Calabria Ora
Cinque anni fa la proposta di reddito minimo in Calabria
Pubblicato su “Il Garantista” del 16 novembre 2015.
Sono passati cinque anni da quando il direttore Piero Sansonetti (con al seguito un Davide Varì ancora “pischello” come dicono a Roma) appena giunto in Calabria, organizzò un convegno nel corso del quale Enza Bruno Bossio lanciò la proposta del reddito minimo in Calabria.
Allora non c’erano i cinque stelle in parlamento e il dibattito su questo tema era affidato ai pochi testardi che ci credevano.
La stessa Bruno Bossio non era ancora deputata ma soltanto componente della Direzione Nazionale del PD a trazione Bersani che sul reddito minimo aveva sempre dimostrato una certa freddezza.
Proporre il reddito minimo dalla Calabria governata da Giuseppe Scopelliti e in una Italia ancora dominata da Berlusconi sembrava, in effetti, un’utopia.
Eppure fu proprio in quei giorni di novembre del 2010 che cominciò lentamente una “lunga marcia” con la costituzione dei Comitati per il reddito minimo in diversi comuni calabresi, la raccolta di oltre 10mila firme a sostegno di una proposta di legge regionale di iniziativa popolare e il pronunciamento di numerosi consigli comunali. Continua a leggere
UN ABBRACCIO, ALESSANDRO…
Non si può morire a 40 anni. Non si può scegliere di uccidersi a 40 anni.
Aprendo il giornale stamattina ho pensato solo questo. E continuo ad avere un nodo in gola. Non lo accetto che Alessandro Bozzo non ci sia più.
Conoscevo Alessandro sin da quando aveva cominciato il mestiere di giornalista. Cortese, sorridente, con le sue idee che non nascondeva e che spesso non coincidevano con le mie. Ma era un giornalista di razza, furbo, intuitivo, sempre sulla notizia.
Mi era simpatico, anche quando ci litigavo sulle interpretazioni che dava ad alcuni fatti nei suoi articoli. Lo stimavo e anche lui stimava me. Ce lo eravamo detti tante volte.
Negli ultimi tempi non ci sentivamo spesso perché seguiva la cronaca. L’ultima volta è stata la sera delle elezioni. Mi mandò un SMS con il quale commentava duramente il voto e il comportamento del PD e del centrosinistra. Lo richiamai e continuammo a beccarci, simpaticamente, come avevamo sempre fatto. Mi ricordo che gli dissi che era il solito massimalista antipolitico.
Poi la notizia oggi. E davvero non ho più parole da dire se non quelle con le quali ci salutavamo sempre: “un abbraccio”.
29 AGOSTO 1862: IL RISORGIMENTO FINI’ IN CALABRIA. 150 anni fa, Garibaldi veniva ferito dai bersaglieri in Aspromonte
Pubblicato su “Calabria Ora” del 29 agosto 2012
Per quelli della mia generazione, quando il il Risorgimento si studiava alle scuole elementari, era molto familiare una canzone sul ritmo della marcia dei bersaglieri che diceva “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba…”.
Quella canzone ricorda un episodio poco frequentato dalla agiografia risorgimentale e che accadde proprio in Calabria il 29 agosto del 1862 sull’Aspromonte. Significativo il fatto che l’unica ferita piuttosto grave in decenni di scontri in ogni parte del globo, il famoso Eroe dei Due Mondi la prese per un colpo sparatogli dai bersaglieri di quella nuova Italia che proprio lui aveva tanto contribuito a costruire in decenni di battaglie e con la straordinaria impresa dei Mille di appena due anni prima.
Ma come si giunse a questo scontro a fuoco che simbolicamente suggella la fine del Risorgimento e l’inizio della travagliata storia del nuovo Stato italiano, episodio ben ricostruito nel suo splendido film “Noi credevamo” dal regista Martone ?
Il Regno d’Italia era stato proclamato il 17 marzo del 1861 dal Parlamento di Torino dopo più di quarant’anni di moti, rivolte e guerre. Decisivo era stato il compromesso tra democratici e moderati, con l’accettazione da parte dei primi della formula monarchica con a capo Vittorio Emanuele II di Savoia ”purché l’Italia, finalmente, si facesse davvero”.
Garibaldi era stato il principale fautore di questo accordo in polemica con l’intransigenza di Mazzini, consapevole che solo la forza militare del piccolo stato piemontese, l’unico dotato di un vero esercito e ormai schierato sul terreno liberale (Vittorio Emanuele non aveva revocato, nonostante le pressioni austriache dopo la sconfitta del 1848, lo Statuto concesso dal padre Carlo Alberto), avrebbe potuto realizzare il sogno di una Italia libera e unita dalle Alpi alla Trinacria, come si diceva allora.
E nel biennio 1859-1860 il sogno per i quali tanti erano morti e avevano patito anni di prigione e di esilio comminati dagli autoritari stati preunitari (per i quali certo neonostalgismo da operetta appare davvero ridicolo) la combinazione della vittoriosa guerra contro l’Austria con l’appoggio delle armate francesi di Napoleone III e della straordinaria impresa garibaldina contro il Regno delle Due Sicile, consentì di proclamare il Regno d’Italia. Mancavano però ancora il Veneto, il Friuli e il Trentino, rimasti sotto la corona austriaca, e Roma e il Lazio, rimasti sotto il dominio temporale di papa Pio IX ma, soprattutto, sotto la protezione dell’imperatore francese che non intendeva perdere l’appoggio dei cattolici francesi.
Del resto Roma rappresentava per tutto lo schieramento liberale ed indipendentista italiano un obiettivo prioritario. Senza Roma capitale, l’Italia non ci sarebbe mai stata davvero.
Lo stesso Cavour, primo artefice dell’alleanza con la Francia e Napoleone III, aveva fatto proclamare dal Parlamento “Roma capitale” come obiettivo fondamentale del processo unitario italiano già nel marzo del 1861, pochi mesi prima della sua prematura scomparsa.
Per i democratici e Garibaldi Roma rappresentava poi il simbolo stesso della lotta risorgimentale, il sogno della loro gioventù quando nel 1849 avevano proclamato e diretto (Mazzini politicamente e Garibaldi coprendosi di gloria combattendo conto le armate francesi) la straordinaria, anche se breve, esperienza della repubblica romana.
Fosse stato per Garibaldi dopo aver sconfitto i borbonici sul Volturno nell’ottobre del 1860 l’impresa dei Mille avrebbe dovuto proseguire fino alla liberazione di Roma, ma fu Vittorio Emanuele II a fermarlo, su pressione di Cavour che temeva una guerra con la Francia e un terremoto nella politica europea del tempo.
Due anni dopo, siamo nel giugno del 1862, Garibaldi decide di lasciare Caprera e andare in Sicilia. Le cose non vanno bene per il giovane Stato. Praticamente tutto il Mezzogiorno continentale è percorso da una vera e propria guerra civile, il brigantaggio, contro il quale è schierato un terzo degli effettivi dell’esercito italiano in una lotta senza quartiere.
Eppure Garibaldi è accolto con grande entusiasmo in Sicilia e ben presto attorno a lui si radunano circa 2000 volontari armati, pronti a rinverdire le gesta della spedizione dei Mille. Risuona nell’isola il grido: “Roma o morte” e il fascino dell’Eroe dei Due Mondi diventa ancora una volta il catalizzatore di speranze di vario tipo, non ultime quelle di riscatto sociale e di eroica ripresa dell’iniziativa democratica di fronte al grigiore conservatore dell’Italietta savoiarda e “piemontese”.
Il governo, presieduto da Urbano Rattazzi è attonito, incerto. Lascia i suoi funzionari periferici per il momento senza ordini. La cosa più logica sarebbe fermare Garibaldi, magari farlo arrestare prima che faccia danni e provochi una guerra con la Francia. Napoleone III tempesta le cancellerie italiane di messaggi preoccupati e minacciosi. Il re Vittorio Emanuele II è costretto ad intervenire con parole che sanno di sconfessione, contro certi imprudenti iniziative.
Ma Garibaldi non ne tiene conto: già due anni prima Cavour chiedeva che lo si fermasse e Vittorio Emanuele gli scriveva due lettere, una con la quale gli chiedeva di obbedire al Primo Ministro e una con la quale lo invitava a proseguire nella sua impresa e sbarcare in Calabria. L’atteggiamento dell’esercito e della marina sembrano dare ragione a Garibaldi: in Sicilia è lasciato indisturbato nella sua opera di reclutamento e di raccolta delle armi, gli lasciano requisire due battelli per la traversata dello Stretto e solo quando è ormai sbarcato a Melito Porto Salvo, lo stesso posto di due anni prima, gli tirano un paio di cannonate, ma senza troppa convinzione.
Garibaldi si dirige verso l’Aspromonte dove lo raggiungono altri volontari tra cui calabresi, popolani e contadini che continuano a vederlo come “portatore di riscatto, punitore di quegli avversari di classe che avevano tradito entrambi” (A. Placanica, “Storia della Calabria”, Roma, Donzelli, 1999, p.343).
A questo punto, però, il governo interviene: manda contro i garibaldini un distaccamento di bersaglieri comandati dal colonnello Emilio Pallavicini, un tipo “tosto” disponibile anche a sparare contro un monumento nazionale se le circostanze lo avessero richiesto.
Ed è sulla montagna calabrese che i bersaglieri, circa 3500, intercettano i garibaldini. Nonostante Garibaldi avesse dato ordine di non sparare e di non rispondere al fuoco per non fare la guerra contro fratelli, lo scontro ci fu ugualmente e provocò 12 morti e 34 feriti. Lo stesso Garibaldi, che si era fatto avanti forse sperando che alla sua vista i bersaglieri si unissero a lui, fu raggiunto da due colpi, uno all’anca e l’altro nella caviglia che gli provocò una brutta ferita che lo costrinse a mesi e mesi di immobilità.
Si chiudeva, così, nel peggiore dei modi, un episodio assai controverso della nostra storia, con i bersaglieri italiani, un simbolo del nostro Risorgimento, che sparavano contro i garibaldini e il loro capo, altri simboli della nostra epopea nazionale.
Il governo Rattazzi finì nelle polemiche per le sue incertezze inziali e dovette dimettersi, molti funzionari persero il posto, mentre Garibaldi fu rinchiuso nel penitenziario di Varignano, da cui uscì nell’ottobre di quell’anno per effetto dell’amnistia concessa dal re in occasione delle nozze della figlia di Vittorio Emanuele con il re del Portogallo. Una comoda via d’uscita, perché lo Stato italiano non poteva certo permettersi di tenere in prigione troppo a lungo il suo più grande eroe, noto in tutto il mondo.
Un episodio triste, che vide contrapposti ancora una volta gli ideali alla ragion di Stato, il cuore alla ragione. Per la cronaca, dopo un altro sanguinoso tentativo fatto da Garibaldi nel 1867 nella battaglia di Mentana, dove fu sconfitto da francesi e pontifici armati di modernissimi fucili a retrocarica, Roma sarà liberata dai bersaglieri solo nel 1870, dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan ad opera dei prussiani.
Garibaldi, da generoso qual’era, andrà a combattere la sua ultima guerra, ormai anziano e afflitto dall’artrite, proprio in difesa della neonata III Repubblica francese contro i prussiani dimostrando ancora una volta che per lui, la libertà dei popoli era un valore da difendere sempre e comunque, al di là delle convenienze e delle “ragioni di stato”.
Giuseppe Meluso, la guida calabrese dei fratelli Bandiera. Il nuovo libro di Salvatore Meluso.
Pubblicato su Calabria Ora del 9 giugno 2012
E’ appena uscito per i tipi di “Calabria Letteraria” l’ultimo saggio di Salvatore Meluso dal titolo La guida calabrese dei fratelli Bandiera. Vita straordinaria di Giuseppe Meluso.
Salvatore Meluso (San Giovanni in Fiore, 1926) non è nuovo a questi studi, anzi si può dire senza tema di essere smentiti, che molti dei punti ancora oscuri della presenza in Calabria della sfortunata spedizione dei due fratelli veneziani, sono stati chiariti proprio grazie al lavoro minuzioso e certosino negli archivi di Napoli, Catanzaro e Cosenza di questo attento ricercatore.
Il libro di Meluso ci dimostra, infatti, come spesso siano proprio le cose più evidenti ad essere quelle meno conosciute e più facili alle manipolazioni successive. In particolare Salvatore Meluso si è soffermato sulla figura della guida calabrese della cosiddetta “banda degli esteri” capeggiata dai due fratelli veneziani, quel Giuseppe Meluso, sangiovannese esule a Corfù, che si aggregò alla spedizione con funzioni di guida, l’unico a sfuggire alla cattura dopo l’agguato alla Stragola.
Questo personaggio, certamente assai complesso e contraddittorio, era scappato nell’isola greca sin dal 1834 per sfuggire a condanne per reati di “brigantaggio”, mettendosi al servizio di altri fuoriusciti calabresi sempre per reati comuni, i fratelli De Nobili di Catanzaro.
L’isola ionica, all’epoca protettorato inglese era, inoltre, il rifugio privilegiato degli esuli politici italiani dopo i falliti moti del 1830-31, ed è qui che giunsero Attilio ed Emilio Bandiera dopo aver disertato dalla marina austriaca, qui che reclutarono proprio tra questi esuli (un campionario di tutta l’emigrazione politica italiana come scrive efficacemente Lucio Villari) i 19 partecipanti alla loro spedizione in Calabria.
La spedizione, com’è noto, fu organizzata con grande improvvisazione, senza grandi precauzioni di riservatezza e nonostante il parere contrario di Giuseppe Mazzini e del suo fiduciario a Malta Nicola Fabrizi, per fornire sostegno al moto del 15 marzo 1844 di Cosenza, facilmente sedato dalle autorità borboniche e finito con alcuni morti sulle strade e centinaia di arresti, di cui, però, alcuni giornali stranieri avevano riportato la falsa notizia del successo.
Come guida la scelta cadde su Giuseppe Meluso, a quel tempo molto amico di Giuseppe Miller, un rivoluzionario forlivese, che lo presenta ad Attilio ed Emilio Bandiera i quali lo aggregano alla spedizione perché conoscitore dei luoghi.
Il libro di Salvatore Meluso ricostruisce con dovizia di particolari, desunti da una conoscenza minuziosa dei documenti di archivio oltre che della sconfinata bibliografia sull’argomento, le complesse vicende che caratterizzarono la vita di questo oscuro e bistrattato personaggio calabrese, del suo prezioso e leale contributo alla spedizione dei Bandiera, della sua feroce eliminazione nel corso di una manifestazione che richiedeva l’accesso alle terre demaniali nel 1848, eseguita con lucida determinazione da quelle stesse persone che, premiate generosamente per la cattura degli “esteri” alla Stragola da re Ferdinando II, si erano “riciclati” come liberali e “repubblicani” in quelle convulse giornate dell’”anno delle rivoluzioni”.
La storia cioè dei soliti “gattopardi”, fedeli sudditi del Borbone e poi “intransigenti liberali” a seconda del mutare del vento. E in mezzo la vicenda di quest’uomo, emigrato a Corfù per reati comuni e conquistato all’idea dell’Unità d’Italia, della libertà e della democrazia per la sua frequentazione di altri esuli “politici”e dall’esempio di eroismo dei Bandiera e dei loro compagni che guidò in un territorio ostile rischiando insieme a loro la propria vita e scontando lunghi anni di carcere duro dopo la sua consegna. Un uomo che, tornato al suo paese dopo il carcere, si mise a capo della rivolta contadina per rivendicare l’antico diritto alla terra e morì gridando: “viva la Repubblica”. Un uomo che dopo la sua morte fu sottoposto anche al ludibrio della memoria da parte di quegli stessi che per la cattura dei Bandiera avevano ottenuto lauti compensi, pensioni ed onori dal Borbone i quali, al fine di “rifarsi una verginità politica” con i nuovi governanti, diffusero la falsa notizia, ripresa da certa vulgata risorgimentale postunitaria, che a catturare i Bandiera fu il popolo minuto di San Giovanni in Fiore, impaurito dall’arrivo di una banda di briganti “turchi” capeggiati dal famigerato “Nivaro” (il soprannome assegnato al Meluso).
Nulla di tutto ciò: i Bandiera ed i loro compagni furono assaliti e catturati dalla Guardia urbana di San Giovanni rafforzata dagli uomini armati al servizio delle famiglie più importanti, notabili e proprietari terrieri, del paese silano.
Un libro prezioso, dunque, che mette nuova luce sul contributo niente affatto trascurabile della Calabria al Risorgimento nazionale e la cui lettura smentisce ulteriormente, se ce ne fosse ancora bisogno, la recente vulgata di un Mezzogiorno non solo indifferente ma addirittura ostile al processo di unificazione di cui abbiamo celebrato da poco il 150° anniversario.
La proposta di Bersani rischia di alimentare un autonomismo straccione e subalterno al Sud…
Il Direttore di Calabria Ora ha stigmatizzato giustamente l’intervista del Segretario del PD Pierluigi Bersani all’organo ufficiale della Lega, la “Padania”, nel quale impegna tutto il PD nel voto del federalismo “purché la Lega stacchi la spina a Berlusconi”. Sinceramente da iscritto e dirigente del PD e da cittadino del Sud considero questa iniziativa un vero e proprio pugno nell’occhio.
Alcuni amici e compagni me l’hanno giustificata come una iniziativa puramente tattica, utile per battere il “nemico del popolo” Berlusconi.
Ora io considero Berlusconi il problema più grande del nostro Paese e spero che al più presto lo si possa rimuovere dal posto che occupa e dal quale sta facendo danni irreparabili alla democrazia.
Nello stesso tempo penso che la sinistra abbia il dovere di proporre all’Italia non solo una nuova alleanza politica elettorale per poterlo battere ma anche un progetto di rilancio e di sviluppo economico, sociale e democratico che sia alternativo a quello proposto dalla destra e dal berlusconismo in questi anni. E una delle componenti fondamentali dell’azione di governo berlusconiana è stata proprio la Lega, la sua irriducibile caratterizzazione egoistica (egoismo dei territori, egoismo economico e sociale, egoismo etnico, antimmigrazione, ecc.).
Il federalismo leghista si presenta ed è un progetto che tende non ad unire i diversi e responsabilizzarli di fronte ad un comune patto nazionale come nel resto del mondo, ma a dividere ciò che, nel bene e nel male è stato unito in questi ultimi 150 anni. A questa impostazione il PD, la più grande forza di centrosinistra del Paese, ha il dovere non solo di opporsi, ma di proporre un progetto alternativo che rilanci nel futuro le radici della nostra storia unitaria e ridisegni in senso federalista (perché no ?) un nuovo patto nazionale capace di far reggere all’Italia intera, al nord come al sud, le sfide di un futuro globale assai incerto e difficile.
Per questo l’iniziativa di Bersani è profondamente sbagliata sia se essa ha una dimensione puramente tattica sia, peggio, se ha invece un respiro strategico.
Questa proposta rischia di avere nel Mezzogiorno un effetto disastroso: perché i meridionali dovrebbero votare PD alle prossime elezioni ? Quelli che hanno già votato Berlusconi saranno portati a fare un ragionamento semplicissimo, teniamoci l’originale e non la fotocopia. Dall’altro lato, quelli che hanno votato il centrosinistra perché dovrebbero continuare a votarlo se intravedono nella proposta nazionale del loro partito una idea di federalismo che li taglia fuori e li considera solo oggetto e non soggetto responsabile di una nuova politica di sviluppo ? Non finiranno, molti di questi, per essere attratti da nuove forze autonomiste che già sorgono un po’ dovunque nel Mezzogiorno e in alcune regioni, vedi la Sicilia, hanno già percentuali di consenso a due cifre ? Con l’aggravante che molte di queste forze autonomiste sono del tutto prive di quella carica sanamente “antagonista” che la Lega Nord, soprattutto ai suoi inizi, aveva e sono piuttosto il frutto del riposizionamento di un vecchio ceto politico nato e cresciuto dentro le maglie dell’assistenzialismo e della mediazione clientelare dei grandi partiti della Prima Repubblica.
Nella proposta di Bersani ci leggo anche un giudizio, la considerazione che il Sud, nella migliore delle ipotesi, debba essere abbandonato a se stesso, la conferma di un cedimento culturale ad una visione puramente emergenziale del Sud, una rinuncia ad una analisi più complessa e articolata a proporre una nuova strada di cambiamento. La negazione stessa di una impostazione riformista che dovrebbe invece essere il pane quotidiano per un partito come il PD.
Non ci si rende conto, ad esempio, che le elezioni negli ultimi anni, le grandi coalizioni nazionali le hanno sempre vinte al Sud dove ci sono stati i voti necessari per garantire il governo dell’intero Paese e dove si è mostrata, con alterne vicende, una certa mobilità elettorale decisiva per dare la vittoria a questo o a quel schieramento.
Il governo Berlusconi-Lega ha operato in questi anni solo per tagli e trasferimenti di risorse al Nord, in nome dei suoi “superiori interessi di “motore economico del Paese.
Publbicato su “Calabria Ora” 18 febbraio 2011
Mi si deve spiegare, come se fossi un bambino di sei anni, cosa c’entra con la “responsabilizzazione del Sud” e il federalismo il taglio dei fondi FAS per pagare le multe UE degli allevatori del Nord.
Mi chiedo, ancora una volta come se fossi un bambino di sei anni, come facciamo a spiegare agli insegnanti precari del Sud ai quali è stata tolta anche la possibilità di emigrare al Nord con il meccanismo delle graduatorie a coda bocciate dalla Consulta e reinserite dalla Lega nel Milleproroghe, che adesso Bossi è un interlocutore, non è razzista, che la sua è una grande forza popolare con la quale dobbiamo dialogare ?
Siamo sicuri, infine, che facendo così cacceremo Berlusconi ? La grande alleanza costituente (che riceve ogni giorno più no che si da parte dei possibili interlocutori) che D’Alema e Bersani avanzano, ha chiarito i termini della sua proposta per il Paese ? Io non riesco a vederla questa proposta e mi considero un lettore assiduo ed un osservatore attento. Se poi vedo che addirittura si guarda alla Lega come possibile interlocutore “democratico”, confesso di provare un po’ di paura, ci vedo una rincorsa alla conquista del potere per il potere, non per fare qualcosa di diverso.
Sansonetti auspica la nascita di una nuova forza meridionalista che punisca i partiti nazionali che si sono alleati contro il Sud. Sono meno ottimista di lui: colgo infatti i rischi di una deriva di ulteriore frammentazione politica e sociale magari anche in nome di un autonomismo che avrebbe ben poco di nobile collocandosi in una dimensione ancora più stracciona e subalterna. Un futuro tutt’altro che roseo e il PD e il centrosinistra non possono e non devono metterci la firma sotto.
SLOGAN PER UNA BATTAGLIA DEMOCRATICA AL SUD
Sta facendo molto discutere l’iniziativa assunta da Piero Sansonetti di mettere in campo lo slogan Boia chi Molla per definire la sua battaglia che, in qualità di Direttore di “Calabria Ora”, sta conducendo per affermare le ragioni del Sud e della Calabria al di là di una certa impostazione mediatica che, anche “da sinistra”, tende a porli sotto la luce della sola “emergenza criminale”.
La coraggiosa battaglia di Sansonetti per ridefinire i termini di una questione politica che pone il Mezzogiorno e la Calabria rappresentandolo solo o prevalentemente come “Gomorra” è stato sintetizzato con uno slogan che nella nostra regione evoca, essenzialmente, la rivolta di Reggio Calabria e l’egemonia che seppero conquistarvi i neofascisti di Ciccio Franco.
Sansonetti ha spiegato bene l’origine di quello slogan che è tutt’altro che legato alla storia della destra italiana: campeggiava nelle manifestazioni della repubblica partenopea e nelle riflessioni di una donna straordinaria come Eleonora De Fonseca Pimentel, prima intellettuale-giornalista del Mezzogiorno. Lo stesso slogan fu utilizzato da Giustizia e Libertà, la formazione di due illustri vittime del fascismo, i fratelli Rosselli.
D’altro canto non è la prima volta che la destra si impossessa di slogan e simboli della sinistra per piegarli alle sue impostazioni ideologiche. Come dimenticare, ad esempio, che Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà durante la guerra era una formazione antifascista e partigiana, mentre nel 1972 il nome Fronte della Gioventù fu assunto dall’organizzazione giovanile neofascista del MSI !
Lo slogan Boia chi Molla potrà anche non piacere ma il suo significato originario era legato alla lotta contro l’assolutismo e l’autoritarismo per la libertà e l’uguaglianza dei cittadini.
Durante la repubblica napoletana si utilizzava quello slogan danzando la Carmagnole sotto gli Alberi della Libertà che furono innalzati un po’ dovunque nelle città del Mezzogiorno (a Cosenza di fronte Palazzo Arnone, il Palazzo di Giustizia e sede dell’Intendenza, simbolo stesso del dispotismo borbonico come la Bastiglia a Parigi, e all’ingresso della città, a Portapiana) per affermare la lotta senza quartiere nei confronti dell’assolutismo, contro l’uso della tortura e della pena di morte stigmatizzati da Cesare Beccaria nei suoi Delitti e delle Pene (1763).
Si voleva costruire, insomma, una società di liberi e di eguali, senza più tiranni e senza il loro braccio più odioso, i boia appunto, affermare il principio della separazione dei poteri e quello della ragione e della tolleranza che oggi sono alle basi della democrazia moderna.
Purtroppo, come spesso accade, anche certa riflessione che ama definirsi “di sinistra” (e soprattutto quella sul Mezzogiorno) si ferma in superficie, non ha il coraggio di andare oltre la pigrizia degli schemi precostituiti, dei pregiudizi.
L’iniziativa di Sansonetti avrà anche il sapore della provocazione, che per un giornalista è spesso il sale della vita, ma è tutt’altro che infondata storicamente e non può essere archiviata senza un minimo di ragionamento politico sul merito delle questioni che pone.
Personalmente trovo lo slogan un po’ troppo forte, ma se serve a far discutere della Calabria in termini nuovi, ben venga.
Ricordando le ultime parole di Eleonora De Fonseca Pimentel sul patibolo, dopo aver subito umilianti torture e mentre i lazzari scatenati dalla reazione borbonica la ingiuriavano e le sputavano addosso, Forsan et haec olim memisse juvabit (Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo), facciamo in modo che quel giorno sia oggi.