De Gasperi
I veri statisti, il parlamento e la legge elettorale
I grandi statisti italiani sono stati davvero pochi, a contarli non riempiono le dita di una mano: Cavour, Giolitti, De Gasperi. Parlo solo, per comodità, di quelli che hanno avuto funzioni di governo, perché si può essere uomini di stato anche se costretti a ruoli di opposizione.
Questi uomini, pur nella diversità personali e di contesto storico in cui operarono, avevano però una caratteristica comune: tutti e tre erano straordinari parlamentari che mettevano proprio il parlamento al centro della loro azione politica.
Ora, per definizione, il parlamento è il luogo dove si esprime la rappresentanza attraverso eletti che sono espressione di pezzi di società e di territori diversi e, di conseguenza, portatori di interessi vari e spesso configgenti tra loro.
La forza di quei leader fu proprio essere riusciti a dirigere ed a dare un senso unitario a quelle spinte diverse e farle diventare una politica in momenti assai difficili della nostra storia. Esattamente lo stesso che seppero fare i loro omologhi in tutto il mondo democratico. Al contrario coloro che, anche in Italia, basarono le loro fortune (sempre temporanee e con effetti disastrosi per sé e per il loro paese) solo sulla propria leadership, hanno sempre avuto in odio il parlamento definendolo di volta in volta o come inutile orpello e/o come il simbolo stesso di tutti i mali possibili.
La politica di oggi, in Italia, continua ad essere caratterizzata da questa seconda concezione: leaderhip assoluta, inizio e fine di sé stessa. Non è un caso, dunque, che l’accordo sulla legge elettorale Renzi e Berlusconi lo stiano trovando sull’unico vero punto condiviso, le liste bloccate.
Giuseppe De Rita su “Il Mattino” di oggi dice che “la paura di fare un flop induce i partiti ad affidarsi al carisma di uno solo. Ed è inevitabile che il leader cerchi di mantenere il controllo sui suoi eletti, perché correrebbe il rischio in Parlamento di non avere soldati in grado di seguirlo”.
E’ questo e solo questo il motivo della resistenza nei confronti delle preferenze (ma anche dei collegi a questo punto), a cominciare dai due leader sopracitati (con la sottolineatura che almeno Berlusconi lo dice senza ipocrisia). Le preferenze, infatti, rappresentano l’unico modo, in presenza di liste di candidati, lunghe o corte che siano, per dare agli elettori la facoltà di scegliere direttamente i propri rappresentanti. Allo stesso modo non si vogliono i collegi uninominali per evitare di essere “tediati” da qualche centinaio di “sindacalisti del territorio” come, spesso inevitabilmente, diventano i parlamentari eletti in questo modo.
Per dire no alle preferenze poi, si usano argomenti lombrosiani, come se fossero queste la causa di tanti fenomeni degenerativi. La storia recente dimostra, invece, che non solo le liste bloccate del “porcellum” non hanno posto fine a tali fenomeni ma in alcuni casi li hanno addirittura favoriti.
Ma è mai possibile che nessuno sappia guardare alla storia recente di legislature in cui il tasso di migrazione politica o di trasformismo è aumentato rendendo instabili governi con maggioranze enormi come ha dovuto sperimentare lo stesso Berlusconi ? O forse che le liste bloccate hanno impedito l’ingresso in parlamento di persone che eufemisticamente non possono certamente definirsi degli stinchi di santo ?
Non si meni, dunque, il can per l’aia: le liste bloccate sono funzionali ad una concezione populistica che riduce tutto alla funzione salvifica della leadership. Ma la leadership da sola non sempre è sufficiente a dare risposte a problemi che sono tutti politici. Al massimo, quando va bene, fa vincere le elezioni. Ma per diventare statisti la strada è molto più lunga e difficile.
GIULIO ANDREOTTI: UN UOMO DI POTERE IN UN PARTITO CONDANNATO AL POTERE.
Quando scompaiono personalità come quella di Giulio Andreotti non si può fare a meno dal rifuggire da giudizi semplicistici e liquidatori.
Lo si deve alla grandezza di un personaggio che comunque è parte fondamentale della storia d’Italia degli ultimi settant’anni.
Lo si deve, lasciatemelo dire, all’intelligenza dei cittadini, ai quali non può essere propinata la solita lettura “giudiziaria” di una vicenda vasta e tragica che è quella dell’Italia del dopoguerra, delle sue luci e delle sue ombre.
Andreotti fu, soprattutto, un uomo politico e un uomo di stato. Fu un uomo di potere in un partito condannato dalla situazione internazionale a restare comunque al potere, la Democrazia Cristiana. Un partito in cui lui e la sua corrente non furono mai maggioranza ma spesso rappresentarono il punto (di potere, appunto) più avanzato di equilibrio.
Proprio per questo l’uomo nella sua vita, ha suscitato più odio che amore.
Andreotti fu odiato dai comunisti che in lui vedevano la personificazione di tanti mali: la DC, i cattivi “amerikani”, la mafia. Sì, perché per tanti comunisti Andreotti era mafioso ben prima che il processo di Caselli e il presunto “bacio” di Riina dessero credito a questa tesi.
La sua stessa figura fisica sembrava richiamare l’antica idiosincrasia ipocrita di tanti intellettuali italiani per la politica intesa come intrigo, segreto, manovra. Di che meravigliarsi ? Siamo il Paese che ha dato i natali a Machiavelli e nello stesso tempo più odia Machiavelli.
Ma Andreotti era odiato anche da tanti democristiani nell’infinito gioco delle correnti contrapposte dalle quali sembrava emergere sempre lui, nonostante tutti e tutto. Neanche nel PSI era particolarmente amato.
In verità Andreotti fece, nelle condizioni storiche date, quello che si richiedeva ad un politico moderato nato dal patto degasperiano di tenere fuori l’Italia dall’influenza sovietica.
I dirigenti comunisti più accorti e tutti coloro che conoscevano la politica, quella vera, lo sapevano e ad Andreotti riconoscevano il ruolo che si era assunto. Lo riconoscevano e lo rispettavano.
Poi la vicenda giudiziaria: molti l’hanno ricordato e non posso non tornarci. Andreotti si difese nel processo e non pretese di difendersi dal processo. Altro uomo, altra stoffa. E tuttavia quel processo fu, per me, un grave vulnus alla vicenda politica e sociale del Paese, la cui storia non può essere letta come un romanzo criminale.
Intendiamoci, non sostengo che la politica non si processa, anzi. Credo invece che sia la storia a non potere essere letta con le lenti di un processo giudiziario. I processi devono stabilire se ci sono reati e punirli. Non possono scrivere la storia di un Paese.
Sarà dunque la storia ad assegnare torti e ragioni. L’ha già fatto, se ci pensiamo bene.
In attesa che qualcuno con meno pregiudizi e maggiore obiettività la scriva, rendiamo ad Andreotti il rispetto che gli è, comunque, dovuto.