Gabriele Petrone

Il diritto all’odio non esiste…

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Dopo l’episodio di Milano con il lancio della statuetta in faccia a Berlusconi nel 2009, Marco Travaglio scrisse sul blog di Beppe Grillo un articolo con il quale parlava di “diritto all’odio”. Il giornalista di destra diventato icona di certa sinistra forcaiola scriveva: “Chi l’ha detto che non posso odiare un politico e augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto? Un politico si vota, non si ama. In politica non esiste l’amore, non c’è sentimento”. E ancora. «Non vedo per quale motivo – continuava l’ex giornalista de “Il Borghese” – qualcuno non possa odiare Berlusconi. L’importante è che si limiti ad odiarlo senza fargli nulla di male”.
Ora io credo che questa affermazione sia rivelatrice di un vero e proprio veleno che si è diffuso nella politica e nella società italiana, in una parte delle sue classi dirigenti, della cultura e della cosiddetta “intellighenzia” radical italiana, un veleno che va combattuto con decisione e senza tentennamenti.
La realtà sociale del Paese è infatti drammatica. Interi pezzi di società sono sospinti sotto la soglia della povertà, diritti che si credevano acquisiti vengono di giorno in giorno negati e fatti a pezzi.
In questo contesto la politica e le classi dirigenti nel loro complesso devono assumersi la responsabilità di indicare soluzioni non di soffiare sul fuoco o versarvi benzina.
Non esiste il “diritto all’odio” perché l’odio è la negazione di ogni diritto. Chi fomenta l’odio, anche quando non si rende colpevole di violenze, e soprattutto se lo fa dall’alto della sua condizione di “privilegiato” da decine di migliaia di euro al mese (spesso molto di più dei tanti bistrattati politici) che gioca sulla disperazione di tanti, diventa colpevole indiretto delle violenze che da quell’odio inevitabilmente si generano.
In Italia è già successo, purtroppo, e i rischi che tutto si ripeta ci sono tutti come dimostrano i fatti di Roma. Non si tratta di ripercorrere la categoria dei “cattivi maestri”, di invocare censure, ma di avviare una campagna politica e culturale contro chi irresponsabilmente si fa promotore di una visione manichea e distruttiva della politica dal tepore dei salotti o per il gusto della tirata demagogica nei talk show televisivi, una visione che distrugge la democrazia nei suoi stessi principi fondativi.
Io trovo significativo che i manifestanti pacifici sabato abbiano cercato di espellere quelli violenti dal corteo. E’ un fatto importante che, a mia memoria, non era mai successo. Segno che gli anticorpi ci sono e vanno incoraggiati e moltiplicati. Avendo il coraggio di contestare a gente come Travaglio e a tanti altri come lui le innumerevoli e irresponsabili parole che assai spesso propagano a piene mani.
Perché nessun dissenso, per quanto profondo e radicale esso sia, può giustificare l’odio politico. Perché la democrazia è nata proprio per regolare i conflitti e bandire l’odio dai rapporti civili e politici e non il contrario, altro che balle.

Piperno dalla “geometrica potenza” a “un evento dalla bellezza sublime”.

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Questa mattina, sulle pagine di un giornale locale è apparso un articolo del prof. Franco Piperno in vista del decimo anniversario della strage delle Torri Gemelle a New York.
Con i toni lirici di cui è capace ha teorizzato lungamente sul fatto che l’11 settembre 2001 è stato “un evento dalla bellezza sublime”, definendo i terroristi “intellettuali arabi” che hanno agito contro la “Grande Babilonia”.
Per Piperno, dunque, “l’undici di settembre, nel decennale di quell’evento dalla bellezza sublime, chineremmo, se solo le avessimo, le nostre bandiere per pietà verso gli americani morti per caso e ad onore degli intellettuali arabi – a noi, per altro ostili, ma certo umani, troppo umani – che hanno spappolato gli aerei catturati contro le Torri Gemelle, condensando, in quel gesto collettivo, la volontà generale delle moltitudini arabe”.
Il prof. di Arcavacata non è nuovo a certe uscite: ricordiamo ancora quando, appresa la notizia del rapimento di Aldo Moro e della strage della sua scorta, parlò della “geometrica potenza” di quell’azione.
Sarebbe semplice, in questa sede, contestare a Piperno che è davvero azzardato sostenere che gli “intellettuali” di Bin Laden interpretino davvero “la volontà generale delle moltitudini arabe” proprio nel momento in cui, in quasi tutti i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente le stesse moltitudini scendono in piazza per rivendicare la tanto “occidentale” democrazia contro regimi dittatoriali e tirannici, peraltro per lungo tempo buoni amici della “Grande Babilonia”.
Sarebbe altrettanto semplice dire che non ci può essere alcuna comprensione né tantomeno empatia con persone che, in nome di una ideologia religiosa peraltro distorta, non esitano a massacrare innocenti e come questo tragico fatto non sia dissimile dalle stragi perpetrate da dittature rosse e nere nei decenni trascorsi.
Allo stesso modo sarebbe facile contestare l’assurdo accostamento dell’11 settembre alla “decapitazione di Luigi Capeto” all’”assalto bolscevico del Palazzo d’Inverno”, alla “Sorbona occupata nel ‘68” , alla “caduta del Muro di Berlino”. Sarebbe facile, ma assolutamente inutile. Così come sarebbe inutile ricordare che Piperno è stato assessore della Giunta nel periodo in cui Giacomo Mancini dedicò una delle piazze principali di Cosenza proprio all’XI settembre e che difficilmente in Egitto, Libia o Iraq avrebbe potuto scrivere e dire le cose che scrive e dice, che gli USA dove viene eletto Obama, a dispetto di tutti gli errori ed orrori della sua storia, sono comunque da preferire a regimi in cui si reprime ogni dissenso, si costringono le donne ad una condizione di schiavitù sottoponendole a terribili mutilazioni, in cui alcune frange integraliste non esitano ad armare giovani con il tritolo per uccidere donne e bambini, ecc..
Piperno è così, da sempre, e tuttavia non si possono lasciare passare le sue affermazioni sotto silenzio. Non contestargliele o sottovalutarle sarebbe un errore forse ancora più grande. Non si può non ribadire che l’11 settembre, a dispetto dei tanti mali di cui USA e Occidente sono spesso portatori, è stato un evento tragico, l’ennesimo esempio di come il cammino verso pace, giustizia, democrazia sia per l’umanità ancora arduo e difficile. Che proprio quella assurda strage chiama l’Occidente a maggiori responsabilità, a perseguire fino in fondo la lotta per l’affermazione dei valori dell’uomo che presero l’avvio non tanto dalla decapitazione di Luigi Capeto ma dalla presa della Bastiglia. Che questa lotta è ancora aperta, che certamente avrà mille contraddizioni delle quali qui, in questo Occidente così complesso, comunque si può discutere e battersi per correggerle (e non mi pare poco). Una lotta che deve continuare perché non c’è alternativa alla democrazia, per quanto imperfetta essa possa essere.
L’11 settembre non ha portato più progresso, ma solo più paura, più diffidenza, più conflitto, rendendo il mondo più insicuro e scatenando nuove guerre, nuove tragedie. Ecco perché non ci vedo nulla di bello e di sublime.

Stiamo attenti che la fine di Berlusconi non trascini con sé anche questo centrosinistra.

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La fine del lungo ciclo di governo di Berlusconi sembra essere ormai giunta. Avviene nel peggiore dei modi per il Cavaliere, assediato da inchieste giudiziarie, da gossip velenosi, dal ludibrio internazionale.
Al di là del fatto se riuscirà a mantenere una maggioranza parlamentare come gli è riuscito finora è del tutto evidente che la sua capacità di parlare al cuore ed alla pancia degli italiani, con quel mix di populismo e di sovversivismo dall’alto che ne ha contraddistinto la sua presenza in oltre tre lustri di vita politica italiana, è ormai esaurita.
Il leader è vecchio, stanco, persino un po’ patetico nel suo disperato tentativo di mostrarsi giovane e simpatico. L’assedio delle procure è indiscutibile, così come l’accanimento dell’ormai la quasi totalità dei media e dei cosiddetti “grandi poteri” (che pure, in fase alterne, lo avevano sostenuto), ma il suo tradizionale vittimismo che pure era riuscito a fargli catalizzare la maggioranza dei consensi elettorali, non regge più.
Gli italiani più che il discorso moralistico della miriade di indignati da salotto che affollano i talk show e le colonne dei giornali si sono finalmente convinti che il vecchio Silvio non è un uomo di Stato, non è capace di governare e di dare risposte ai problemi urgenti di un Paese che rischia di affondare nel gorgo di una crisi generale che in Italia è però aggravata proprio dalla assoluta inadeguatezza delle sue classi dirigenti. Se erano disposti a perdonargli tutto, anche le sue stravaganze e la sua irrequietezza sessuale (ma quando mai questa ha contato qualcosa nella cattolica e gesuitica Italia ?), non sono disponibili a perdonargli la sua inconsistenza politica, la sua assoluta incapacità di governare un Paese complesso avviato sulla strada di un inesorabile declino.
Nel centrodestra una partita si è aperta per la successione. Bisognerà vedere se questa sarà cruenta e lascerà morti e feriti oppure sarà politicamente guidata come l’elezione di Alfano sembra voler presagire. Se Berlusconi non fosse Berlusconi molto probabilmente un nuovo governo di centrodestra sarebbe già stato varato con una nuova leadership e una nuova composizione di coalizione. E’ la presenza di Berlusconi che impedisce la formazione di un nuovo governo a guida PDL con il Terzo Polo e Casini dentro. Allo stesso modo è la presenza di Bossi ad impedire, almeno finora, che una nuova leadership si affermi nella Lega.
Il futuro di quel campo, e se ne sono accorti soprattutto quelli che lo occupano, sta proprio nella possibilità che questo nuovo assetto del centrodestra finalmente si affermi, con buona pace degli antiberlusconiani di professione.
In questo senso io credo che non sia scontato che il dopo Berlusconi sarà di centrosinistra. Perché il centrosinistra attuale, al di là degli sforzi pure generosi di Bersani, è completamente ritagliato sull’antiberlusconismo.
Un’alleanza classica (PD, IDV e SEL) con il terzo polo autonomizzato, oggi vincerebbe le elezioni solo se il leader dell’altro schieramento (PDL e Lega) resta Berlusconi. Un altro leader nel centrodestra renderebbe questa coalizione attrattiva per le forze centriste già in questo parlamento, figuriamoci in un momento elettorale. Del resto come leggere gli aperti tentativi di varo di un governo “tecnico-tecnocratico” sponsorizzati da Confindustra e Marchionne che vorrebbero alla guida un Montezemolo o un Monti ?
Il problema per il Centrosinistra, dunque, è uscire da questo imbuto e trovare un nuovo assetto politico e programmatico che non può che essere riformista e modernizzatore.
Nell’opposizione vasta che si è coagulata contro il premier non c’è, infatti, solo il voto tradizionale della sinistra, ma anche quello di ampi settori moderati che sono delusi da Berlusconi ma che continuano a non amare la sinistra per come oggi si configura.
Senza Berlusconi lo schema di alleanze attuale attorno al PD non regge né politicamente né programmaticamente, inutile farsi illusioni. Non regge anche perché la sua leadership allargata tutto appare tranne che portatrice di innovazione e di modernizzazione. Né il problema si risolve soltanto allargando, cosa assai difficile in verità, la coalizione all’UDC, nel senso che ne verrebbe fuori una maggioranza numerica ma non politica come è avvenuto con l’Unione di Prodi.
In questo quadro il PD deve compiere uno sforzo ancora maggiore di adeguamento del suo profilo riformista e attorno a questo costruire le alleanze, atteso che l’antiberlusconismo non reggerà più, anche se Berlusconi dovesse resistere fino al 2013 e guidare la coalizione alle elezioni.
Cosa intendo per questo adeguamento ? Intendo soprattutto la necessità di fissare alcuni punti fermi: riforma fiscale, riforma del welfare, riforma della giustizia, della scuola e dell’università, riforma istituzionale (a cominciare dalla legge elettorale), nuova politica per il Mezzogiorno. Su ciascuno di questi argomenti, purtroppo, lo schieramento nel quale oggi ci collochiamo è, purtroppo, diviso. Il PD deve chiamare tutti, alleati attuali e potenziali, forze economiche e sociali, il Paese intero nella sua articolazione più ampia e complessa, ad un confronto stringente e non ideologico su questi temi.
Solo così, credibilmente agli occhi del Paese, potrà candidarsi a succedere non solo a Berlusconi, ma al centrodestra e al sistema di interessi che esso, nonostante lo stesso Berlusconi, continua a rappresentare.
Altrimenti la fine di Berlusconi trascinerà con sé anche il centrosinistra.

Dopo quelli di Passanante seppelliamo anche i resti di Villella per chiudere definitivamente con il razzismo antimeridionale

Passanante e Villella
Giovanni Passanante era un anarchico che nel 1878 attentò, piuttosto maldestramente, in verità, alla vita del re Umberto I a Napoli. Passanante era un pastore di greggi di Salvia di Lucania (oggi Savoia di Lucania) dove era nato nel 1849. Da lì, ultimo di dieci figli di una famiglia povera, si era trasferito a Potenza dove aveva trovato lavoro come sguattero in un’osteria. Grazie all’aiuto economico di un suo paesano, un capitano dell’esercito, poté completare la sua istruzione.
Tra letture della Bibbia e degli scritti di Giuseppe Mazzini si accostò progressivamente alle idee anarchiche e socialiste fino a maturare il proposito di uccidere il re. Si lanciò sulla sua carrozza mentre era in visita a Napoli, fingendo di dover porgere una supplica e colpì di striscio Umberto I con un coltellino di meno di 10 cm. Prontamente bloccato e arrestato fu sottoposto a tortura per giorni nel tentativo di fargli confessare i complici di un inesistente complotto.
In Italia si scatenò, anche in seguito ad un altro attentato anarchico a Firenze, una feroce repressione. Passanante fu condannato a morte, ma la pena capitale fu commutata dal re in ergastolo.
Il sindaco di Salvia di Lucania propose il cambiamento del nome del paese in quello attuale proprio come forma di espiazione per aver dato i natali al tentato regicida. Parenti e omonimi di Passanante furono costretti ad emigrare.
Intanto l’anarchico era stato rinchiuso nel carcere di Portoferraio sull’isola d’Elba, in una cella stretta e priva di latrina dove sopravvisse in condizioni terribili, perdendo completamente la ragione. Fu grazie all’interessamento di alcuni deputati tra cui il repubblicano Agostino Bertani, che Passanante fu trasferito in un manicomio criminale dove morì nel 1910.
Ma le sue vicissitudini non erano finite: dopo la morte fu decapitato e la sua testa e il cervello furono usati per gli studi sulla devianza criminale inaugurati da Cesare Lombroso. Questi miseri resti rimasero presso il Museo Criminologico dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia di Roma fino al 2007, quando sono stati pietosamente seppelliti a Savoia di Lucania grazie all’interessamento del ministro Oliverio Diliberto prima e di Clemente Mastella poi. Decisione che fu presa non senza polemiche in un paese che riesce a dividersi anche su fatti di oltre un secolo fa.
Ma è utile ricordare che tra i resti identificati e conservati nel Museo lombrosiano di Torino ci sono anche quelli di Giuseppe Villella, un brigante calabrese nato a Motta Santa Lucia e morto in carcere dopo una lunga prigionia. Lombroso stesso ne aveva asportato il cranio per trovare prove alla sua teoria sulla devianza criminale come risultante di una degenerazione fisica dovuta alla presenza della cosiddetta “fossetta occipitale”, scoperta per la prima volta proprio nel cranio di Villella.
Per la cronaca, nonostante aver esaminato centinaia di cadaveri di criminali la fossetta era tutt’altro che presente in tutti i crani, a dimostrazione dell’assoluta inconsistenza di questa teoria da un punto di vista scientifico. Nondimeno le teorie lombrosiane ebbero larga eco e diffusione anche sotto forma di vulgata per sostenere l’idea che la devianza era innata in alcuni individui rispetto ad altri, in alcuni gruppi etnici rispetto ad altri. Nel caso di Passanante la devianza era addirittura presente nella duplice forma dell’adesione alle idee anarchiche e socialiste e alla condizione di meridionale.
Le teorie dello studioso veronese sono state completamente smentite dagli studi successivi, ma, ripetiamo, ebbero larga eco anche all’estero, dove erano diffuse interpretazioni distorte del darwinismo Si pensi, ad esempio, ai romanzi di Rudyard Kipling, tutti tendenti a dimostrare la superiorità dell’uomo bianco e la giustezza della sua missione civilizzatrice che trovava riscontro nell’espansione neocolonialista e imperialista a cavallo tra ‘800 e ‘900.
In Italia, assai in ritardo nei suoi tentativi di espansione coloniale (tra l’altro in quegli anni finiti tragicamente a Dogali e ad Adua), i “neri” erano individuati nei meridionali.
Quanto di queste teorie oggi sopravvivono nella cultura politica italiana e in forme abbastanza trasversali oltre alla Lega è, purtroppo, sotto gli occhi di tutti. L’idea che il Sud sia abitato da una razza inferiore continua ad albergare e a motivare concrete scelte di governo oltre che gran parte del circuito mediatico nazionale.
In questo quadro chiedere di dare sepoltura ai resti di Villella, così come è stato fatto per quelli di Passanante, rappresenta qualcosa di più che una doverosa forma di elementare pietà. Significa chiudere simbolicamente con il passato e, nello stesso tempo, dare una risposta a coloro che continuano a guardare al Sud come ad un problema di “civilizzazione”.
Altri Paesi, peraltro giunti alla democrazia molto più tardi di noi, l’hanno fatto: le teste dei “briganti” brasiliani, ad esempio, che erano conservate nel museo di Salvador de Bahia sono state anch’esse seppellite dopo appena trent’anni dalla conclusione della loro drammatica vicenda umana
Sinceramente provo un po’ di vergogna nel sapere che i poveri resti di un uomo continuino ad restare esposti in un Museo della democratica Repubblica italiana.
Si accolga quindi la richiesta del suo comune di nascita, Motta Santa Lucia, e gli si dia degna sepoltura.

Congresso PD in Calabria: è la democrazia bellezza.

Logo del PD

Tutti oggi nel PD calabrese chiedono il congresso: fa piacere che quanto gridavamo in solitudine sia oggi patrimonio di tutti. Sappiamo bene, tuttavia, che alcuni, sotto sotto, preferirebbero il contrario e  magari cercano di alimentare conflitti per dare una rappresentazione di un PD lacerato più di quanto sia realmente per continuare a vivere di rendita senza alcun mandato democratico. E’ un giochino tanto scoperto quanto stupido.

La dialettica interna è un dato costitutivo di un partito democratico e i congressi si fanno proprio per confrontare tesi e posizioni politiche diverse. Quella che prenderà più voti governerà il partito. A quella o quelle che perderanno spetterà comunque il compito di concorrere, partendo dalle idee espresse, alla crescita complessiva del partito. E’ la democrazia bellezza. E la democrazia fa paura solo a chi democratico non è.

Si faccia dunque questo benedetto congresso con tutte le garanzie democratiche che il nostro Statuto prevede. Magari diamocene anche di nuove e più stringenti, ma ridiamo la parola ai nostri iscritti e ai nostri elettori.

Affidiamoci dunque a loro con fiducia e con rispetto: sono spesso molto più saggi di noi e comunque solo a loro spetta il compito di decidere.

Purché, però, una volta che hanno deciso, non si parli di potentati, brogli, e popolo pecorone. A quel punto le pernacchie ci sommergeranno.

 

Basta con le ipocrisie sul caso Penati.

Un maledetto imbroglio
Dopo l’ipocrita decisione della Commissione di Garanzia del PD (qualche TV l’ha definita freudianamente Commissione giustizia), apprendiamo che essere iscritti al PD significa rinunciare ai diritti individuali previsti dalla nostra Costituzione. Insomma, abbiamo riscoperto l’uso dei tribunali di partito. Se non fosse tragico direi che è farsesco.
Una decisione assunta solo per tentare di dare una risposta alla vandea giustizialista che imperversa da giorni, strana e inutile visto che il povero Penati aveva già annunciato la sua autosospensione.
Ma non basterà neanche questo: la Vandea come il Terrore si nutrono di sangue sempre fresco, ricordiamocelo.
Si aprirà presto la caccia al politico in quanto tale. Arriverà il momento per cui i politici, tutti senza eccezione, anche i più oscuri segretari di sezione, saranno crocefissi in sala mensa (ricordate l’incubo fantozziano ?) e si spianerà la strada, perché questo è il vero obiettivo, al governo dei tecnici e dell’impresa. Che poi questi tecnici e imprenditori siano spesso più imbroglioni e corrotti dei politici, poco importa. Del resto Berlusconi non è forse un imprenditore sceso in campo contro la vecchia politica ?

Il tradimento è davvero la colpa più grande

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Dante Alighieri al centro dell’Inferno, insieme a Lucifero, traditore di Dio, pone i più grandi traditori della storia, Giuda, Bruto e Cassio. E’ evidente come per il grande fiorentino il peccato più grande fosse il tradimento, il tradimento di Dio e quello di Cesare che impersonava lo Stato. Nel girone precedente sono puniti i traditori dell’ospitalità, nell’ultimo quelli dei benefattori dell’umanità, immersi nel ghiaccio e continuamente dilaniati da Lucifero, che è allo stesso tempo dannato e carnefice, conficcato nel centro dell’Inferno. Perché questa scelta ? Al di là delle diverse interpretazioni, io non sono un dantista, credo che il Sommo Poeta abbia voluto dirci, lui che di
solito ha nei confronti del peccato un atteggiamento ispirato alla pietà, che tradire è davvero il peccato più grande, quello più imperdonabile e il meno giustificabile in assoluto. Tradire la fiducia e la considerazione del proprio prossimo, inteso qui come la persona a cui si sta più vicini e in generale quelle che si ha il dovere di proteggere e sostenere, va al di là di ogni perdono e di ogni possibile redenzione.
E’ davvero così ? Fermo restando che, come in tutte le colpe, non solo da un punto di vista cristiano, esiste un diverso grado di responsabilità e in assoluto una possibilità di redenzione, è davvero il tradimento il peccato più grande ? E il tradimento può trovare una qualche giustificazione ? Forse che Giuda non tradì il Cristo perché deluso dal fatto che non fosse il liberatore politico del popolo ebraico che certa tradizione giudaica individuava nel Messia ? E perché Pietro, che pure rinnega il Cristo è non solo perdonato ma addirittura posto a capo della Chiesa ? Pietro si penti, certo, ma anche Giuda non si pentì del suo gesto fino a punirsi con il suicidio ? E ancora Bruto e Cassio non tradirono forse Cesare per ragioni politiche, volendo restaurare la Repubblica contro la sua dittatura? Non erano forse nobili le loro motivazioni ? Eppure lo stesso nome di Bruto evoca, ancora oggi, l’aberrazione della colpa violenta contro il bene, l’idea stessa del tradimento. Senza tediare oltre io credo che Dante avesse in fondo ragione: tradire è davvero il peccato più grande se ad esso si aggiunge una colpa ancora più grande, la slealtà.
Giuda, a parte il peccato del suicidio, rifiuto della vita dono di Dio, tradì il Cristo sull’onda di un comportamento sleale, perché vendette Gesù ai suoi nemici per denaro, dividendo il suo pane fino all’ultimo istante. Il peccato di Pietro era invece mosso da debolezza e da paura, poteva essere perdonato.
Bruto e Cassio tradirono Cesare per restaurare la Repubblica, ma lo fecero dopo aver accettato da Cesare onori e cariche, comportamento certo poco coerente ad una battaglia politica di cui volevano essere i protagonisti. Se volevano battersi contro Cesare avrebbero potuto farlo apertamente e probabilmente non sarebbero passati alla storia come traditori, ma come combattenti per la libertà. E’ pure vero, però, che senza questo comportamento difficilmente avrebbero potuto sorprendere Cesare e ucciderlo.
Così in politica, ad esempio, cambiare idea o posizione è lecito e frequente, sarebbe incomprensibile se non fosse così. Ovviamente il cambiamento di posizione politica comporta il cambiamento anche di relazioni e alleanze tra gruppi dirigenti. Nulla quaestio, il problema, tuttavia, è anche qui quello della lealtà. Se un politico cambia idea ha il dovere di dirlo, dichiararlo a prescindere dal fatto se ciò gli produrrà un vantaggio o meno, e deve dirlo soprattutto a chi gli è stato più prossimo fino a quel momento. Troppo comodo tradire per avere vantaggi da nuovi padroni quando quelli vecchi non hanno più il potere di garantire quelli prima elargiti, o di garantirli nella stessa entità.
In questo senso credo che tradire sia davvero la colpa più grande. Fermo restando, per i grandi, l’esercizio della facoltà del perdono. Ma il perdono ha anch’esso dei limiti, come ci insegna la vicenda di Giuda ?

Una storia parallela: cangaceiros brasiliani e briganti italiani

Immagini articolo una storia parallela con didascalia
Cosa possono mai avere a che fare i briganti meridionali con un paese lontano e completamente diverso come il Brasile ? Può sembrare strano ma quasi contemporaneamente alle vicende del brigantaggio italiano nel Sud si sviluppò nelle aree più povere dell’immenso stato-continente brasiliano un fenomeno di brigantaggio con caratteristiche assai simili, non solo per il legame con le aspirazioni sociali di una popolazione rurale alla quel venivano conculcati i diritti fondamentali, ma anche per i brutali metodi repressivi adottati per debellarlo.
Fu chiamato “cangaco”, letteralmente “giogo”, per l’abitudine che questi banditi avevano di portare il fucile di traverso sul collo appunto come un giogo dei buoi. L’area in cui questo fenomeno si sviluppò sin dal settecento finendo per assumere caratteri quasi di massa fino alla fine degli anni ’30 del 900 è quella del cosiddetto Nord-Este, caratterizzato dal “sertao”, letteralmente deserto, in realtà una specie di pampa attraversata da pochi fiumi, con scarsissime precipitazioni e da una bassa vegetazione fatta di arbusti e piccoli alberi spinosi denominata “caatinga”. Niente a che vedere con i boschi montani del Mezzogiorno che invece furono il teatro del brigantaggio meridionale, ma simili i problemi sociali: la presenza di grandi proprietari terrieri che avevano monopolizzato il possesso delle rare fonti d’acqua, fondamentali per l’attività prevalente, quella del pascolo di bovini, equini e ovini.
La popolazione del “sertao” (che si estende per gli stati di Cearà, Piauì, Rio Grande do Norte, Paraìba, Pernambuco, Alagoàs, Sergife e Bahia) i “sertanjas”, era composta prevalentemente da meticci dispersi in un territorio immenso e dediti ad attività legate alla pastorizia e ad una agricoltura di sussistenza, sfruttati indiscriminatamente dai “coroneis” (colonnelli). Il termine “coroneis” non aveva un valore militare ma definiva generalmente i grandi latifondisti, alcuni discendenti dei vecchi feudatari portoghesi a cui la corona lusitana aveva affidato il governo politico e militare di quegli immensi territori e che avevano conservato il loro potere con l’indipendenza del Brasile, altri feroci uomini “nuovi” che si buttavano nell’aspra lotta per la conquista della ricchezza rappresentata dalla terra, soprattutto quando, tra la fine dell’800 nei primi decenni del ’900, esplose la febbre del caffè, del cacao e del caucciù che porterà il Brasile ad un poderoso sviluppo economico.
I “coroneis” erano dei padroni assoluti, controllavano la polizia, la magistratura, il governo locale: imponevano il loro potere con la violenza anche direttamente,servendosi di bande armate assoldate alla bisogna, spesso delinquenti comuni ai quali era data licenza di uccidere, stuprare e compiere ogni nefandezza ai danni dei poveri “sertanjas” che erano, nei fatti privati di ogni diritto. Quando la siccità imperversava erano costretti a drammatiche migrazioni in condizioni ambientali terrificanti, senza alcuna speranza di riuscire a sostentare se stessi e le proprie famiglie.
In questo drammatico contesto sociale nacque il “cangaco”: alcuni si ribellavano ad una vita fatta di stenti e sofferenze e si davano alla macchia. Come i briganti, infatti, i “cangaceiros” erano ribelli individuali. Le loro azioni non avevano motivazione sociale, spesso la scelta di vivere come banditi era motivata dalla volontà di vendicare un torto subito da parte di qualche “coronel” o di un loro sgherro. Non disdegnavano, tra l’altro, di mettersi al servizio di qualche “coronel” contro altri o di partecipare a qualcuna delle tante guerre private che si sviluppavano in ragione di antiche faide motivate dalle rivalità tra famiglie (il “sertao” era caratterizzato da una complessa rete di parentele e da forti rivalità tra di esse).
Di fronte ad una vita di stenti e di sopraffazione alcuni sceglievano, quindi, di vivere liberi, imbracciando le armi, abbigliandosi in maniera pittoresca (copricapo a forma di feluca rovesciata e adornato da stelle variopinte, giubba di cuoio e cartucciere a bandoliera incrociate sul petto, revolver, un lungo coltello e fucile, questo era l’abbigliamento e l’armamento tipo del “cangaceiro”). Proprio per questo, nonostante le loro contraddizioni e il fatto di essere non meno violenti e criminali della polizia e degli sgherri dei “coroneis” non disdegnando di taglieggiare gli stessi “sertanjas”, furono subito circondati da un alone di leggenda e di consenso popolare, che determinò il fiorire di una letteratura e di una vera e propria “cultura del cangaco” che dura ancora oggi in varie forme anche se ha conosciuto il suo massimo splendore negli anni ’50 e ’60 con l’uscita di film, libri e dischi ispirati alle loro gesta.
Come tutte le forme di banditismo organizzato il “cangaco” sparì quando il Brasile imboccò con decisione la strada della modernizzazione e mutarono le condizioni economiche e sociali che lo avevano generato.
Contro di esso la repressione da parte dell’esercito e della polizia (che i “cangaceiros” chiamavano con disprezzo “macacos”, scimmie) fu feroce. L’ultima banda di “cangaceiros”, quella del Capitao Virgulino Ferreira detto Lampiao, fu sterminata il 28 luglio del 1938 ad Angico una località montagnosa dello stato di Alagoas. Le teste dei “cangaceiros” furono tagliate dai corpi ancora vivi e messe in recipienti pieni di alcol di canna per essere mostrate in tutti i villaggi del “sertao”, come avveniva qualche decennio prima nel Mezzogiorno d’Italia con le teste dei briganti. Rimarranno esposte nel museo antropologico di Salvador de Bahia fino al 1969, quando il governatore di quello Stato le fece pietosamente seppellire. Sul luogo dell’eccidio proprio uno dei loro implacabili cacciatori, il capitano Joao Bezerra, fece erigere delle croci a ricordo.
Ancora oggi, nel moderno e democratico Brasile di Lula, il posto è oggetto di un flusso di visitatori che ripercorrono la loro triste e avventurosa storia. Film, telenovelas e libri con protagonisti i “cangaceiros” sono ancora oggi prodotti in Brasile riscuotendo un grande successo di pubblico che ci vede un pezzo importante della propria giovane storia.
Una storia drammatica, come si vede, parallela a quella del nostro brigantaggio, con una notazione che riteniamo doverosa. Il cranio del brigante Villella, oggetto degli studi del criminologo Lombroso, è ancora custodito nel museo lombrosiano di Torino. Sarebbe ora che si accogliesse l’appello del sindaco di Motta, il comune che diede i natali a Villella, e gli si desse degna e pietosa sepoltura. E che in Calabria e nel Mezzogiorno si guardasse a quella storia valorizzandone i tratti identitari di una lotta disperata contro la modernità, certo, di persone destinate alla sconfitta perché tentavano di mettersi di traverso ai necessari cambiamenti di una società che evolveva, sicuramente, ma non per questo non meno degna di rispetto e di conoscenza.

Ma è davvero questa la Calabria ?

Mare sporco
Francamente non se ne può più.
Non se ne può più di aprire i giornali la mattina e vedere la nostra Regione descritta come una unica grande emergenza. Mare sporco, criminalità, costi della politica, tutto messo nello stesso calderone, senza distinguo, senza individuazione di vere responsabilità, senza un minimo di proposta per uscire dalla crisi.
Anzi, chi le proposte le fa viene sbeffeggiato e ridotto al silenzio, individuato come conservatore o, peggio, colpevole di reticenza ed omissione nei confronti di una battaglia civica che vuole il rinnovamento e la rinascita della nostra terra.
Ma la verità è che da questa rappresentazione non emergono né la battaglia civica né tantomeno il rinnovamento e la rinascita. Questa impostazione alimenta solo la convinzione che la Calabria, come una parte del Sud, siano ormai perduti, buoni solo per essere annessi a ciò che resta della Libia di Gheddafi.
Ma andiamo nel merito; polemiche sul mare sporco: intendiamoci, nessuno nega che ci siano emergenze ambientali legate al non funzionamento di alcuni depuratori. Bene, perché non si parla di quelle, si individuano le aree a rischio e si interviene denunciando i responsabili con nome e cognome invece di rappresentare una realtà di disastro completo e complessivo ? A parte che l’inquinamento del mare in Calabria è soltanto organico non essendoci, come in altre aree del Paese, attività industriali inquinanti che scaricano nel mare, e quindi di per sé assai meno pericoloso per la salute dei cittadini, ma mi viene da chiedere, come se fossi un bambino di sei anni, avete mai fatto il bagno nella riviera romagnola o in Veneto o nel Lazio ? Il mare di quelle parti, vi assicuro, in confronto al nostro, è certamente più inquinato, eppure nessuno parla e lancia allarmi. Anche la stampa locale di quelle aree interviene per denunciare singoli fatti, senza generalizzazioni e, soprattutto, facendo inchieste mirate che determinano interventi precisi ed efficaci degli organi preposti.
Qui in Calabria, invece, sembra che tutti i gatti siano bigi e che tutto sia uguale all’altro, hai voglia delle lettere di sindaci che assicurano che il mare da loro è pulito, esibendo dati certificati e sventolando le bandiere blu assegnate dalle associazioni ambientaliste. Grida ancora vendetta, poi, la grande bufala delle cosiddette “navi di veleni” di cui non si è trovata traccia e di cui stiamo ancora pagando i danni.
Tralascio qui tutto il ragionamento sulla lotta alla mafia su cui più volte si è discusso: la mafia è una cosa concreta, fatta di persone in carne ed ossa contro cui bisogna lavorare in termini repressivi e culturali sapendo che è un fenomeno umano e che quindi può e deve essere sconfitto con azioni concrete. Dire invece che al Sud tutto è mafia è il modo migliore per farla crescere e sviluppare e rende solo un servizio a certi opinionisti general-generici che sulla lotta alla mafia al massimo riescono a costruire le proprie carriere personali.
Parliamo poi dei costi della politica: tutti leggono si tratti di un problema nazionale, ma no, in Calabria è più speciale degli altri. Io non ho nessuna simpatia politica per il Governatore Scopelliti ma francamente mi sembra che una indennità allineata a quella di un parlamentare, che non ha le stesse responsabilità di un Presidente di Regione (anzi, con lo scandalo del “porcellum” non ha neanche il problema del consenso e quindi del rapporto col territorio che genera maggiori costi della politica), non rappresenti uno scandalo, soprattutto se si considera che le indennità parlamentari sono allineate agli stipendi dei gradi apicali della Magistratura e spesso di molto inferiori a quelli di manager e dirigenti di enti pubblici e privati, dei direttori di testate giornalistiche o di altri colletti bianchi (come si diceva una volta), senza contare i compensi di grandi professionisti o personaggi dello sport e dello spettacolo, di cui nessuno parla e, soprattutto, di cui nessuno si indigna.
Personalmente non ho mai creduto ad una idea comunistica delle retribuzioni: chi ha più responsabilità, chi è più esposto in tutti i sensi, deve poter guadagnare in maniera adeguata. Ciò non toglie che in un periodo di crisi come quello che viviamo, i sacrifici debbano essere proporzionalmente distribuiti tra tutti, e chi ha di più deve dare di più secondo un principio di equità, che è essenziale in democrazia. Però, perché questa battaglia giusta e sacrosanta non si conduce in maniera seria, parlando degli eccessi esistenti in tutti i settori e non solo nella politica ? La politica deve dare l’esempio: ridurre il numero di Consiglieri Regionali e Parlamentari che sono troppi, adeguare le proprie indennità alla media europea mi sembrano proposte di buon senso su cui bisogna spingere senza cadere in facili populismi.
Ma mi chiedo, facciamo un servizio all’opinione pubblica se ce la prendiamo solo con una categoria, tra l’altro quella che, nel bene e nel male, è figlia della volontà popolare al contrario di tante altre, senza guardare alle grandi ingiustizie di un Paese in cui tutto sembra andare avanti secondo il principio della responsabilità limitata ? Facciamo un servizio alla democrazia italiana se alimentiamo una cultura antipolitica da “piove, Governo ladro” che, storicamente ha solo determinato involuzioni e non evoluzioni della stessa democrazia ? Ma ci siamo dimenticati che da “Mani Pulite” non sono scaturite le “magnifiche sorti e progressive” della sinistra italiana e della democrazia ma Berlusconi ed il berlusconismo ? E’ una storia che si ripete, tra l’altro: descrivendo, ingenerosamente, Giolitti come “ministro della malavita” il democratico Gaetano Salvemini non favorì la crescita e l’avanzamento progressista dello Stato liberale che auspicava, ma contribuì alla sua dissoluzione nella tragedia del fascismo e del mussolinismo.
La denuncia dei suoi mali è necessaria in una società, ma per produrre avanzamento non deve essere farisaica e a senso unico, deve essere onesta dando a Cesare quel che è di Cesare rifuggendo dalle generalizzazioni. I colpevoli hanno sempre nome, cognome, residenza e paternità. Il modo migliore per farla fare franca ai colpevoli o addirittura consentire loro di fare ancora più danni e acquisire nuovo potere è dire che tutti sono colpevoli. Essere tutti colpevoli non porta a punizioni collettive ma solo a generali autoassoluzioni e fa dei più colpevoli dei nuovi e più spregiudicati dirigenti.

Bocca antitaliano e antimeridionale…

Giorgio Bocca
Si parla molto del volumetto pubblicato da Rubbettino (“Aspra Calabria”) che riprende una parte di un vecchio libro di Giorgio Bocca uscito nel 1992 (“L’Inferno”).
Gli scritti di Giorgio Bocca, introdotti da una autorevole prefazione di Eugenio Scalfari non ci sorprendono più. Non ci sorprende il tono moralistico, la tendenza manichea tipica di certa cultura azionista a cui Bocca appartiene.
Il Partito d’Azione, che riprendeva una vecchia dicitura mazziniana, fu un’effimera formazione politica protagonista della guerra partigiana, di tendenza laica, radical-democratica e socialista liberale che finì schiacciato dalla presenza di grandi partiti di massa come il PCI, il PSI e la DC.
I suoi uomini erano personalità assai colte che sognavano un’Italia che si mondava dal fascismo ma anche da certi suoi atavici mali morali che elencavano nella sua tendenza alla corruzione, nell’influenza clericale, nella dimensione politicista della sua politica.
I libri di Bocca sono tutti intrisi di questa rabbia di sconfitti politici costretti a vivere in un Paese che li guarda spesso senza comprenderli, diffidente rispetto alla loro tendenza ad ergersi a giudici sulla base di una superiorità etico-morale che pochi sono disponibili a riconoscergli.
Bocca e molti come lui appartengono a quella categoria delle classi dirigenti progressiste che sono portati a scambiare i loro desideri con la realtà, intrisi comunque da un’ansia pedagogica che non li fa amare. Non amano la realtà che li circonda e la declinano con un tono pessimista, odiando la politica che invece con quella realtà deve misurarsi quotidianamente, anche e soprattutto se vuole cambiarla. Anzi, la fatica riformista risulta essere loro detestabile, la scambiano spesso con il compromesso o, peggio, la compromissione.
Sono giustizialisti, nell’accezione che il termine ha assunto negli ultimi anni, perché convinti che il bene sta tutto da una parte (la loro) e il male dall’altra.
La visione che costoro hanno del Mezzogiorno risente di questa tara culturale: lo guardano, lo giudicano, ma non lo comprendono. Spesso scambiano le cause con gli effetti.
Per loro, ad esempio, mafia ed illegalità sono una tara quasi genetica dei meridionali, il frutto stesso del loro sottosviluppo più culturale che economico e sociale. Da qui la loro tendenza a dividere la società meridionale in buoni e cattivi, a rappresentarla solo come lotta tra difensori della legge e dello Stato e delinquenti e mafiosi.
Il parallelo con il Vietnam del Sud sconvolto dalla guerra degli anni ’70 è significativo: nel Sud d’Italia c’è una guerra non la lotta per la legalità che invece è normale in un Paese democratico. Gli USA hanno avuto ed hanno una delle mafie più pericolose del mondo eppure a nessun giornalista americano è venuto mai in mente un paragone con il Vietnam o l’Afghanistan.
Il libro si legge dunque per quello che è: l’ennesima operazione editoriale a cui si presta ora una casa editrice calabrese prestigiosa come “Rubettino” che riprende con la prefazione di Scalfari uno scritto datato: la mafia aspromontana dei sequestri di persona, per esempio, è sparita da tempo proprio grazie alle leggi dello Stato democratico ed alla sua azione repressiva che ha reso non vantaggiose per i sequestratori operazioni di questo genere (a proposito del fatto che la Sud non cambia mai niente).
I mali del Sud e della Calabria restano tanti e grandi ma si possono affrontare con la legge dello Stato, la crescita, come pure sta avvenendo, della sensibilità antimafia e per la legalità che sta interessando anche le regioni meridionali. Il Sud sta lottando e deve essere aiutato, sostenuto nella sua lotta. Intanto va aiutato sul piano dello sviluppo economico, facendo al Sud né più e né meno di quello che si fa al Nord. E invece non avviene ciò, anzi, al contrario. Gioia Tauro, citata nel testo, rischia di diventare l’ennesima speranza delusa con la chiusura del porto, così come lo fu il polo siderurgico ai tempi di Bocca. E la scusa è sempre la stessa: in Calabria c’è la mafia, alimentando il circolo vizioso che vede meno sviluppo, più mafia e la mafia utilizzata per giustificare il mancato sostegno allo sviluppo del Sud.
Per questo il libro di Bocca non mi piace, così come non mi piace anche il dibattito che si è sviluppato attorno ad esso: troppe voci indignate e ipocrite spesso silenti, spesso subalterne a quanto invece si fa e si dice al Nord.
Il grande storico Gaetano Cingari diceva che le grandi testate giornalistiche al Sud scendono, non salgono. Voleva denunciare da una parte la mancanza di una voce meridionale di portata nazionale capace di sostenere lo sforzo di un Mezzogiorno che voleva riscattarsi, ma anche la subalternità della cultura e della intellettualità meridionale a stereotipi confezionati nelle parti più ricche del Paese.
Cingari aveva ragione. Facciamo in modo che questa indignazione, salutare, possa sostenere una politica, non rappresenti solo orgoglio ferito o protesta sterile.
Noi calabresi e meridionali siamo Italia e non altro. Dimostriamolo.

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