Gabriele Petrone

Il buon senso sulla legge elettorale…

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Se fossimo un partito serio avremmo già detto sì nella passata legislatura ad una proposta di riforma della legge elettorale che prevedesse le preferenze, con la significativa correzione della doppia preferenza di genere.

Se fossimo un partito serio avremmo, ad esempio, fatto un minimo di analisi del voto confrontando innanzitutto le regionali con le politiche (si votò nello stesso giorno, ricordate ?) e queste ancora con le amministrative di un mese fa, scoprendo, ad esempio, che laddove si vota con le preferenze il PD prende più voti e forze come quella di Grillo si riducono all’inconsistenza.

D’altro canto voi tutti li votereste in una lista gente come Crimi e Lombardi e almeno l’80% dei candidati grillini messi lì apposta perché anonimi e votati a stare zitti tanto parla sempre il “guru” ?

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O forse Berlusconi avrebbe potuto avere quella rimonta che poi ha avuto, se il carattere populistico della sua proposta politica fosse stato depotenziato sul territorio da una miriade di candidati forti e radicati ?

Ma il voto con le preferenze ha anche un altro vantaggio: rende necessari i partiti che abbiano un minimo di organizzazione sul territorio, un minimo di radicamento, con gruppi dirigenti locali che nelle scelte hanno la possibilità di contare e pesare.

Ciò avviene in tutte le democrazie del mondo.

Il PD e l’Italia hanno bisogno come il pane di una democrazia che si nutra dal basso, in cui le classi dirigenti si misurano nel fuoco delle dinamiche politiche locali e siano poi in grado di ridurle a sintesi nelle istituzioni nazionali. Se invece i gruppi dirigenti sono selezionati dall’alto sulla base della fedeltà a questo o a quel dirigente, quale politica si potrà mai condurre rispetto ad interessi più ampi e anche più alti del Paese ?

Questi obiettivi, intendiamoci, sono raggiungibili anche con i collegi uninominali a condizione che le candidature siano anch’esse selezionate dai territori in un rapporto virtuoso con il centro di direzione politica nazionale, senza trascurare, anche qui, la necessità di costruire meccanismi che garantiscano la rappresentanza di genere rifuggendo dalle stupidaggini delle cosiddette “quote rosa”.

La storia delle candidature dei collegi uninominali del “mattarellum” purtroppo, questa impostazione, per chi non ha memoria corta, troppo spesso non l’ha rispettata.

Ma questo ragionamento di semplice buon senso non alberga in tanti e troppi dirigenti del PD, che con il “porcellum” si sono costruiti le filiere correntizie (e poi ci fanno le lezioni sui “capibastone”, sic !) con l’aggravante che sono correnti costruite senza neppure il consenso popolare.

Un ragionamento che fa il paio con gli interessi autoconservativi di tanti parlamentari senza voti (e spesso senza testa) che il porcellum lo difenderebbero fino alla morte, a prescindere da certe tirate propagandistiche.

Ora incombe la Consulta che dovrà pronunciarsi su una sentenza della Cassazione che ha detto quello che il buon senso ci diceva da tempo: non è democratica una legge che assegna un premio abnorme di maggioranza senza un minimo di soglia e dove i parlamentari non sono scelti dai cittadini ma da chi compila l’ordine delle liste.

Buon senso vorrebbe cambiare questa legge subito.

Buon senso vorrebbe che il PD non si opponesse alle preferenze per il semplice fatto che è un meccanismo che gli conviene.

Buon senso vorrebbe non aver paura della democrazia ma sostenerla sempre e comunque.

Ma di buon senso se ne vede in giro ?

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Il Movimento 5 stelle è ormai come la Fattoria degli Animali di Orwell.

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Forse non è chiaro ai più quello che sta succedendo nel Movimento di Grillo.

Se si caccia una senatrice dal movimento per la sola colpa di avere criticato il “Capo” non ci troviamo soltanto di fronte ad un problema di garanzie di democrazie interna.

Siamo all’essenza dello stalinismo, quello che George Orwell denunciò nella Fattoria degli Animali.

A seguire il dibattito interno dei grillini ci sembra di rivedere i personaggi del racconto orwelliano.

Grillo è Napoleon, il verro che “voleva avere sempre ragione”.

Vito Crimi e la Lombardi e tanti altri che non fanno che ripetere il Verbo del Capo, sono come il maiale Clarinetto, il propagandista che prende per i fondelli gli animali raccontandogli fandonie a cui non crede neppure lui.

Le pecore che ripetono gli slogan sono i presunti iscritti della rete, dove non si fa che ripetere ossessivamente la volontà del Capo, per zittire i dubbiosi e per smentire tutti coloro che pongono dubbi sul fatto che della rivoluzione annunciata ai quattro venti non si intravede neppure l’ombra.

Mancano ancora i cani, che nel racconto orwelliano rappresentavano la polizia e la NKVD, ma penso che Casaleggio si stia attrezzando anche in questo senso, magari dotando di qualche arma i responsabili della comunicazione messi a tutela dei gruppi parlamentari contro i cattivi giornalisti, che so, un laser che secchi la lingua del deputato nello stesso istante in cui si trova nel raggio di almeno 10 metri da un microfono !!!

Mai nella storia della politica italiana ci siamo trovati di fronte ad uno schema simile, incapace persino di cogliere il senso del ridicolo che questi episodi suscitano.

Per Grillo, come si è capito, vale la democrazia dell’articolo quinto, chi ha la mano ha vinto.

Per chi lo ha seguito in buona fede resta il dilemma se essere come l’asino Benjamin, l’unico animale ad aver conservato il proprio senso critico nel generale conformismo, o come il povero Gondrano, il cavallo stakanovista sincero sostenitore di una rivoluzione e che alla fine della sua vita invece di premiarne la devozione, lo manderà al macello per trasformarlo in colla.

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La seconda guerra mondiale secondo Antony Beevor

Conferenza di Yalta

Ci sono libri che meritano di essere letti anche quando parlano di argomenti sui quali si crede sia stato detto e scritto tutto ciò che c’era da dire e da scrivere.

Il prezioso volume di Antony Beevor, La seconda guerra mondiale. I sei anni che hanno cambiato la storia, edito da Rizzoli e uscito da poche settimane nelle librerie italiane, rappresenta un testo decisamente significativo, per la ricchezza della documentazione anche inedita che lo sorregge e per la leggerezza della scrittura che mantiene viva l’attenzione del lettore anche quando racconta particolari militari complessi.

Antony Beevor si conferma con quest’ultimo lavoro, uno dei migliori storici militari contemporanei, confermandosi scrittore capace di parlare ad un vasto pubblico di vicende storiche e militari anche complesse. Ricordo qui due suoi lavori assai interessanti come La guerra civile spagnola e Stalingrado che lo avevano fatto conoscere al pubblico internazionale.

Questa sua ultima fatica riesce a dare un quadro d’insieme di un fatto che sconvolse la vita di milioni di persone in praticamente tutte le latitudini del pianeta.

Beevor ci racconta la guerra dei grandi, di Churchill, di Stalin, di Roosvelt, di Hitler e Mussolini, ma anche quella degli oscuri ufficiali e soldati semplici proiettati sui fronti di guerra attraverso un sapiente innesto di documenti ufficiali e di diaristica.

La guerra ci appare così come il dramma collettivo e individuale di una umanità intera, uomini trascinati nei campi di battaglia, donne, bambini e anziani sterminati nei lager o nelle città bombardate, la tragedia degli stupri e persino del cannibalismo.

Scrive Beevor: “nessun altro periodo della storia offre una fonte di materiale tanto ricca per lo studio di dilemmi, tragedie individuali e collettive, corruzione del potere politico, ipocrisia ideologica, egocentrismo dei comandanti, tradimento, caparbietà, abnegazione, atti di incredibile sadismo e di imprevedibile compassione” (p. 988).

Antony Beevor

Non rappresentano così vezzi letterari i due episodi narrati dall’autore in premessa e a conclusione del suo lavoro.

La storia di un coscritto coreano, reclutato a forza dai giapponesi nel 1938, catturato dall’Armata Rossa nell’unica battaglia prima della guerra tra russi e nipponici (Khalkhin-Gol, in Mongolia 1939) e mandato in un campo di lavoro, arruolato ancora una volta dai sovietici nel 1942 per resistere all’invasione tedesca, catturato dai tedeschi nella battaglia di Char’kov in Ucraina e costretto a combattere contro gli americani che sbarcavano in Normandia nel 1944. Prigioniero in Gran Bretagna si trasferì dopo la fine della guerra negli USA per morirvi nell’Illinois nel 1992. Ma anche la storia di una donna, moglie di un agricoltore tedesco, che si era innamorata di un prigioniero francese assegnato alla loro fattoria in Germania con il quale aveva avuto una relazione. Alla fine della guerra aveva deciso di seguirlo in Francia nei treni che riportavano in patria i deportati in Germania, finendo però arrestata a Parigi.

Due storie diverse che rappresentano chiaramente il dramma degli uomini e delle donne semplici rispetto alle “soverchianti forze storiche” che ne cambiarono il destino.

Un libro straordinario dunque, di cui consiglio la lettura. Unico neo un Ciano definito “cognato” di Mussolini, forse un errore di traduzione che però nulla toglie a questo importante affresco di un periodo che ha davvero cambiato la storia del mondo.

Anche sul web libertà è libertà per gli altri.

Albert Camus

La scorsa settimana si è tenuto a Cosenza un interessante convegno che ha fatto il punto sulla cosiddetta “minaccia cibernetica e il diritto alla privacy” promosso dall’ordine degli ingegneri di Cosenza e dalla Fondazione Mediterranea per l’ingegneria.

Al tavolo dei relatori personalità assai diverse, dal politico ai tecnici fino al rappresentante delle forze dell’ordine e della sicurezza. Sono infatti intervenuti l’ing. Alessandro Astorino (Consigliere Ordine Ingegneri Cosenza), l’on. Enza Bruno Bossio (Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni – Camera dei Deputati), il Gen. C.A. Giorgio Cornacchione (Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri), l’ing. Angelo Valsecchi (Consigliere Nazionale Ordine Ingegneri d’Italia), il dott. Stefano Zireddu (Director Global Security e Cyber Crime Investigations Italy, American Express), il dott. Raffaele Barberio, Direttore di Key4biz, il Gen. Luigi Ramponi, Presidente del CESTUDIS.

Non sfugge a nessuno che la straordinaria espansione della Rete quale strumento di informazione e comunicazione pone tutta una serie di problemi assai rilevanti sia sul piano della sicurezza dei dati e dei sistemi informatici che ormai regolano praticamente ogni momento della nostra vita quotidiana, sia sul piano del rispetto della privacy di milioni di persone.

La polemica nata negli USA contro il Presidente Obama sulla intercettazione e catalogazione dei dati riguardanti milioni di cittadini americani all’interno di un programma di lotta al terrorismo internazionale ne è, sostanzialmente, la prova più evidente.

L’on. Bruno Bossio, nel corso del suo intervento, ha messo in evidenza come la Rete non sia altro che “uno specchio del mondo in cui viviamo, ne riflette gli slanci (vedi primavera araba) ma anche le miserie. La Rete si presenta come un’estensione delle relazioni sociali, con profondissime potenzialità elaborative mai conosciute nella storia dell’umanità. Non è un mondo parallelo, ma un’estensione del mondo relazionale e informazionale della nostra società; rappresenta sicuramente il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto”.

Io credo che ciò sia la prima grande questione che dobbiamo tenere presente: l’umanità oggi ha uno strumento straordinario nelle sue mani per esercitare il proprio diritto alla libera espressione del proprio pensiero e all’acquisizione di informazioni sempre più dettagliate e recenti. Nello stesso tempo l’umanità, per la prima volta nella sua storia, può “sentirsi” finalmente una pur nelle sue enormi differenze, percepirsi come un unico organismo sociale e culturale.

Internet però è un mezzo, non il fine. E’ uno spazio pubblico, non un altro cosmo che vive di vita propria, una realtà virtuale da contrapporre a quella reale.

La Rete può migliorare la nostra qualità della vita ma, nello stesso tempo, restringere i nostri spazi di libertà a seconda dell’uso che se ne fa.

Torna quindi prepotente un tema antico, quello sui limiti della libertà individuale in una società, soprattutto quando questa società diventa sempre più complessa e interconnessa.

A nessuno può essere limitata la libertà di comunicare quello che vuole su Internet purché questa libertà non vada ad incidere sulle libertà di altri, soprattutto se questi ultimi sono più deboli e indifesi (si pensi solo al problema della tutela dei minori).

Da qui l’esigenza di regole e di strumenti di controllo che consentano l’esercizio della libertà di espressione da una parte e garantiscano i diritti individuali di ciascuno alla tutela della propria persona.

Scriveva Albert Camus: “La libertà senza limiti è il contrario della libertà. Solo i tiranni possono esercitare la libertà senza limiti; e, per esempio, Hitler era relativamente un  uomo libero, l’unico d’altronde di tutto il suo impero. Ma se si vuole  esercitare una vera libertà, non può essere esercitata unicamente nell’interesse dell’individuo che la esercita. La libertà ha sempre avuto come limite, è una  vecchia storia, la libertà degli altri. (…). Una libertà che comportasse solo dei diritti non sarebbe una libertà, ma una tirannia. Se invece comporta dei diritti e dei  doveri, è una libertà che ha un contenuto e che può essere vissuta. (…)  La libertà con dei limiti è l’unica cosa che faccia vivere allo stesso tempo colui che la esercita e coloro a favore dei quali viene esercitata”. Camus scrisse queste parole all’interno del saggio Il futuro della civiltà europea quando Internet forse era ancora nei sogni dei suoi inventori, ma le sue parole sono di una attualità stringente.

Per non dover essere costretti, un giorno, a dover scegliere tra il Grande Fratello orwelliano di 1984 e la totale anarchia di un web in cui l’uomo e i suoi diritti vengono maciullati quotidianamente, credo che sia doveroso trovare le forme e gli strumenti per fare in modo che l’enorme spazio di libertà e democrazia che Internet ci offre possa essere messo davvero a disposizione di tutti nel rispetto di tutti.

Il semipresidenzialismo non deve far paura. Basta con gli opportunisti e i parolai.

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Fa davvero sorridere come lo stesso fronte che, appena poche settimane fa, se ne andava in giro a sostenere “Rodotà Presidente perché voluto dal popolo” sull’onda delle magnifiche sorti e progressive di Rete e piazza, oggi si riunisca per dire no all’elezione diretta del Presidente della Repubblica.

Francamente è diventato insopportabile l’atteggiamento opportunistico e parolaio di alcuni protagonisti di una parte della sinistra italiana, tutta protesa a riempirsi la bocca di sani principi solo per mascherare il proprio conservatorismo indifferente ai problemi veri del Paese.

Ad essi si aggiungono i soliti “benaltristi”, che proclamano che agli italiani non importa nulla delle riforme istituzionali ma solo delle tristi condizioni della economia e della mancanza di prospettive per tante famiglie. Come se le difficoltà della politica a dare risposte concrete ai problemi economici e sociali non siano profondamente intrecciate anche alla crisi di funzionamento delle istituzioni repubblicane che ci trasciniamo dietro da vent’anni a questa parte.

Personalmente ritengo che una riforma istituzionale che introduca anche in Italia il cosiddetto “presidenzialismo alla francese” non rappresenti alcuno scandalo.

Nei fatti il nostro sistema è già evoluto in questo senso a Costituzione invariata.

L’importante è che questa riforma individui tutti gli elementi di controllo e garanzia dei poteri presidenziali tipici delle democrazie mature e si accompagni alla riduzione del numero dei parlamentari, preveda una sola Camera che dà la fiducia al Governo, un Senato delle Regioni e una legge elettorale a doppio turno.

In Francia questo sistema funziona bene e non mi pare che abbia mai dato adito a dittature mascherate.

Un Presidente della Repubblica che assume su di sé la responsabilità della politica nazionale sulla base di un chiaro mandato popolare assegnato con suffragio universale e diretto e un sistema elettorale che rompa finalmente con l’ingovernabilità e la pratica delle coalizioni disomogenee in cui a prevalere sono quasi sempre i condizionamenti delle minoranze, mi sembra una buona risposta alla crisi attuale della politica italiana che è soprattutto crisi delle responsabilità.

Com’è ovvio di soluzioni ce ne possono essere anche altre, purché raccolgano un ampio consenso sia nel Parlamento che nel Paese. Mi convince molto la scelta di voler comunque sottoporre le riforme istituzionali, a prescindere dalle maggioranze parlamentari che le approveranno, a referendum confermativo.

La democrazia, come si dice, non è mai troppa.

Una cosa è certa, però: la si smetta di menar il can per l’aia e si faccia presto, come ha sollecitato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. I partiti, tutti, scelgano e si assumano le proprie responsabilità di fronte al Paese. Di chiacchere se ne sono fatte fin troppe per sopportarne altre.

Grillo…ne resterà solo uno. Le illusioni deluse del fronte radical-giustizialista.

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Tutto si può dire di Beppe Grillo ma non certamente che non sia dotato di grande senso dell’humour.

L’ultima, essersi vestito come l’highlander, l’ultimo immortale interpretato da Cristopher Lambert in un film cult degli anni ’80, rappresenta bene la sua lotta solitaria contro tutto il sistema, l’idea assolutista e integralista di essere l’unico vero interprete del cambiamento di cui il Paese ha bisogno.

In questo quadro sono assolutamente coerenti i suoi attacchi a tutti coloro che ne criticano stile, strategia e tattica politica, fossero anche coloro che lui ha di recente incensato e portati al centro del dibattito politico, vedi la Gabanelli e Rodotà, definito poche ore fa con grande garbo “ottuagenario scongelato dalla Rete” per la sola colpa di averlo criticato in una intervista sul Corsera.

Con grande scorno di quel fronte radical-giustizialista che, dopo il successo elettorale di febbraio, ha cercato di inglobarlo, di asservirlo alle proprie visioni del mondo e alla sua gesuitica battaglia anticasta, Beppe Grillo continua a fregarsene altamente di tutti e di tutto.

Quando dice che ne resterà solo uno non fa tattica, dice le cose che pensa insieme a Casaleggio.

Quando dice che vuole destrutturare tutto il sistema dei partiti e delle stesse istituzioni per instaurare una utopistica “democrazia diretta della rete” ne è davvero convinto.

Lui non “fa” l’antipolitico come Di Pietro che la mattina tuonava contro la casta e il finanziamento pubblico ai partiti e la sera con quella casta si spartiva poltrone e assessori e con i soldi del partito comprava le case: lui è davvero antipolitico.

Lui davvero crede di essere al di là della destra e della sinistra, davvero è convinto che la democrazia sia un post sul suo blog e non la faticosa elaborazione di idee frutto di confronti anche aspri tra persone che, spesso e per fortuna, la pensano diversamente l’uno dall’altro.

Per lui la critica non è il sale del confronto politico, ma solo il suo veleno.

Come tutti i populisti ritiene di essere l’unico, vero e autentico interprete della volontà popolare e gli altri che non la pensano come lui possono tranquillamente “andare fuori dalle balle”.

Così se gli italiani cessano di votarlo la colpa è solo loro che non hanno capito o, peggio, sono servi e schiavi del vecchio sistema.

Convincetevi, Grillo è questo, è esattamente quello che ha sempre detto di essere.

Quando dice che non farà mai alleanze e che tutti devono andare a fan… tranne lui, è sincero, se ne convinca il buon Vendola definito proprio oggi dal nostro, “supercazzolaro”.

Se ne convincano tutti coloro che in questi mesi sul duo Grillo-Casaleggio hanno costruito tutti i possibili film e controfilm di nuovi partiti, di alternative di sinistra e di “falce e manette”.

Credere che un ex comico possa essere l’interprete del rinnovamento della democrazia e delle istituzioni italiane non è soltanto inutile, ma semplicemente ridicolo e anche un tantino pericoloso come ci insegna la storia nostra e dell’Europa.

E’ solo un altro capitolo della tendenza di una parte delle classi dirigenti italiane a deresponsabilizzarsi e ad affidarsi alla novità per evitare l’innovazione. Salvo restarci proprio male quando la “novità” manda anche loro “a fan…”.

LA LETTERA DELLA CALABRESE CHAOUQUI NON E’ RAZZISTA. E’ SOLO TRISTE.

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Una brillante ragazza che lavora in una multinazionale, partita da un paesino della Calabria tanti anni fa oggi ottiene il posto d’onore con una sua lettera sulle pagine del “Corriere della Sera”, il più grande quotidiano d’Italia.

Francesca Chaouqui ci racconta di una Calabria barbara, matriarcale, in cui la discriminazione di genere e il femminicidio sono solo il frutto di una società arretrata, chiusa, in cui maschi e femmine vivono in una dimensione arcaica, con ruoli ben definiti.

Francesca Chaouqui è partita anni fa ed ha trovato, purtroppo come tanti, come troppi calabresi, solo fuori dalla sua terra le opportunità che cercava e che meritava.

Come tanti calabresi emigrati ha assorbito la concezione del mondo della città e della comunità che l’ha accolta ed ha cominciato a guardare alla sua terra prima con distacco poi, forse, anche con un po’ di implicito rancore.

La morte della povera Fabiana a Corigliano diventa così non l’ennesimo capitolo di una strage di donne che riguarda l’intero territorio nazionale, dalle Alpi alla Trinacria come si diceva un tempo, ma l’effetto di una specificità locale, regionale, il frutto di una società in cui si dice e si pratica il  “citto tu ca si fimmina”.

Potremmo dire a questa ragazza che si sbaglia, che le donne calabresi sono tutt’altro da come le descrive.

Potremmo dirle che le donne calabresi non sono affatto subalterne, che spesso proprio da loro sono partite grandi lotte di emancipazione che hanno scosso e cambiato profondamente la loro terra e anche i loro uomini.

Potremmo insistere sul concetto che le donne vengono discriminate ed uccise a Brescia e a Busto Arsizio come a San Sosti o ad Avetrana.

Potremmo dirle che le sue parole odorano troppo di pregiudizi e generalizzazioni da bar dello sport, ma lei rimarrebbe dello stesso parere, fiera di essersi “salvata” dalla sorte che è convinta sia nel destino e nel DNA delle sfortunate sue conterranee rimaste a casa.

Francesca, infatti, come tanti emigrati, cerca solo conferme alle ragioni che la spinsero ad abbandonare la sua terra per bisogno o per scelta.

Perché per tanti come Francesca questa terra è più facile leggerla con gli occhi degli altri: è più facile ma anche molto più triste.

 

 

LA MOSTRUOSA NORMALITA’ DEL DELITTO DI CORIGLIANO.

Fabiana Luzzi, la vittima dell'omicidio di Corigliano Calabro

Se fossi il padre della ragazza uccisa a Corigliano i miei sentimenti, oggi, sarebbero di rabbia e di vendetta.

Ho guardato mia figlia ieri, una ragazza quasi della stessa età di Fabiana e ho pensato che, se quell’orrore fosse capitato a lei, non avrei sopportato, forse non sarei sopravvissuto a tanto dolore.

Ho provato sdegno impotente e volontà di annientamento del responsabile di tanta violenza.

Poi ho pensato che sarebbe stata vendetta e non giustizia.

E ho guardato mio figlio, oggi un ragazzetto di 12 anni, mi sono sforzato di vederlo più grande di qualche anno.

E ho pensato che il ragazzo che ha ucciso e torturato ora probabilmente sarà nell’inferno, che solo dopo ore avrà realizzato l’enormità del suo gesto, che ciò che ha vissuto non è come un videogioco in cui le vite si rigenerano dopo averle perdute.

Ho pensato ai genitori dell’assassino che magari in queste ore stanno continuando a chiedersi (e forse lo faranno per tutta la vita, senza alcuna possibilità di risposta) com’è potuto accadere che il loro figlio abbia potuto trasformarsi in quel mostro che giornali e TV raccontano, in cosa e quando hanno sbagliato, in quale momento della loro vita di adulti normali non hanno capito e non hanno aiutato quel bambino diventato ragazzo e oggi omicida.

E allora mi sono convinto che è giusto che la giustizia faccia il suo corso, che la legge aiuti tutti noi ad uscire dai sentimenti contrastanti di queste ore, dalle reazioni emotive.

Nonostante i media che su questa storia staranno per mesi, nonostante la miriade di esperti psicologi, sociologi e quant’altro che parleranno dicendo cose giuste ma che non restituiranno la vita a chi l’ha persa, né alla vittima, né al carnefice.

Spero che, alla fine, tutti quanti noi potremo riflettere.

Perché questo delitto, questo ennesimo caso di femminicidio, per usare un termine entrato nel dibattito corrente, non sia soltanto punito dalla legge ma ci aiuti anche a capire cosa in questo nostro mondo si è rotto e come ricostruirlo.

Magari sforzandoci tutti noi, genitori di ragazzi, ad aiutare i nostri figli, ad insegnare loro il rispetto per gli altri, soprattutto se sono più deboli di noi.

Parlare alle nostre ragazze e soprattutto ai nostri ragazzi, non pensare che il tutto si risolva con il semplice esaudimento dei loro desideri materiali.

Assumendoci tutti quanti le nostre responsabilità di adulti.

Perché l’orrore di Corigliano non è distante da noi; perché possiamo riconoscerlo prima che accada nella sua, purtroppo, mostruosa normalità.

INNOVAZIONE NON NUOVISMO

il futuro del partito nelle mani dei giovani

State certi che se volete strappare unanime consenso anche in una discussione informale prendendo un caffè al bar è sufficiente una tirata sulla necessità di novità: in politica, in TV, nello sport, ecc..

Il nuovo è affascinante per tutti, persino per i conservatori.

D’altro canto, come diceva Catalano buonanima, è retorico chiedersi se è meglio mettere un vestito vecchio e rotto o un vestito nuovo e sano.

La questione è assai più complessa quando si declina il nuovo come categoria della politica, soprattutto in una società come la nostra che, nei fatti, chiude ai giovani ogni prospettiva e ogni opportunità.

Liberare la società italiana e consegnarla alle giovani generazioni rappresenta una vera e propria emergenza democratica ed è uno dei primi compiti della politica, soprattutto della politica di una forza democratica.

Il tema che, però, viene quasi sistematicamente eluso, una volta enunciata la necessità del nuovo e del rinnovamento è quello di come questo nuovo e questo rinnovamento debbano essere effettivamente costruiti.

Qui vediamo che ci si ferma, per incapacità o per calcolo doloso, alla semplice enunciazione, alla proclamazione retorica ed indignata.

In questi anni, invece di costruire per davvero il nuovo si è messa in piedi una insopportabile retorica del nuovo, un nuovo senza alcun pensiero dietro, spesso semplificato al puro dato anagrafico, in una parola si è semplicemente declinato il “nuovismo del vuoto spinto”.

Le ultime elezioni ci hanno consegnato, ad esempio, un forte svecchiamento del Parlamento, ma non mi pare che le cose, almeno finora, stiano andando meglio, anzi.

Assistiamo infatti allo spettacolo di bravi ragazzi che, è l’esempio del Movimento 5 Stelle, per settimane e settimane hanno discusso di scontrini e ricevute. Oppure, nel PD, a giovani deputati così permeabili agli umori di pancia della rete da non garantire al partito che li ha eletti un minimo di tenuta nei momenti cruciali delle prove parlamentari.

La verità è che il nuovo senza un progetto politico, senza una idea di società, senza modelli di riferimento che lo sostengano è destinato a soccombere e a provocare, questo il danno maggiore, un effetto di reazione conservatrice che si riaffida spesso, per insicurezza e per tutela, sotto le ali del peggiore del vecchio.

Vi siete chiesti, ad esempio, perché, nonostante tutta la retorica del nuovo di cui è disseminato il nostro dibattito pubblico i sondaggi danno in crescita un vecchietto di 77 anni e in politica da venti di nome Silvio Berlusconi ?

La rivoluzione francese, il ’68, i grandi movimenti di massa che hanno prodotto profondi cambiamenti nella storia furono prodotti da grandi idee di liberazione portate avanti da persone nuove, non soltanto giovani ma soprattutto giovani.

Perché per produrre cambiamento e innovazione ci vogliono nuove idee non idee nuove.

LEGGE ELETTORALE, IL RE E’ NUDO !!!

renudo

La recente sentenza della Cassazione che ha rimandato alla Corte Costituzionale il famigerato “porcellum” è un pugno nell’occhio alla classe politica che questo sistema ha voluto o, pur opponendosi, nei fatti lo ha mantenuto in piedi col gioco del cerino.

Quanti, in questi anni, hanno guardato con sufficienza al problema, hanno ripercorso il vecchio leit motiv del benaltrismo, hanno moraleggiato demagogicamente con frasi del tipo “la gente non mangia pane e legge elettorale”, non possono più nascondere la testa sotto la sabbia.

Questa legge è stata, lo scrivevo pochi giorni fa, il vero golpe di questi anni.

Ha snaturato il rapporto tra elettori ed eletti, ha creato un Parlamento avulso dai territori e popolato da nominati con l’unica funzione di schiacciare pulsanti su ordine dei capi dei partiti, pena la non ricandidatura e quindi la non rielezione.

Ha immesso nelle forze politiche, a destra e a sinistra, il veleno del conformismo al leader di schieramento, di partito, di corrente.

Ha scatenato sui territori lotte di potere tutte interne e autoreferenziali per conquistare posizioni “utili”, senza alcun rapporto con i cittadini, gli unici a poter decidere col proprio voto vincitori e vinti di una competizione elettorale.

Ha rimesso in circolo vecchie concezioni elitiste e giacobine, secondo le quali il voto popolare va sempre visto con diffidenza e meglio rimane la scelta “illuminata” dall’alto.

Ha degenerato, il termine non vi sembri eccessivo, la funzione stessa del Parlamento come sede della rappresentanza degli interessi diffusi del Paese e, con l’abnorme premio di maggioranza, ha chiuso nel recinto della partigianeria politica contingente le stesse funzioni di garanzia che la Costituzione aveva voluto, appunto, espressione di maggioranze larghe e condivise, perché il governo è di chi vince ma le istituzioni sono di tutti.

Con ogni probabilità, come dicono tutti i costituzionalisti, la Corte potrebbe addirittura provvedere a “cassare” le parti del “porcellum” rilevate come incostituzionali, mettendo il Paese di fronte ad un sistema elettorale puro che rappresenterebbe la pietra tombale sull’unica cosa buona prodotta dalla cosiddetta Seconda Repubblica, il bipolarismo.

Il tempo del “tirare a campare per non tirare le cuoia” è scaduto.

Si intervenga e si faccia una legge che garantisca governabilità, rappresentanza e diritto di scelta degli elettori del proprio deputato nel e del proprio territorio.

Ne va della democrazia italiana che, scusate, è importante quanto il pane e il companatico.

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