dittatura
Festa del papà: Auguri a mio padre e alla sua generazione
Voglio fare gli auguri a mio padre Umberto. E ringraziarlo per tutto quello che è stato e continua ad essere per me. Sai papà, oggi che hai 87 anni continui a rappresentare per me e per i miei fratelli quell’etica della responsabilità (che spesso è anche etica del sacrificio) che ha fatto grande questa città e questa nostra Italia. Oggi il tuo mondo sta sparendo, prima che anagraficamente, nella coscienza civile del nostro popolo. E sento tutta la responsabilità sulle mie spalle di fermare questo declino che non è inarrestabile ma solo il frutto della nostra distrazione, del nostro benaltrismo. Come se il benessere che la tua generazione ci ha consegnato fosse caduto dal cielo e non fosse altro che un magnifico dono di tanti come te. La tua Italia ha conosciuto dittatura e guerra eppure ce l’ha fatta. Dobbiamo farcela anche noi, non solo per onorarvi ed essere all’altezza del dono che ci avete fatto ma per i nostri figli.
Cile, tifo e politica
Potete sghignazzare quanto volete sulla crassa ignoranza di Gigi Di Maio che situa Pinochet in Venezuela dopo averlo accostato, in maniera volgare ed istituzionalmente assai discutibile, al Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana.
Potreste ricordargli che il suo non è un errore di poco conto, anzi, è uno svarione di proporzioni cosmiche ignorare quello che ha rappresentato, anche nella politica italiana, la drammatica vicenda del golpe cileno dell’11 settembre 1973.
Potreste ricordargli i tanti esuli che vennero anche in Italia, a cominciare da quelli più famosi, gli Inti-Illimani, che con la loro musica testimoniarono il fallimento dell’esperienza democratica di Salvador Allende, vincitore di regolari elezioni e a capo di una coalizione di forze popolari e democratiche che tentarono di fare del Cile, un paese dove le ineguaglianze assomigliavano a quelle dell’Egitto dei Faraoni, semplicemente un luogo più giusto in cui vivere, in cui non si morisse di fame o di fatica nelle miniere, in cui una casta (questa si, vera) di pochissimi padroni deteneva tutta la ricchezza tenendo un intero popolo sottomesso e in miseria. Continua a leggere
Giovanni Giolitti, un vero statista.
Il 17 luglio del 1928 moriva all’età di 86 anni Giovanni Giolitti, uno dei pochi grandi statisti italiani.
Dico pochi, perché l’Italia non ha avuto grandi uomini di Stato: facendo uno sforzo enumerativo non riempiono le dita di una mano: Cavour, lo stesso Giolitti, De Gasperi, in qualche modo Bettino Craxi.
Per altri l’esperienza di governo è stata troppo breve o segnata dall’appartenenza a forze politiche di opposizione o minoritarie (penso a Nenni o allo stesso Togliatti).
Giovanni Giolitti fu, pienamente, un uomo di Stato e di governo.
Giolitti riteneva che l’Italia non avrebbe mai potuto diventare un paese moderno e pienamente inserito nel contesto delle grandi potenze europee del tempo, se non avesse allargato le basi della democrazia, condizione necessaria per lo sviluppo economico e sociale.
Pensava, giustamente, che non ci può essere sviluppo economico senza consenso e senza che a goderne siano tutte le classi sociali.
Era un liberale puro, che individuava nel Parlamento l’unico luogo dove i diversi e spesso contrastanti interessi della società italiana potessero trovare rappresentanza e risposte.
Credeva, in buona sostanza, nella centralità della politica e per questo fu il principale bersaglio delle spinte antipolitiche e irrazionaliste che cominciarono a pervadere la società italiana nel primo decennio del Novecento.
Contro Giolitti ed il giolittismo fu scatenata una vera e propria guerra che riecheggia molte parole d’ordine di oggi: nuovo contro vecchio, politicanti contro popolo (casta e anticasta), piazza contro Parlamento, ecc..
L’Italia antigiolittiana porterà il paese in una guerra sanguinosa e disastrosa e, poi, nel disordine politico e sociale propedeutico all’avvento della dittatura fascista.
Giolitti, dopo un iniziale riconoscimento del Governo di Benito Mussolini (che lo considererà, a ragione, il suo principale avversario politico) si ritirerà a vita privata in un atteggiamento di sempre maggiore ostilità nei confronti del regime che lo sottoporrà ad un’occhiuta vigilanza.
Questo riconoscimento non deve sorprendere in un uomo che aveva fatto del rispetto delle istituzioni e del re un imperativo categorico, arrivando persino a “caricarsi”, lui incolpevole, le responsabilità politiche dello scandalo della Banca romana per evitare che Monarchia e vecchie classi dirigenti liberali ne venissero travolte.
Qualcuno ha detto che i grandi uomini sono tali persino nelle loro contraddizioni: Giovanni Giolitti, anche in questo, non fu un’eccezione.