parola si è semplicemente declinato il “nuovismo del vuoto spinto”.

Le ultime elezioni ci hanno consegnato, ad esempio, un forte svecchiamento del Parlamento, ma non mi pare che le cose, almeno finora, stiano andando meglio, anzi.

Assistiamo infatti allo spettacolo di bravi ragazzi che, è l’esempio del Movimento 5 Stelle, per settimane e settimane hanno discusso di scontrini e ricevute. Oppure, nel PD, a giovani deputati così permeabili agli umori di pancia della rete da non garantire al partito che li ha eletti un minimo di tenuta nei momenti cruciali delle prove parlamentari.

La verità è che il nuovo senza un progetto politico, senza una idea di società, senza modelli di riferimento che lo sostengano è destinato a soccombere e a provocare, questo il danno maggiore, un effetto di reazione conservatrice che si riaffida spesso, per insicurezza e per tutela, sotto le ali del peggiore del vecchio.

Vi siete chiesti, ad esempio, perché, nonostante tutta la retorica del nuovo di cui è disseminato il nostro dibattito pubblico i sondaggi danno in crescita un vecchietto di 77 anni e in politica da venti di nome Silvio Berlusconi ?

La rivoluzione francese, il ’68, i grandi movimenti di massa che hanno prodotto profondi cambiamenti nella storia furono prodotti da grandi idee di liberazione portate avanti da persone nuove, non soltanto giovani ma soprattutto giovani.

Perché per produrre cambiamento e innovazione ci vogliono nuove idee non idee nuove.

LEGGE ELETTORALE, IL RE E’ NUDO !!!

renudo

La recente sentenza della Cassazione che ha rimandato alla Corte Costituzionale il famigerato “porcellum” è un pugno nell’occhio alla classe politica che questo sistema ha voluto o, pur opponendosi, nei fatti lo ha mantenuto in piedi col gioco del cerino.

Quanti, in questi anni, hanno guardato con sufficienza al problema, hanno ripercorso il vecchio leit motiv del benaltrismo, hanno moraleggiato demagogicamente con frasi del tipo “la gente non mangia pane e legge elettorale”, non possono più nascondere la testa sotto la sabbia.

Questa legge è stata, lo scrivevo pochi giorni fa, il vero golpe di questi anni.

Ha snaturato il rapporto tra elettori ed eletti, ha creato un Parlamento avulso dai territori e popolato da nominati con l’unica funzione di schiacciare pulsanti su ordine dei capi dei partiti, pena la non ricandidatura e quindi la non rielezione.

Ha immesso nelle forze politiche, a destra e a sinistra, il veleno del conformismo al leader di schieramento, di partito, di corrente.

Ha scatenato sui territori lotte di potere tutte interne e autoreferenziali per conquistare posizioni “utili”, senza alcun rapporto con i cittadini, gli unici a poter decidere col proprio voto vincitori e vinti di una competizione elettorale.

Ha rimesso in circolo vecchie concezioni elitiste e giacobine, secondo le quali il voto popolare va sempre visto con diffidenza e meglio rimane la scelta “illuminata” dall’alto.

Ha degenerato, il termine non vi sembri eccessivo, la funzione stessa del Parlamento come sede della rappresentanza degli interessi diffusi del Paese e, con l’abnorme premio di maggioranza, ha chiuso nel recinto della partigianeria politica contingente le stesse funzioni di garanzia che la Costituzione aveva voluto, appunto, espressione di maggioranze larghe e condivise, perché il governo è di chi vince ma le istituzioni sono di tutti.

Con ogni probabilità, come dicono tutti i costituzionalisti, la Corte potrebbe addirittura provvedere a “cassare” le parti del “porcellum” rilevate come incostituzionali, mettendo il Paese di fronte ad un sistema elettorale puro che rappresenterebbe la pietra tombale sull’unica cosa buona prodotta dalla cosiddetta Seconda Repubblica, il bipolarismo.

Il tempo del “tirare a campare per non tirare le cuoia” è scaduto.

Si intervenga e si faccia una legge che garantisca governabilità, rappresentanza e diritto di scelta degli elettori del proprio deputato nel e del proprio territorio.

Ne va della democrazia italiana che, scusate, è importante quanto il pane e il companatico.

RICORDIAMO ENZO TORTORA MA EVITIAMO IPOCRISIE

Enzo Tortora arrestato

Venticinque anni fa, il 18 maggio 1988, moriva Enzo Tortora.

Enzo Tortora fu accusato ingiustamente di essere un affiliato della camorra, costretto in carcere, massacrato mediaticamente, condannato in primo grado e assolto in appello con formula piena.

Un errore giudiziario clamoroso che lo portò alla morte.

Enzo Tortora si difese sempre con determinazione nel processo, arrivando persino a rinunciare all’immunità di parlamentare europeo. Altra tempra, altro uomo.

Fu grazie alla battaglia condotta da Enzo Tortora che gli italiani diedero un consenso plebiscitario al referendum che introduceva la responsabilità civile dei giudici “per colpa grave”.

Tuttavia, la legge Vassalli che uscì fuori da quel referendum, stabilì che il cittadino che ha subito le conseguenze di un errore giudiziario può rivalersi sullo Stato che pagherà un risarcimento e solo dopo, eventualmente, lo Stato può rivalersi sul giudice che ha sbagliato ma solo “entro un terzo di annualità dello stipendio”.

Non ho notizia che questo secondo passaggio si sia mai verificato negli ultimi venticinque anni, mentre ammontano a parecchi milioni di euro le somme pagate dallo Stato per ingiusta detenzione.

In buona sostanza, i magistrati continuano ad essere l’unica categoria di impiegati pubblici i cui errori commessi per “dolo o colpa grave” vengono pagati da tutti i cittadini e che di persona non ne subiscono alcuna conseguenza, neppure, che so, il semplice trasferimento d’ufficio.

Sarebbe dunque bene che, ricordando Tortora, si evitassero facili ipocrisie e ci si rendesse conto che, Berlusconi a parte, in Italia esiste una questione giustizia grande quanto una casa.

IL VERO “GOLPE” SAREBBE MANTENERE IN VITA IL “PORCELLUM”

Una vignetta satirica subito dopo l'approvazione del "porcellum"

Questa sera, insieme ad altri dirigenti e militanti del PD e del centrosinistra sarò a Lamezia Terme all’iniziativa convocata dal Presidente della Provincia di Cosenza Mario Oliverio e dal Sindaco di Crotone Giuseppe Vallone per chiedere l’abolizione del “porcellum”.

La mobilitazione sta riscuotendo in queste ore numerose adesioni tra cui quella della parlamentare del PD Enza Bruno Bossio che giustamente ha chiesto che il PD si impegni a modificare subito la legge elettorale che ci ha consegnato la situazione di ingovernabilità in cui ci troviamo.

Tornare a votare con il “porcellum”, dice Enza Bruno Bossio, sarebbe doloso, e significherebbe, con ogni probabilità, ritrovarsi nella stessa situazione che ci ha costretto ad un governo di necessità.

Chi mi segue sa che sulla questione della legge elettorale più volte dalla mia modesta postazione sono intervenuto, aderendo anche ad iniziative referendarie che, purtroppo, non hanno avuto alcun esito.

Diciamoci la verità, alcuni aspetti di questa legge stanno bene a tutti, PD compreso, che pure ha cercato (e gliene va dato atto) di stemperarne uno degli aspetti più odiosi ( le liste bloccate) con le primarie.

In particolare la legge Calderoli varata con un colpo di mano sul finire del 2005 da un centrodestra che voleva limitare la vittoria elettorale di Prodi, presenta parecchi elementi discutibili, non ultimo quello del premio di maggioranza alla Camera che viene assegnato alla prima forza o coalizione, senza alcun limite, tanto da fa esprimere più volte la Corte Costituzionale nel senso di una correzione.

Paradossalmente, se in Italia si verificasse il caso di una frammentazione ancora più spinta di quella che abbiamo oggi, per cui ci fossero 5 forze che prendono ciascuna il 20%, l’abnorme premio di maggioranza del 55% dei seggi verrebbe assegnata alla forza che ha preso il 20% più un voto, e il restante 80% sarebbe costretto a spartirsi il restante 45% dei seggi. Una aberrazione democratica, senza contare che, per quanto riguarda il Senato, dove la maggioranza è assegnata su scala regionale, nessuna forza, come è avvenuto nelle ultime elezioni dove l’elettorato si è diviso sostanzialmente in tre parti, otterrebbe la maggioranza dei seggi.

Un vero e proprio pateracchio se si considera che persino la famigerata legge Acerbo varata da Mussolini per consolidare il proprio potere prevedeva un limite minimo per accedere al premio di maggioranza del 25% su scala nazionale.

Ma il “porcellum” è odioso soprattutto per le liste bloccate. Gli eletti vengono determinati sulla base della percentuale conseguita dalla lista in ragione del loro posizionamento. La lista, d’altro canto, non appare sulla scheda così che all’elettore viene data solo la facoltà di scegliere il partito e la coalizione ma non il proprio rappresentante.

Non si tratta di cosa di poco conto: in Italia non era mai successo se si esclude il periodo fascista quando i deputati venivano eletti con un plebiscito nel quale agli elettori veniva chiesto di approvare con un Si o bocciare con un No il listone di deputati predisposto dal Gran Consiglio del Fascismo. O con la preferenza all’interno di una lista o con un voto sul candidato del collegio uninominale le diverse leggi elettorali del nostro Paese, dal 1861 ad oggi, avevano sempre garantito quello stretto legame di fiducia tra elettore, eletto e territorio, che è poi l’essenza stessa della democrazia.

Si, perché il “porcellum” ha prodotto come effetto soprattutto questo: la frattura tra eletti ed elettori, con i primi con rispondono neppure al territorio che li esprime (la possibilità di candidature multiple in diverse circoscrizioni è un altro aspetto di questo problema) ma solo alle ristrette elite dei partiti romani che li hanno indicati in posizione utile in lista e i secondi che non possono esercitare alcun controllo su di essi, sia pure per richiamarli semplicemente ai loro doveri rispetto al territorio che li ha portati in Parlamento.

Questa legge elettorale ha prodotto uno snaturamento del principio democratico che vuole il parlamentare come espressione della volontà della nazione, in nome della quale esercita il proprio mandato senza alcun vincolo, come dice la nostra Costituzione.

Chi l’ha varata e chi, al di là della propaganda, ne ha consentito la sopravvivenza, per meri calcoli di bottega come maldestri apprendisti stregoni hanno prodotto una ferita drammatica al nostro sistema rappresentativo i cui effetti si sono dispiegati pienamente dopo le ultime elezioni.

Non voglio esagerare ma il vero “golpe” di cui tanto si parla a sproposito si è verificato consentendo a questa legge di liberare i suoi effetti nefasti sul nostro sistema.

Cambiarla è dunque un dovere democratico da cui dipende il futuro stesso delle nostre istituzioni.

 

Fabrizio Barca e il “catoblepismo” calabrese

fabrizio Barca

Pubblicato su “Calabria Ora” del 12 maggio 2013

Alzi la mano chi conosce il significato del termine “catoblepismo”.

No, non preoccupatevi, credo che in Italia siano davvero in pochi, senza l’ausilio di Santa Wikipedia, a sapere che questa parola tanto astrusa significa “circolo vizioso”, rapporto distorto fra due soggetti di cui uno chiamato a controllare e l’altro ad essere controllato.

L’ex ministro Fabrizio Barca, oggi nelle vesti di nuovo commentatore del PD nel PD (categoria assai affollata di questi tempi) l’ha usata per definire la relazione distorta che è intervenuta spesso nel rapporto tra partiti e Stato.

Parola difficile usata nel contesto di ragionamenti colti, quelli che di solito animano il discorrere di Fabrizio Barca. Eppure qualcuno deve avergli consigliato di parlare un tantino più potabile e, infatti, nella sua visita in Calabria l’ex ministro ha sviluppato discorsi molto più chiari.

Ha detto, per esempio, che la Calabria è stata “mal governata anche dal centrosinistra”. Poi si è espresso con nettezza quando ha chiesto retoricamente riferendosi all’allagamento degli scavi di Sibari “dov’era il PD ?”.

Tutto condivisibile il discorrere di Barca salvo che nell’aver trascurato uno dei “catoblepismi” calabresi. Infatti, nei cinque anni di governo del centrosinistra in Calabria per tre anni la delega ai beni culturali (quindi competente sul parco archeologico di Sibari) è stata tenuta da uno dei suoi punti di riferimento calabresi, insieme alla vicepresidenza della Giunta regionale.

Senza trascurare il fatto che la personalità in questione fa parte di una scuola di economisti e maitre à penser che da anni ha costituito il centro di elaborazione e per lunghi periodi di gestione e direzione politica della programmazione dei fondi europei in Calabria, scuola di cui l’eminente prof. Fabrizio Barca è capofila.

Allora forse un tantino di prudenza maggiore sarebbe stata necessaria perché se saranno pochi i calabresi che conoscono il significato di “catoblepismo” certamente tutti conoscono la vecchia pratica del predicar bene e razzolare male di cui è pervasa non solo la politica ma anche l’intellighenzia prestata alla politica. E forse Fabrizio Barca la prossima volta farà bene a cambiare esempi per sostenere la sua “mobilitazione cognitiva”.

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