Brasile
Ciao Paolo…
Sei stato un grande dentro e fuori dal campo. E ci regalasti il sogno di quei mondiali del 1982, quelli in cui, partiti male, arrivammo alla fine battendo le più grandi squadre della Terra: Argentina, Brasile, Germania. Ricordo Cosenza quella notte della finale ma ancor prima il pomeriggio al cardiopalma della partita col Brasile di Zico e Falcao. Fu certamente vera gloria…un grande abbraccio Paolo Rossi…
La pura arroganza
C’è qualcosa di davvero insopportabile in questa vicenda di Cesare Battisti: la sua arroganza. Che costui non sia affatto un perseguitato della giustizia italiana (verso la quale, personalmente, ho un giudizio, per usare un eufemismo, assai articolato) lo dicono i fatti, le sentenze passate in giudicato per omicidi che di politico non avevano nulla. Cesare Battisti non è uno Scalzone, un Moretti, un Curcio o una Faranda, personaggi discutibili per gli atti terribili compiuti ma comunque dotati di una certa “dignità”. Battisti è un delinquente comune che negli anni di piombo ammantò di una patina politica le sue azioni ai danni di poveri cristi. Un uomo dotato di una certa capacità di fascinazione che ha preso per il culo intellettuali della gauche francese e veri combattenti durante una feroce dittatura come Lula e la Rousseff. Il suo brindisi e il suo sorriso suonano come un insulto non solo per i familiari delle sue vittime ma anche per quanti, in questi anni, dopo l’esperienza drammatica del terrorismo, si sono assunti le loro responsabilità politiche e affrontato le conseguenze giudiziarie delle loro azioni. Battisti è solo pura arroganza e solo per questo merita la galera (pur essendo io tra quelli che difficilmente la augura a qualcuno), dove spero possa andare al più presto.
Risolvere il problema del “nostro” Sud.
Pubblicato su “Il Garantista” del 2 agosto 2015
In tutti i paesi la questione dello sviluppo unitario dei territori ha storicamente rappresentato una questione nazionale che è stata risolta a volte pacificamente e democraticamente a volte con la violenza e la guerra. Perché ogni paese ha un “nord” ed un “sud” e c’è sempre un “nord” più “nord”.
Prendiamo, ad esempio, gli USA, dove la questione Nord-Sud fu affrontata e risolta nel quadro di una delle più feroci guerre dell’età moderna, quando il problema dell’abolizione della schiavitù altro non era che la rappresentazione di un feroce conflitto tra due modelli di sviluppo, uno industriale e proteso all’espansione internazionale, l’altro agrario e chiuso in una dimensione tradizionale di una economia coloniale o post-coloniale.
Si pensi all’URSS staliniana dove industrializzazione e liquidazione brutale dell’economia contadina dentro il quadro ideologico della eliminazione dei kulaki come classe altro non erano che la scelta di un modello di sviluppo che si voleva in grado di competere con le altre potenze capitalistiche. Continua a leggere
Quando a morire in mare eravamo noi italiani
24 agosto 1880 – Piroscafo italiano “Ortigia”. Affonda al largo della costa argentina per speronamento accidentale con un mercantile, 149 morti.
17 marzo 1891- Bastimento inglese “Utopia”, partito da Trieste con scalo a Napoli. Urta contro una corazzata nello stretto di Gibilterra e affonda. 576 vittime, in prevalenza italiani provenienti da Campania, Abruzzo e Calabria.
4 luglio 1898 – Nave francese “Bourgogne” affondata al largo della Nuova Scozia 549 morti, Continua a leggere
Una storia parallela: cangaceiros brasiliani e briganti italiani
Cosa possono mai avere a che fare i briganti meridionali con un paese lontano e completamente diverso come il Brasile ? Può sembrare strano ma quasi contemporaneamente alle vicende del brigantaggio italiano nel Sud si sviluppò nelle aree più povere dell’immenso stato-continente brasiliano un fenomeno di brigantaggio con caratteristiche assai simili, non solo per il legame con le aspirazioni sociali di una popolazione rurale alla quel venivano conculcati i diritti fondamentali, ma anche per i brutali metodi repressivi adottati per debellarlo.
Fu chiamato “cangaco”, letteralmente “giogo”, per l’abitudine che questi banditi avevano di portare il fucile di traverso sul collo appunto come un giogo dei buoi. L’area in cui questo fenomeno si sviluppò sin dal settecento finendo per assumere caratteri quasi di massa fino alla fine degli anni ’30 del 900 è quella del cosiddetto Nord-Este, caratterizzato dal “sertao”, letteralmente deserto, in realtà una specie di pampa attraversata da pochi fiumi, con scarsissime precipitazioni e da una bassa vegetazione fatta di arbusti e piccoli alberi spinosi denominata “caatinga”. Niente a che vedere con i boschi montani del Mezzogiorno che invece furono il teatro del brigantaggio meridionale, ma simili i problemi sociali: la presenza di grandi proprietari terrieri che avevano monopolizzato il possesso delle rare fonti d’acqua, fondamentali per l’attività prevalente, quella del pascolo di bovini, equini e ovini.
La popolazione del “sertao” (che si estende per gli stati di Cearà, Piauì, Rio Grande do Norte, Paraìba, Pernambuco, Alagoàs, Sergife e Bahia) i “sertanjas”, era composta prevalentemente da meticci dispersi in un territorio immenso e dediti ad attività legate alla pastorizia e ad una agricoltura di sussistenza, sfruttati indiscriminatamente dai “coroneis” (colonnelli). Il termine “coroneis” non aveva un valore militare ma definiva generalmente i grandi latifondisti, alcuni discendenti dei vecchi feudatari portoghesi a cui la corona lusitana aveva affidato il governo politico e militare di quegli immensi territori e che avevano conservato il loro potere con l’indipendenza del Brasile, altri feroci uomini “nuovi” che si buttavano nell’aspra lotta per la conquista della ricchezza rappresentata dalla terra, soprattutto quando, tra la fine dell’800 nei primi decenni del ’900, esplose la febbre del caffè, del cacao e del caucciù che porterà il Brasile ad un poderoso sviluppo economico.
I “coroneis” erano dei padroni assoluti, controllavano la polizia, la magistratura, il governo locale: imponevano il loro potere con la violenza anche direttamente,servendosi di bande armate assoldate alla bisogna, spesso delinquenti comuni ai quali era data licenza di uccidere, stuprare e compiere ogni nefandezza ai danni dei poveri “sertanjas” che erano, nei fatti privati di ogni diritto. Quando la siccità imperversava erano costretti a drammatiche migrazioni in condizioni ambientali terrificanti, senza alcuna speranza di riuscire a sostentare se stessi e le proprie famiglie.
In questo drammatico contesto sociale nacque il “cangaco”: alcuni si ribellavano ad una vita fatta di stenti e sofferenze e si davano alla macchia. Come i briganti, infatti, i “cangaceiros” erano ribelli individuali. Le loro azioni non avevano motivazione sociale, spesso la scelta di vivere come banditi era motivata dalla volontà di vendicare un torto subito da parte di qualche “coronel” o di un loro sgherro. Non disdegnavano, tra l’altro, di mettersi al servizio di qualche “coronel” contro altri o di partecipare a qualcuna delle tante guerre private che si sviluppavano in ragione di antiche faide motivate dalle rivalità tra famiglie (il “sertao” era caratterizzato da una complessa rete di parentele e da forti rivalità tra di esse).
Di fronte ad una vita di stenti e di sopraffazione alcuni sceglievano, quindi, di vivere liberi, imbracciando le armi, abbigliandosi in maniera pittoresca (copricapo a forma di feluca rovesciata e adornato da stelle variopinte, giubba di cuoio e cartucciere a bandoliera incrociate sul petto, revolver, un lungo coltello e fucile, questo era l’abbigliamento e l’armamento tipo del “cangaceiro”). Proprio per questo, nonostante le loro contraddizioni e il fatto di essere non meno violenti e criminali della polizia e degli sgherri dei “coroneis” non disdegnando di taglieggiare gli stessi “sertanjas”, furono subito circondati da un alone di leggenda e di consenso popolare, che determinò il fiorire di una letteratura e di una vera e propria “cultura del cangaco” che dura ancora oggi in varie forme anche se ha conosciuto il suo massimo splendore negli anni ’50 e ’60 con l’uscita di film, libri e dischi ispirati alle loro gesta.
Come tutte le forme di banditismo organizzato il “cangaco” sparì quando il Brasile imboccò con decisione la strada della modernizzazione e mutarono le condizioni economiche e sociali che lo avevano generato.
Contro di esso la repressione da parte dell’esercito e della polizia (che i “cangaceiros” chiamavano con disprezzo “macacos”, scimmie) fu feroce. L’ultima banda di “cangaceiros”, quella del Capitao Virgulino Ferreira detto Lampiao, fu sterminata il 28 luglio del 1938 ad Angico una località montagnosa dello stato di Alagoas. Le teste dei “cangaceiros” furono tagliate dai corpi ancora vivi e messe in recipienti pieni di alcol di canna per essere mostrate in tutti i villaggi del “sertao”, come avveniva qualche decennio prima nel Mezzogiorno d’Italia con le teste dei briganti. Rimarranno esposte nel museo antropologico di Salvador de Bahia fino al 1969, quando il governatore di quello Stato le fece pietosamente seppellire. Sul luogo dell’eccidio proprio uno dei loro implacabili cacciatori, il capitano Joao Bezerra, fece erigere delle croci a ricordo.
Ancora oggi, nel moderno e democratico Brasile di Lula, il posto è oggetto di un flusso di visitatori che ripercorrono la loro triste e avventurosa storia. Film, telenovelas e libri con protagonisti i “cangaceiros” sono ancora oggi prodotti in Brasile riscuotendo un grande successo di pubblico che ci vede un pezzo importante della propria giovane storia.
Una storia drammatica, come si vede, parallela a quella del nostro brigantaggio, con una notazione che riteniamo doverosa. Il cranio del brigante Villella, oggetto degli studi del criminologo Lombroso, è ancora custodito nel museo lombrosiano di Torino. Sarebbe ora che si accogliesse l’appello del sindaco di Motta, il comune che diede i natali a Villella, e gli si desse degna e pietosa sepoltura. E che in Calabria e nel Mezzogiorno si guardasse a quella storia valorizzandone i tratti identitari di una lotta disperata contro la modernità, certo, di persone destinate alla sconfitta perché tentavano di mettersi di traverso ai necessari cambiamenti di una società che evolveva, sicuramente, ma non per questo non meno degna di rispetto e di conoscenza.
Caso Battisti, Vendola e il perseverare di certa sinistra…
Francamente mi aspettavo la risposta che il leader di SEL avrebbe dato alla conduttrice Lilli Gruber sul caso Battisti. Sostanzialmente Vendola sostiene che, quando è passato troppo tempo dal delitto la pena perde di senso. Rimane (e vorrei vedere) il rispetto e la partecipazione al dolore delle vittime. Aggiungendo che sulla stagione del terrorismo era necessaria anche una soluzione politica e non solo giudiziaria. Sono posizioni che Vendola aveva anche espresso in passato, quindi non sorprendono, ma continuano ad indignarmi.
Perché da garantista convinto credo nella giustizia e la giustizia non ha una scadenza temporale, è un principio che giustamente viene posto, dalla nostra Costituzione e da tutta la tradizione liberal-democratica, in una dimensione assolutamente sganciata da qualsivoglia tipo di contingenza.
La verità è che in Italia, a sinistra e a destra, continua a prevalere una visione ideologica e politica della giustizia, con buona pace dei principi più elementari di rispetto delle garanzie e dell’equilibrio e separazione tra poteri.
Sono pronto a scommettere 100 euro contro un fagiolo che se al buon Nichi avessero chiesto che cosa ne pensasse del fatto che un tribunale italiano, dopo oltre cinquant’anni dal fatto, abbia condannato un vecchietto come Priebke per la strage della Ardeatine, avrebbe risposto che era giusto e sacrosanto che la giustizia facesse il suo corso, anche per rispetto del dolore delle vittime.
Io credo, invece, che come è stato giusto processare Priebke e offrirgli cioè quelle garanzie che lui negò alle sue vittime e, infine condannarlo ad una pena infine mitigata da altrettante garanzie in considerazione della sua veneranda età (a cui lui è arrivato e le sue vittime no), allo stesso modo era giusto che il Brasile concedesse l’estradizione per un soggetto condannato in forma definitiva che si era macchiato di delitti aberranti che poco avevano a che fare con qualsivoglia ideologia rivoluzionaria.
Perché me lo devono spiegare, brasiliani, intellettuali francesi e italiani che hanno difeso questo soggetto come se fosse un Garibaldi o un Che Guevara (come dice Merlo su Repubblica di ieri) perseguitato dalla giustizia di uno Stato autoritario, cosa c’entra con la rivoluzione ammazzare un macellaio o un gioielliere a scopo di rapina.
Né vale prendersela con il Berlusconi che all’estero denigra la magistratura italiana se anche a sinistra sugli anni di piombo permangono giudizi come quello su Battisti, corroborati da appelli di intellighenzia a cui anche certi campioni della lotta per la legalità come Saviano avevano inizialmente dato il loro assenso (salvo poi ritirarlo di fronte al montare della protesta dell’opinione pubblica italiana). Sono due facce della stessa moneta, purtroppo.
La giustizia italiana ha tanti difetti, non c’è dubbio, ma il suo difetto principale è la politicizzazione che emerge spesso al suo interno e al suo esterno. Politicizzazione che continua ad operarsi sia a destra che a sinistra, purtroppo. Io continuo a credere che la giustizia debba essere il più possibile autonoma dalla politica e viceversa. Su questo si basa il principio assolutamente liberale e democratico della separazione dei poteri. Entrambe, politica e giustizia, sarebbero più forti, entrambe farebbero meglio il loro dovere per il bene dei cittadini se rispettassero questo principio.
La vicenda Battisti mette a nudo la superficialità di tanta intellighenzia italiana nella lettura degli anni di piombo.
C’è un aspetto della vicenda Cesare Battisti che deve far riflettere, soprattutto in una parte della sinistra e, più in generale, della intellighenzia italiana.
Si tratta della tendenza a guardare alla vicenda del terrorismo in Italia come ad una “guerra civile”, come se davvero la violenza politica degli anni ’70 avesse un qualche fondamento o giustificazione morale e politica.
Questa lettura è stata propalata sia durante quel drammatico periodo (come dimenticare l’agghiacciante frase “compagni che sbagliano” o certi editoriali di alcuni maitre a penser ?) sia dopo, a terrorismo sconfitto, quando i protagonisti di quei terribili avvenimenti, dopo galera, pentitismi e revisioni, hanno continuato ad occupare i media e l’editoria italiana assai generosa di spazi e considerazione nei loro confronti.
Siamo infatti il Paese in cui a ex terroristi rossi e neri sono aperte le porte della grande editoria e della grande stampa mentre le loro vittime sono relegate nel limbo di una retorica dimenticanza. Alzi la mano chi riesce a fare almeno dieci nomi delle centinaia di vittime del terrorismo (Sergio Zavoli ha contato 428 morti e circa 2000 feriti) in quasi vent’anni di stragi, attentati, agguati e aggressioni che colpirono poliziotti e carabinieri, magistrati, funzionari, uomini politici, giornalisti e gente comune. Al contrario i nomi di coloro che molti di quelle azioni criminali compirono sono assai noti e continuano, in gran parte, ad occupare stampa e televisioni.
Pur rifuggendo da facili generalizzazioni, che sono sempre sbagliate, questo contrasto è assai evidente, pur nel quadro di uno Stato democratico che, nel complesso ha saputo chiudere con le armi della democrazia e della giustizia una delle pagine più buie della propria storia.
Si tratta di un atteggiamento culturale che, da parte di certa intellighenzia, tende a guardare alla vicenda storica italiana (passata e vicina) con superficialità. Pesa su questo atteggiamento una visione scarsamente consapevole del valore dello Stato e delle istituzioni quali garanti del sistema democratico, lo stesso sentirsi parte di una “patria” comune. Le istituzioni sono percepite quasi sempre come “oppressive” o distanti dal cittadino e non come frutto della libera scelta della comunità nazionale di cui tutti, nessuno escluso, sono responsabili.
Il senso della comunità nazionale affiora, purtroppo, solo quando questo viene preso a schiaffi, com’è avvenuto nella vicenda Battisti.
Il Presidente Lula ha giustificato la sua scelta sulla base di una sentenza dell’Avvocatura dello Stato brasiliana perché in Italia ci sarebbe “uno stato d’animo che giustifica preoccupazioni per la concessione dell’estradizione di Battisti, a causa del peggioramento della sua situazione personale”.
Lula, i cui meriti verso il suo popolo e verso la comunità internazionale sono indubbi, non sa che in Italia molti ex terroristi hanno pagato i loro debiti con la giustizia e oggi vivono le loro vite godendo di tutte quelle libertà che volevano conculcare con le loro azioni, che il loro destino è stato sicuramente molto migliore di quello che hanno riservato alle vittime della loro aberrante ideologia.
Ha pesato, a mio parere, su questa decisione, la pressione di alcuni intellettuali della sinistra francese che di Battisti hanno fatto una vera e propria icona negli ultimi anni e il passato di oppositore di una terribile dittatura militare dello stesso Lula, un dramma che ha segnato gran parte della sinistra sudamericana negli anni della guerra fredda. Una decisione sbagliata che schiaffeggia la giustizia e la democrazia italiana che il nostro Paese deve far rivedere usando tutto ciò che il diritto internazionale mette a sua disposizione.
A noi italiani questa equiparazione tra l’Italia degli anni ’70 e le contemporanee dittature militari sudamericane appare assurda. Cesare Battisti, poi, è solo un volgare assassino e rapinatore che della politica ha fatto solo una comoda coperta di cui si serve, con spudoratezza, ancora oggi. Ci deve ancora spiegare quale azione rivoluzionaria rappresenti l’omicidio di un gioielliere o di un macellaio. Ma quella coperta di Battisti, purtroppo, l’hanno cucita in molti, anche in Italia.
Un solo auspicio, dunque: che questa vicenda sia di insegnamento a tanti superficiali commentatori: negli anni ’70 in Italia non si combatté una guerra civile, ma uno Stato democratico sconfisse, pagando un duro prezzo in termini di vite umane, un terribile disegno eversivo, vincendo con le armi della giustizia e della democrazia.
Le ragioni e i torti sono, dunque, chiari: che nessuno lo dimentichi, perché questo è il nostro Paese, nonostante tutto.