Gabriele Petrone
LA MORTE DI GHEDDAFI…
La scena del dittatore ucciso, linciato, violato nella sua umanità nell’atto estremo della morte non è giustizia, è solo vendetta. Uccidere o processare il tiranno quando è ormai sconfitto e senza potere appare come un’operazione ipocrita e un tantino vigliacca, che serve a coprire silenzi e complicità precedenti, a mondare coscienze democratiche per troppo tempo distratte o con gli occhi chiusi di fronte all’assoluta banalità del male. Per questo gioire per la morte di Gheddafi mi sembra un atto barbaro così come barbari sono stati i comportamenti in vita di quell’uomo. Perché alla fine anche quel tiranno era soltanto un uomo, un altro terribile prodotto della crudeltà umana. E per la crudeltà umana vale solo la giustizia e, dopo la morte, solo la pietà.
Guerra umanitaria, guerra giusta o guerra necessaria ?
La questione libica è sfociata nell’azione congiunte delle forze NATO su mandato dell’ONU per colpire le basi del regime di Gheddafi e proteggere le forze ribelli che stavano per soccombere in seguito alla controffensiva del Rais.
Questa azione riapre l’interrogativo classico sull’uso della forza in casi evidenti di violazione dei diritti umani in alcune aree del mondo. Che in Libia ci sia, e non da oggi, un palese caso di violazione dei diritti umani non c’è alcun dubbio. Molti hanno obiettato, giustamente, che Gheddafi massacrava i suoi concittadini anche prima e nessuno, nel civile e democratico mondo occidentale ha avuto nulla da eccepire, anzi. Gheddafi negli ultimi tempi, era diventato il “cocco” di gran parte della diplomazia occidentale, Italia per prima, e di tutti i governi, di destra o sinistra che fossero.
Senza contare che palesi violazioni dei diritti umani si sono verificate in tutto il mondo anche di recente e non per questo l’Occidente democratico ha sentito il dovere di intervenire militarmente.
La storia degli interventi militari nei punti caldi del mondo (Kosovo a parte) è, in verità, stata mossa da motivazioni assai più materiali e prosaiche della giusta volontà di ripristinare la democrazia dove veniva conculcata (controllo delle fonti energetiche, innanzitutto). Paesi poveri e marginali come il Ruanda o il Sudan non hanno suscitato l’intervento militare del democratico Occidente come l’Iraq o la stessa Libia.
Personalmente non amo la guerra, in nessuna sua forma. Non credo che ci siano guerre giuste (se non forse quelle che si “devono fare” per difendersi dalla sopraffazione) e sicuramente non esistono guerre umanitarie (una vera e propria contraddizione in termini). Esistono, tuttavia, guerre più o meno necessarie e l’intervento in Libia certamente lo è.
Lo è per sostenere il processo di democratizzazione del mondo arabo che si è avviato negli ultimi mesi e che non può essere abbandonato a se stesso o, peggio, all’influenza nefasta dell’integralismo islamico. Difendere la democrazia nel mondo arabo significa anche garantire la sicurezza di quello occidentale, problema immigrazione a parte.
Lo è per l’Italia, per i suoi interessi geopolitici, per la necessità che in tutto il Nordafrica si instaurino regimi democratici con i quali il nostro Paese abbia relazioni politiche ed economiche positive e stabili.
Gli interessi economici sono sempre presenti, non c’è dubbio, né può scandalizzarci. Il problema è come questi siano posti in una dimensione globale di coesistenza e cooperazione pacifica senza contare il vecchio principio wilsoniano dell’autodeterminazione dei popoli.
La guerra è uno strumento comunque sbagliato ? Non ho motivo di dissentire ma allo stato attuale non ne vedo altri, sinceramente. Ma è anche vero che il pacifismo assoluto non esiste nelle società umane, se si esclude lo straordinario insegnamento ghandiano o la visione religiosa cristiana.
Nel pacifismo politico tradizionale che abbiamo conosciuto in Occidente, non sono, infatti, meno presenti contraddizioni ed incongruenze. Mi riferisco essenzialmente al tradizionale pacifismo antiamericano e antioccidentale, che giustamente ha manifestato per la guerra in Iraq o in Kossovo e ha taciuto (o ha parlato assai flebilmente) sui missili nordcoreani o sui massacri sudanesi o ruandesi.
Dire no all’intervento ONU in Libia oggi significa tenersi Gheddafi: non mi piaceva prima e mi piace ancora meno ora. Nessun democratico con un minimo di buon senso può oggi sostenere un disimpegno da quell’area, per ragioni ideali e per ragioni pratiche. Di certo i democratici hanno il dovere di chiedere che l’uso della forza sia limitato nel tempo e nell’intensità e che abbia effetti concreti per la stabilizzazione di quel Paese e per dare la possibilità ai libici di scegliersi il proprio destino. Far nulla sarebbe peggio e doppiamente colpevole.
Dopo la giornata di ieri un nuovo Risorgimento è possibile. Grazie Presidente Napolitano
La giornata del 17 marzo si è chiusa con un grande successo popolare. Milioni di persone hanno affollato, in ogni parte d’Italia, le manifestazioni celebrative dei 150 anni del nostro Stato, segno che questa nostra nazione è viva e vuole restare unita, nonostante i suoi enormi problemi ed una classe dirigente che, eufemisticamente, possiamo definire, non all’altezza della situazione.
Anche la nostra città, la civile, democratica, aperta Cosenza, ha fatto la sua parte e devo dire che mi sento orgoglioso, oggi, di questa mia appartenenza plurale, di essere cosentino, calabrese, meridionale e italiano.
Si, perché l’unità in Italia significa anche questo: l’orgoglio di appartenere allo stesso tempo ad una terra, alla sua storia, alla sua cultura e, allo stesso tempo, ad una comunità ampia dove ognuno porta, con altrettanto orgoglio, una parte di sé.
Non era scontato che ciò avvenisse: questa ricorrenza e gli altri appuntamenti che seguiranno nei prossimi mesi, rischiavano di cadere nel disincanto, nella retorica, nell’ostilità aperta di tanti che, in questo nostro Paese spesso così fazioso, così campanilistico, così “rosicature”, non hanno mancato di far sentire la loro voce.
Merito di un grande Presidente, Giorgio Napolitano, l’aver fatto comprendere, però, che al di là di tutti i nostri problemi, l’Italia viene prima di tutto, e che solo se saremo capaci di restare uniti, di affrontarli insieme, riusciremo a vincere le sfide che abbiamo davanti, provando “orrore per la retorica passatista”.
Ciò non toglie che il nostro è un Paese che rimane troppo diviso, innanzitutto tra Nord e Sud, in una politica in cui gli scontri sono spesso pretestuosi ed ideologici e in cui il senso di responsabilità appare, purtroppo, assai raro.
Il Mezzogiorno, nonostante tutti i suoi problemi, le sue paure in un futuro difficile, ha partecipato con passione, ha rivolto ancora una volta allo Stato la sua domanda di essere parte, finalmente, di una grande nazione, a dispetto di tutte le “padanie” immaginabili e immaginarie.
Napolitano ci ha invitato tutti a guardare al futuro con l’orgoglio di appartenere ad un Paese che rimane grande, nonostante tutto, nonostante noi stessi.
Che a richiamarci a questo sia uno degli ultimi sopravvissuti di una grande stagione politica ed istituzionale della nostra storia repubblicana la dice lunga su una classe dirigente che continua a guardarsi l’ombelico e a litigare come i polli di Renzo.
Tuttavia, qualcosa, ieri, è accaduto: gli italiani di ogni regione e di ogni città hanno dimostrato una maturità straordinaria a dispetto di tutti, hanno fatto apparire le chiacchiere dispensate a piene mani da torme di politici, opinionisti, intellettuali “cassa continua” solo un piccolo, impercettibile brusio.
Forse la possibilità di fare di questo 2011 una occasione per un nuovo Risorgimento di questo Paese è davvero a portata di mano. Ed al Sud possiamo essere, ancora una volta, all’avanguardia e, soprattutto, restarci.
Il PD spara in aria a scopo intimidatorio ma il Berlusca non si “intimida”…e allora ?
Parliamoci chiaro, tutta l’iniziativa del PD di questi ultimi mesi rischia di arenarsi di fronte ad una situazione politica tutt’altro che favorevole.
L’8 marzo avremo finito di raccogliere le 10 milioni di firme per chiedere le dimissioni di Berlusconi ma il Cavaliere sembra tutt’altro che intenzionato a mollare, anzi rilancia sui temi della giustizia, della riforma della Costituzione, dell’economia e, nello stesso tempo apre nuovi conflitti istituzionali dagli esiti tutt’altro che scontati. Nel frattempo consolida la sua maggioranza parlamentare con il partito di Fini che si sta letteralmente squagliando come neve al sole.
La proposta di alleanza costituente lanciata in pompa magna da D’Alema e Bersani tra tutte le forze che si oppongono al governo Berlusconi non ha trovato sponda alcuna nei possibili interlocutori, Casini innanzitutto, anzi, per certi aspetti ha accentuato lo stesso smottamento del FLI, i cui parlamentari, compravendita a parte, appaiono ben poco interessati ad un’alleanza con la sinistra ed uno ad uno se ne tornano nel centrodestra berlusconiano che sembra ai loro occhi, nonostante Berlusconi e il bunga bunga, l’unico possibile, al momento, in Italia.
Le stesse azzardate aperture alla Lega portate avanti dal PD con un Bersani disponibile ad assegnare al partito di Bossi la patente di “interlocutore democratico” sulla base della comune conoscenza di quanta carne è necessaria per fare uno spiedino nelle feste di partito, hanno prodotto una vera e propria rivolta nella base del partito (basta guardare i commenti sul sito del PD) e compromesso forse irrimediabilmente le già scarse possibilità di vittoria del centrosinistra al Sud dando ossigeno alle tante (e per certi versi inquietanti) iniziative autonomiste che si stanno organizzando in tutte le regioni del Mezzogiorno.
Poiché è assurdo pensare che si possa andare al voto fino a quando in parlamento esiste una maggioranza a meno che qualcuno non sostenga ipotesi di un golpe di sinistra magari con l’avallo di quel galantuomo di Giorgio Napolitano, è del tutto evidente che la situazione è in pieno stallo.
Siamo ridotti come nella scenetta famosa di Fabrizi poliziotto che, dopo un estenuante inseguimento del ladro Totò dice: “Vieni qui, se no ti sparo” e Totò che risponde: “Non puoi, puoi sparare solo per legittima difesa”. Allora Fabrizi dice: “Sparo un colpo in aria a scopo intimidatorio” e Totò: “Embé ? Io non mi intimido”.
Sarebbe fin troppo facile, a questo punto, recriminare sugli errori, evidenti, che i dirigenti democratici hanno inanellato dall’autunno del 2010 fino ad oggi.
La verità è che da mesi il PD ha rinunciato alla politica, ha definitivamente perso la sua autonomia, consegnandosi ad un gioco di sponda con tutta una serie di forze, dal partito di Repubblica al giustizialismo dei neogiacobini presenti un po’ dovunque e non solo in IDV ma anche in tanta parte del mondo della cultura e del giornalismo che da mesi invocano la spallata.
Invece di guidare un processo politico che potesse determinare il definitivo sfaldamento del governo Berlusconi proponendo innanzitutto alla società italiana ed ai suoi poteri una possibile alternativa democratica di fuoriuscita da questa crisi, sono rimasti incastrati nel gioco dell’invettiva quotidiana sperando nella spallata giudiziaria che, com’è del tutto evidente, rischia di non esserci o almeno di non esserci nei tempi utili per la politica.
Non solo, il PD ora è in balia delle incursioni vendoliane con il rischio di una ripresa lacerante del dibattito tra le sue innumerevoli aree interne che rischia di dilaniarlo definitivamente.
Poiché sono persone intelligenti i dirigenti del PD di tutto ciò si rendono conto: tra di loro, ha ragione Minopoli, saranno in tanti a dire “torniamo alla politica”. Ma per far questo è intanto necessario tornare ad essere autonomi da tutto: dai grandi giornali, dai grandi opinion maker, dalle altre forze politiche, dalla stessa magistratura. Il che non significa essere ostili, ma avere una propria linea, positiva, di cambiamento. Ci riusciranno, ci riusciremo ?
La proposta di Bersani rischia di alimentare un autonomismo straccione e subalterno al Sud…
Il Direttore di Calabria Ora ha stigmatizzato giustamente l’intervista del Segretario del PD Pierluigi Bersani all’organo ufficiale della Lega, la “Padania”, nel quale impegna tutto il PD nel voto del federalismo “purché la Lega stacchi la spina a Berlusconi”. Sinceramente da iscritto e dirigente del PD e da cittadino del Sud considero questa iniziativa un vero e proprio pugno nell’occhio.
Alcuni amici e compagni me l’hanno giustificata come una iniziativa puramente tattica, utile per battere il “nemico del popolo” Berlusconi.
Ora io considero Berlusconi il problema più grande del nostro Paese e spero che al più presto lo si possa rimuovere dal posto che occupa e dal quale sta facendo danni irreparabili alla democrazia.
Nello stesso tempo penso che la sinistra abbia il dovere di proporre all’Italia non solo una nuova alleanza politica elettorale per poterlo battere ma anche un progetto di rilancio e di sviluppo economico, sociale e democratico che sia alternativo a quello proposto dalla destra e dal berlusconismo in questi anni. E una delle componenti fondamentali dell’azione di governo berlusconiana è stata proprio la Lega, la sua irriducibile caratterizzazione egoistica (egoismo dei territori, egoismo economico e sociale, egoismo etnico, antimmigrazione, ecc.).
Il federalismo leghista si presenta ed è un progetto che tende non ad unire i diversi e responsabilizzarli di fronte ad un comune patto nazionale come nel resto del mondo, ma a dividere ciò che, nel bene e nel male è stato unito in questi ultimi 150 anni. A questa impostazione il PD, la più grande forza di centrosinistra del Paese, ha il dovere non solo di opporsi, ma di proporre un progetto alternativo che rilanci nel futuro le radici della nostra storia unitaria e ridisegni in senso federalista (perché no ?) un nuovo patto nazionale capace di far reggere all’Italia intera, al nord come al sud, le sfide di un futuro globale assai incerto e difficile.
Per questo l’iniziativa di Bersani è profondamente sbagliata sia se essa ha una dimensione puramente tattica sia, peggio, se ha invece un respiro strategico.
Questa proposta rischia di avere nel Mezzogiorno un effetto disastroso: perché i meridionali dovrebbero votare PD alle prossime elezioni ? Quelli che hanno già votato Berlusconi saranno portati a fare un ragionamento semplicissimo, teniamoci l’originale e non la fotocopia. Dall’altro lato, quelli che hanno votato il centrosinistra perché dovrebbero continuare a votarlo se intravedono nella proposta nazionale del loro partito una idea di federalismo che li taglia fuori e li considera solo oggetto e non soggetto responsabile di una nuova politica di sviluppo ? Non finiranno, molti di questi, per essere attratti da nuove forze autonomiste che già sorgono un po’ dovunque nel Mezzogiorno e in alcune regioni, vedi la Sicilia, hanno già percentuali di consenso a due cifre ? Con l’aggravante che molte di queste forze autonomiste sono del tutto prive di quella carica sanamente “antagonista” che la Lega Nord, soprattutto ai suoi inizi, aveva e sono piuttosto il frutto del riposizionamento di un vecchio ceto politico nato e cresciuto dentro le maglie dell’assistenzialismo e della mediazione clientelare dei grandi partiti della Prima Repubblica.
Nella proposta di Bersani ci leggo anche un giudizio, la considerazione che il Sud, nella migliore delle ipotesi, debba essere abbandonato a se stesso, la conferma di un cedimento culturale ad una visione puramente emergenziale del Sud, una rinuncia ad una analisi più complessa e articolata a proporre una nuova strada di cambiamento. La negazione stessa di una impostazione riformista che dovrebbe invece essere il pane quotidiano per un partito come il PD.
Non ci si rende conto, ad esempio, che le elezioni negli ultimi anni, le grandi coalizioni nazionali le hanno sempre vinte al Sud dove ci sono stati i voti necessari per garantire il governo dell’intero Paese e dove si è mostrata, con alterne vicende, una certa mobilità elettorale decisiva per dare la vittoria a questo o a quel schieramento.
Il governo Berlusconi-Lega ha operato in questi anni solo per tagli e trasferimenti di risorse al Nord, in nome dei suoi “superiori interessi di “motore economico del Paese.
Publbicato su “Calabria Ora” 18 febbraio 2011
Mi si deve spiegare, come se fossi un bambino di sei anni, cosa c’entra con la “responsabilizzazione del Sud” e il federalismo il taglio dei fondi FAS per pagare le multe UE degli allevatori del Nord.
Mi chiedo, ancora una volta come se fossi un bambino di sei anni, come facciamo a spiegare agli insegnanti precari del Sud ai quali è stata tolta anche la possibilità di emigrare al Nord con il meccanismo delle graduatorie a coda bocciate dalla Consulta e reinserite dalla Lega nel Milleproroghe, che adesso Bossi è un interlocutore, non è razzista, che la sua è una grande forza popolare con la quale dobbiamo dialogare ?
Siamo sicuri, infine, che facendo così cacceremo Berlusconi ? La grande alleanza costituente (che riceve ogni giorno più no che si da parte dei possibili interlocutori) che D’Alema e Bersani avanzano, ha chiarito i termini della sua proposta per il Paese ? Io non riesco a vederla questa proposta e mi considero un lettore assiduo ed un osservatore attento. Se poi vedo che addirittura si guarda alla Lega come possibile interlocutore “democratico”, confesso di provare un po’ di paura, ci vedo una rincorsa alla conquista del potere per il potere, non per fare qualcosa di diverso.
Sansonetti auspica la nascita di una nuova forza meridionalista che punisca i partiti nazionali che si sono alleati contro il Sud. Sono meno ottimista di lui: colgo infatti i rischi di una deriva di ulteriore frammentazione politica e sociale magari anche in nome di un autonomismo che avrebbe ben poco di nobile collocandosi in una dimensione ancora più stracciona e subalterna. Un futuro tutt’altro che roseo e il PD e il centrosinistra non possono e non devono metterci la firma sotto.
Garantisti con Battisti, forcaioli con gli altri…
In grande evidenza questa mattina su un giornale locale è apparsa una lettera aperta a firma di alcuni “intellettuali” sul caso Cesare Battisti che prende nettamente posizione a favore della non estradizione dell’ex terrorista dei PAC decisa dall’ex Presidente del Brasile Lula lo scorso 31 dicembre.
La lettera è rivolta ai “compagni” (sic) Presidenti Lula do Silva e Giorgio Napolitano e sviluppa tutto un ragionamento in linea con la visione della storia d’Italia propagata a piene mani da alcuni “reduci” degli anni di piombo: in Italia negli anni ’70 e ’80 ci fu una “guerra civile” e una “feroce” repressione da parte degli apparati dello Stato di un movimento giovanile rivoluzionario che fu spietatamente perseguito e ridotto al silenzio.
Ad alcuni di questi che propugnano questa tesi basterebbe rispondere che lo Stato che giudicano così feroce ed oppressore è lo stesso che li stipendia lautamente nelle sue università e addirittura li ha accolti nel suo Parlamento ed oggi consente loro di poter esprimere, legittimamente, le loro opinioni (per quanto sbagliate e aberranti possano essere). Ma credo che non sarebbe sufficiente.
Cercherò quindi di sviluppare una serie di riflessioni nel merito: in particolare, da convinto assertore del garantismo, trovo assai improvvido e fuori luogo il riferimento ad una cultura garantista spinta fino alla teorizzazione del principio dell’impunità per un volgare assassino quale è Cesare Battisti, sul cui capo pendono sentenze definitive e le cui responsabilità sono state accertate in processi ai quali lo stesso si è sempre sottratto. E lo giudico un volgare assassino perché alcuni processi con sentenze definitive lo hanno qualificato come tale. Sbaglierei, invece, se Battisti, fosse ancora sotto processo, processo al quale lui si è sempre sottratto vivendo un esilio che è stato, per lungo tempo, dorato.
Qui c’è un primo punto che è secondo me fondamentale: il garantismo non è impunità ma rispetto delle regole e dei diritti del cittadino imputato, perché si parte dal presupposto che nessuno è colpevole fino a quando una giuria di suoi pari non l’ha giudicato tale.
Il garantismo, inoltre, non è una bandiera che possa essere agitata solo quando l’oggetto di un’azione giudiziaria siamo noi o la nostra parte politica. Dico ciò perché la credibilità stessa di ogni battaglia garantista è direttamente proporzionale alla coerenza dei comportamenti di chi la conduce: per essere molto chiari non si può essere garantisti per sé e forcaioli con altri che sentiamo essere nostri avversari politici. Ciò vale per il garantismo peloso di Berlusconi che egli traduce solo come richiesta di impunità per sé ma anche per quello di certa estrema sinistra che spesso, e senza alcuna vergogna, oscilla dalle manifestazioni di solidarietà per gli ex terroristi alle marce a favore di questo o quel giudice “eroico” che inquisisce questo o quel politico “antipatico” in dispregio di ogni elementare principio di giustizia.
Garantismo non significa, quindi, sottrarsi al giudizio, ma pretendere il rispetto della persona nel processo e al di fuori di esso (i processi mediatici sono un male che sta avvelenando la giustizia e la democrazia italiane). Che poi ci sia molto da fare per rendere più garantista il nostro ordinamento è questione aperta per la quale è necessaria una grande battaglia democratica che va condotta con rigore e coerenza perché riguarda tutti e può solo rafforzare la legalità, non indebolirla.
In questo quadro condivido, una delle poche parti, il richiamo a certa legislazione che individua come reato la responsabilità morale: in un ordinamento giudiziario democratico la responsabilità è sempre individuale ed è legata al compimento di specifici reati puniti dal codice: la politica, intesa come giudizio politico, non può essere un criterio giuridico, in nessun caso. Ma nella fattispecie non mi pare che ciò riguardi il caso Battisti, le cui responsabilità in fatti di sangue appaiono chiare e certificate.
Condivido, inoltre, il richiamo alla Costituzione quando si sostiene che l’ergastolo non è una pena che riabilita e andrebbe cancellato come pena dal nostro Codice. Ma c’è anche da dire che ormai è stato superato da una prassi giurisdizionale corrente che concede molti benefici, anche a persone coinvolte in delitti terribili, in cui vengono tenute in considerazione tutta una serie di situazioni che, pur mantenendo la condanna, attenuano in senso riabilitativo la pena. Non è sufficiente ma mi sembra un buon punto di partenza per fare una battaglia democratica anche su questo punto.
Ma anche in questo caso il richiamo a Battisti mi sembra assai fuori luogo (senza contare lo stesso improvvido richiamo alla vicenda di Adriano Sofri, che è di ben altra natura): cosa c’entrano il rispetto e la pietà per una persona che, mentre i suoi compagni marcivano nelle patrie galere, è fuggito, ha vissuto un esilio dorato come scrittore di successo in Francia e non ha mai mostrato non solo un momento di pentimento ma addirittura ha rivendicato con orgoglio i “formidabili quegli anni” ? E il rispetto per le vittime può essere soltanto la ricostruzione della “comune verità racchiusa negli anni di piombo” ? Quale comune verità si può desumere da una vicenda storica in cui, al di là della buona fede di molti, si perseguì un lucido disegno di demolizione dello Stato democratico, sia pure debole e imperfetto, che la Resistenza ci aveva consegnato ? E come potrebbe tutto ciò consolare chi ha perso un padre, un compagno, un fratello, un amico ? E quale atto rivoluzionario si può ravvisare nell’omicidio per rapina di un macellaio o di un gioielliere ?
Giustizia non è vendetta, è vero. E’ riconoscimento di reati e la loro giusta punizione. Per gli imputati la possibilità di difendersi fino in fondo e per chi è giudicato colpevole di poter tornare alla società dopo aver pagato i suoi debiti.
Io trovo aberrante sia chi teorizza l’impunità in nome di superiori ragioni rivoluzionarie o morali sia chi predica la moralizzazione della vita pubblica a colpi di avvisi di garanzia, arresti preventivi e gogne mediatiche. Sono due facce della stessa medaglia.
Perché la democrazia si difende solo con le armi della democrazia secondo il principio della separazione dei poteri e del riconoscimento dei diritti inalienabili di ciascun cittadino.
Si tratta di una impostazione che mi rendo conto è difficile da far passare in un Paese fazioso come l’Italia, ma è l’unica strada se vogliamo costruire una nazione che sia di tutti, finalmente.
I pregiudizi anticalabresi…una storia antica
La storia del pregiudizio anticalabrese è antica. Nel Medioevo resisteva il pregiudizio che la legione comandata della crocifissione del Cristo fosse di Reggio, fatto storicamente falso eppure diffuso in molti documenti.
E’ noto poi come i dominatori romani non avessero in grande simpatia gli abitanti del Bruzio, considerati ribelli, infidi e naturalmente violenti non perdonando loro l’alleanza con il nemico Annibale. La stessa via Popilia, più che come mezzo di comunicazione fu utilizzata come strada militare per favorire l’affluire di truppe preposte alla repressione delle ribellioni.
Per secoli poi, l’immagine del calabrese rozzo, selvaggio e violento, figlio di una natura altrettanto selvaggia anche se bellissima ha continuato a farsi strada.
Il massimo fu raggiunto nel settecento, all’epoca degli scrittori-viaggiatori che si spingevano nella nostra regione con lo stesso spirito di coloro che visitavano l’Africa, l’Asia o le lontane Americhe: Creuze de Lesser scriveva che « l’Europe finit à Naples et méme elle y finit assez mal. La Calabre, la Sicile, tout le rest est de l’Afrique » (Creuze de Lesser, Voyage en Italie et en Sicilie, cit. in A. Mozzillo, Viaggiatori stranieri nel Sud, Milano, Comunità, 1964, p. 9).
Un intellettuale che in Calabria non viene studiato abbastanza, U. Caldora, scriveva che la Calabria rimase “sino ai primi dell’800 (ma anche oltre) pressoché conosciuta soltanto per i frequenti terremoti che la sconvolgevano e per i suoi banditi: the terra incognita of modern Europe la definivano gli inglesi. Difficoltà e pericoli dissuadevano viaggiatori e studiosi dal visitarla: se qualcuno si avventurò, diede al paese un’occhiata superficiale, riportandone impressioni varie e divergenti, ma di solito concordi e entusiastiche soltanto sulla bellezza dei luoghi e dai contrasti violenti”. Ne consegue che “l’idea di Calabria che si è diffusa lungo i secoli si è formata essenzialmente attraverso i giudizi e i pregiudizi della cultura europea. Essa ha elaborato un’immagine mitica della regione, coltivando luoghi comuni presenti sin dall’antichità. Se i Bruzi della Calabria antica, infatti, erano visti come ribelli e infidi dai Romani, essi verranno ritenuti addirittura fustigatori di Cristo nel Medioevo. Se in età controriformista e barocca la Calabria sarà per i missionari gesuiti una parte significativa delle Indie di quaggiù, la cultura spagnola del tempo giungerà a identificare Giuda come calabrese”” (U. Caldora, Calabria napoleonica, Napoli, 1960, p. 1).
I francesi di Napoleone ci misero la politica: portatori dei grandi ideali della rivoluzione francese non riuscivano a comprendere quei calabresi che non accettavano il progresso che loro portavano opponendosi violentemente alla loro occupazione ed ai “giacobini” locali.
Il brigantaggio fece il resto: la ribellione violenta dei ceti contadini fu affrontata solo in termini di ordine pubblico senza particolari differenze da francesi, Borboni e stato italiano. Napoleone nell’esilio di Sant’Elena, apprendendo che uno dei suoi carcerieri, l’ammiraglio Sidney-Smith aveva combattuto alla testa di irregolari calabresi contro le sue truppe lo apostrofò definendolo “comandante di traditori”. E l’immagine del calabrese rozzo, chiuso, violento continuò a diffondersi ed a perpetuarsi. Eppure anche gli spagnoli si ribellarono ai francesi e la loro rivolta finì per entrare nelle pagine della storia, con le immortali tele del Goya che ne narrarono l’epopea: loro ribelli e patrioti contro l’orco Napoleone e noi briganti e malfattori !!!
Stride con questa immagine, ovviamente, una realtà spesso diversa: in Calabria trovarono rifugio tanti popoli e religioni perseguitate nelle loro “civilissime” contrade (albanesi e valdesi, per esempio), calabresi solcavano il Mediterraneo come marinai e mercanti, distinguendosi come come soldati e alti funzionari pubblici in tutti i regni d’Europa e persino al servizio del grande impero ottomano. Calabrese era uno dei marinai della Pinta che partì con Colombo nel primo viaggio alla scoperta dell’America. E ancora, nonostante la nomea di reazionaria e di Vandea d’Italia, la Calabria contribuì fortemente al processo di unificazione e di modernizzazione dell’intero Paese.
Fino ai giorni nostri: siamo poi sicuri che l’immagine che i media veicolano della Calabria non sia permeata da un “minimo” di pregiudizio ?
Ovviamente i calabresi c’hanno sempre messo del loro nell’alimentare questo pregiudizio, ma il punto non è questo. La verità è che alla Calabria si continua a guardare solo dall’esterno.
Chi osserva la Calabria dall’esterno, nel passato come nel presente, è spesso condizionato da una propria idea di modernità, da un proprio modello sociale e culturale. Modernità e modelli sociali e culturali che sono elaborati e costruiti altrove, e fanno riferimento ad altri sistemi di valori.
Per somma di ironia molti calabresi, sia quelli che vivono fuori regione ma anche quelli che, restandovi, ne denunciano, giustamente, i mali, non riescono a “staccarsi” da quel modello.
In questo senso la Calabria è “incognita”, nel senso che chi la guarda non la vede davvero, chi la osserva non la comprende, chi la cerca nella sua reale essenza, in realtà non la trova.
Per costoro, come per tanti calabresi, il pregiudizio è un vestito buono per tutte le occasioni, una occasione per non pensare, per non assumersi responsabilità.
Ecco perché sconfiggere il pregiudizio è, per i calabresi innanzitutto, un dovere, non per rinchiudersi in una orgogliosa, etnica diversità, ma per assumerne il meglio e farla diventare tratto identitario di una nuova etica della responsabilità, di un nuovo modello civico per lottare e vincere contro i mali atavici di questa nostra terra.
Perché se una cosa è certa è il fatto che solo da noi stessi potremmo risollevarci.
Mafia, subalternità sociale, familismo, malapolitica, infatti, non si battono con le enunciazioni di principio o con la semplice invettiva, ma smascherandone il carattere di ostacolo alla costruzione del futuro. Un futuro che sia finalmente nostro, pensato e realizzato da noi.
La sinistra radical chic contro chi critica la satira di cattivo gusto e chi propone il Reddito Minimo Garantito.
Peppino Caldarola è stato condannato al pagamento di un risarcimento al celebre vignettista Vauro Senesi per aver criticato una vignetta con la quale questi raffigurava Fiamma Nirenstein una giornalista colpevole, lei di origine ebraica. di essersi presentata alle elezioni politiche con il PDL. Vauro la raffigura come il mostro di Frankenstein giocando sull’assonanza del nome, il naso adunco e con la stella di Davide sul petto. Si, proprio quella stella di Davide con la quale i nazisti “marchiavano” gli ebrei e li conducevano nelle camere a gas.
La vignetta suscitò grande sconcerto nella comunità ebraica e critiche e proteste in tutto il mondo. Tra queste un fondo di Caldarola nella sua rubrica “Mambo” su “Il Riformista” con il quale quest’ultimo criticava la sinistra radical e concludeva che con quella vignetta è come se Vauro avesse chiamato la Nirenstein “sporca ebrea”. Da qui la querela di Vauro a Caldarola e al direttore de “Il Riformista” Antonio Polito.
Durante il processo l’avvocata di Vauro chiedeva a Caldarola come poteva la Nirenstein stare nella stessa lista con la Mussolini o con Ciarrapico e cosa dicessero le comunità ebraiche in proposito. Cito testualmente la risposta di Caldarola che mi sembra di una ovvietà pleonastica: “Spiego che le comunità ebraiche organizzano e difendono, a giudicare da questo processo il loro compito è sempre più difficile, i cittadini di religione ebraica che restano ovviamente liberi di scegliere politicamente dove stare. Un ebreo è innanzitutto un cittadino uguale agli altri che ha di diverso solo una religione e una tradizione culturale”. Invece no e da qui la condanna di Caldarola e Polito. Cito ancora Peppino Caldarola: “Se le cose hanno una logica, in questo caso essa è questa: si può rappresentare legittimamente un cittadina italiana indicandone la religione attraverso la propria trasfigurazione con il naso adunco e la stella di Davide, non si può criticare questa vignetta con un testo ironico che interpreta il giudizio di Vauro. L’ebreo di destra è interpretabile e rappresentabile razzialmente, malgrado non abbia il naso adunco né giri con la Stella di Davide, non si può dire che tutto ciò porta alla mente l’anatema sugli sporchi ebrei. Da oggi quindi si può connotare razzialmente un cittadino italiano di razza ebraica se non si condividono le sue opinioni politiche ma non si può criticare questa rappresentazione abnorme con una critica che usa lo stesso paradigma della semplificazione polemica. La sentenza investe due diritti, conculcandoli. Il primo riguarda gli ebrei e dice loro: siate politicamente corretti (rispetto a chi e a che cosa?) altrimenti è giusto che vi raffigurino come una razza. Il secondo dice che la satira va bene ma la satira della satira no”. Insomma, il diritto alla satira è sacro, quello di criticare la satira è un reato. Per la cronaca Caldarola intende rifiutarsi di pagare la pena pecuniaria chiedendo il carcere.
Altro episodio, che non c’entra molto col primo se non per la presenza dello stesso atteggiamento culturale radical sinistroso che lo sottende. Da circa un anno, in Calabria, dentro un dibattito ormai iscritto nel dibattito politico nazionale (vedi le dichiarazioni del ministro Elsa Fornero) stiamo conducendo una battaglia per il reddito minimo garantito.
Si tratta di un provvedimento che ha lo scopo di alleviare il disagio sociale che proprio in questi giorni sta esplodendo in maniera virulenta. Un provvedimento tra l’altro adottato da molti decenni in altre parti d’Europa (ne siamo sprovvisti solo noi e la Grecia, guarda caso). Un provvedimento che ci chiede l’Europa nella famosa lettera della BCE, insieme alle famose manovre “lacrime e sangue” proprio con l’intento di dare una risposta al disagio sociale.
Indovinate chi sono coloro che più si oppongono ad esso con argomentazioni francamente fuori dalla grazia di Dio ? Proprio certi duri e puri di certa sinistra radical chic. Si dice che è un provvedimento assistenziale, che bisognerebbe invece creare lavoro (quale, dove, come ?) che nel Mezzogiorno non si può applicare perché c’è la mafia e la malapolitica e sarebbe foriero solo di nuovo clientelismo, ecc..
Insomma, per questi salottieri commentatori, questi indignati professionali, riconoscere attraverso parametri oggettivi (essere disoccupati, avere più di 18 anni ed avere un reddito annuo ISEE inferiore a 6000 euro, vale a dire stare sulla soglia di povertà) sarebbe un provvedimento clientelare, al quale preferire, magari, la riproposizione di posti di lavoro inesistenti e precari con strumenti come LSU, LPU o di lavoro interinale attorno ai quali condurre la sacrosanta battaglia contro il precariato e per la stabilizzazione nella grande mamma della pubblica amministrazione e quindi proprio con la mediazione della “maledetta” politica.
E’ la stessa sinistra che magari civetta con i movimenti, anche quando sono corporativi o addirittura reazionari (quante parole intrise di lacrime ho letto e sentito in questi giorni a favore dei poveri tassisti, dei forconisti che in fondo si battono per il riscatto di un Sud conquistato dai nordisti Savoia, quanti benaltrismi rispetto ai provvedimenti per liberalizzare il mondo delle professioni, dei farmacisti, ecc.).
E’ la stessa sinistra radical-chic che sostituisce all’analisi l’invettiva, che preferisce giudicare piuttosto che capire, che si innamora di ogni rivoluzione purché non gli svuoti il serbatoio della mercedes e gli scaffali del supermercato. Quella sinistra che sa solo essere chiacchiere, distintivo e intolleranza. Quella sinistra che preferisce il dibattito bello, dotto e arguto dall’alto di una presuntuosa superiorità etica e morale piuttosto che misurarsi con la realtà di risolvere davvero, con le leggi e con le riforme, i problemi del popolo.
Quello stesso popolo che, immancabilmente, finisce per prenderla a pernacchie.
Ma Cetto La Qualunque doveva essere per forza calabrese ?
Pubblicato su Calabria Ora il 22 gennaio 2011
In questi giorni si fa un gran parlare del film di Antonio Albanese “Qualunquemente”.
Il film, preceduto dal grande successo del personaggio di Cetto La Qualunque in TV nella trasmissione di Fazio, si preannuncia come campione di incassi. Qualcuno l’ha definito l’evento satirico del 2011, rilevando riferimenti tra il personaggio laido, corrotto e ladro di Cetto con le cronache quotidiane che riguardano il Presidente del Consiglio. Lo stesso Albanese non ha mancato di sottolineare come la cronaca spesso supera la fantasia cinematografica. Il film sarà certamente divertente e andrò a vederlo, anche se, a mio parere, è solo un film comico, una commedia, e non un’opera satirica.
La satira infatti è una forma artistica caratterizzata dall’attenzione critica alla politica e alla società, perché ne mostra le contraddizioni e soprattutto cerca di promuovere il cambiamento. Per essere satirico, quindi, un film o una qualunque forma di espressione artistica, non è sufficiente che contenga una critica e faccia sorridere sui mali della politica e della società, ma deve anche contenere una forma di “proposta” che possa suscitare quella famosa volontà di cambiamento.
La satira, nei secoli, è stata temuta dal potere soprattutto per questo: è la voce del bambino che urla il re è nudo, e ne svela irrimediabilmente le debolezze.
Fatta questa premessa che ritengo essenziale vengo al merito del film del lombardo Albanese: Cetto La Qualunque è quanto di più disprezzabile rappresenti certa politica oggi: è corrotto, clientelare, tangentista, evasore fiscale, maschilista, ecc.. Caratteristiche che sono presenti in egual misura a tutte le latitudini del nostro Paese. Mi chiedo, quindi, assai retoricamente, perché esso dovesse essere per forza calabrese.
Dicendo questo non intendo fare il solito discorso di calabresità offesa o ferita né negare che certa politica calabrese spesso superi nella realtà la caricatura di Albanese. Sono però convinto che se La Qualunque si chiamasse Brambilla e parlasse padano non sarebbe meno comico.
Ma Cetto La Qualunque è calabrese, diciamocelo con franchezza, perché la Calabria oggi è vista, è rappresentata (e, perché no, spesso si autorappresenta) come il peggio nazionale, la Gomorra d’Italia.
Guardando Cetto si è indotti a pensare, però, fuori dalla nostra regione, che tutti i politici ed amministratori siano come quella caricatura e magari sfugge la realtà di tanti politici ed amministratori, la maggioranza, che non solo non sono come Cetto, ma che quotidianamente si sforzano di fare il loro dovere come dimostrano le centinaia di intimidazioni mafiose o criminali (la Calabria ha anche questo triste primato, purtroppo) che subiscono.
Cetto quindi è una facile caricatura perché, in fondo rassicura, conferma pregiudizi e stereotipi: lombardi, veneti, piemontesi o toscani si sentono rassicurati perché possono continuare a pensare che la malapolitica sia solo un problema meridionale e calabrese. Ma rassicura anche certa sinistra giacobina e radical-giustizialista (dislocata in tutto il Paese e anche al Sud) perché le consente di restare rinchiusa nella propria visione manichea di un bene contrapposto al male, nella orgogliosa presunzione della propria diversità etica e morale. Cetto La Qualunque, infine, non fa paura al potere (che oggi è di destra, populista e berlusconiano) perché colloca la malapolitica in una dimensione comica e caricaturale, quindi sostanzialmente non riferibile a fatti concreti.
“Qualunquemente” è dunque un film comico, non una satira politica o di costume: dopo averlo visto e averci riso sopra ai calabresi e agli italiani resta il problema tutto aperto di rinnovare e cambiare la politica superando pregiudizi e stereotipi e guardando il merito delle questioni, una volta tanto.
La vicenda Battisti mette a nudo la superficialità di tanta intellighenzia italiana nella lettura degli anni di piombo.
C’è un aspetto della vicenda Cesare Battisti che deve far riflettere, soprattutto in una parte della sinistra e, più in generale, della intellighenzia italiana.
Si tratta della tendenza a guardare alla vicenda del terrorismo in Italia come ad una “guerra civile”, come se davvero la violenza politica degli anni ’70 avesse un qualche fondamento o giustificazione morale e politica.
Questa lettura è stata propalata sia durante quel drammatico periodo (come dimenticare l’agghiacciante frase “compagni che sbagliano” o certi editoriali di alcuni maitre a penser ?) sia dopo, a terrorismo sconfitto, quando i protagonisti di quei terribili avvenimenti, dopo galera, pentitismi e revisioni, hanno continuato ad occupare i media e l’editoria italiana assai generosa di spazi e considerazione nei loro confronti.
Siamo infatti il Paese in cui a ex terroristi rossi e neri sono aperte le porte della grande editoria e della grande stampa mentre le loro vittime sono relegate nel limbo di una retorica dimenticanza. Alzi la mano chi riesce a fare almeno dieci nomi delle centinaia di vittime del terrorismo (Sergio Zavoli ha contato 428 morti e circa 2000 feriti) in quasi vent’anni di stragi, attentati, agguati e aggressioni che colpirono poliziotti e carabinieri, magistrati, funzionari, uomini politici, giornalisti e gente comune. Al contrario i nomi di coloro che molti di quelle azioni criminali compirono sono assai noti e continuano, in gran parte, ad occupare stampa e televisioni.
Pur rifuggendo da facili generalizzazioni, che sono sempre sbagliate, questo contrasto è assai evidente, pur nel quadro di uno Stato democratico che, nel complesso ha saputo chiudere con le armi della democrazia e della giustizia una delle pagine più buie della propria storia.
Si tratta di un atteggiamento culturale che, da parte di certa intellighenzia, tende a guardare alla vicenda storica italiana (passata e vicina) con superficialità. Pesa su questo atteggiamento una visione scarsamente consapevole del valore dello Stato e delle istituzioni quali garanti del sistema democratico, lo stesso sentirsi parte di una “patria” comune. Le istituzioni sono percepite quasi sempre come “oppressive” o distanti dal cittadino e non come frutto della libera scelta della comunità nazionale di cui tutti, nessuno escluso, sono responsabili.
Il senso della comunità nazionale affiora, purtroppo, solo quando questo viene preso a schiaffi, com’è avvenuto nella vicenda Battisti.
Il Presidente Lula ha giustificato la sua scelta sulla base di una sentenza dell’Avvocatura dello Stato brasiliana perché in Italia ci sarebbe “uno stato d’animo che giustifica preoccupazioni per la concessione dell’estradizione di Battisti, a causa del peggioramento della sua situazione personale”.
Lula, i cui meriti verso il suo popolo e verso la comunità internazionale sono indubbi, non sa che in Italia molti ex terroristi hanno pagato i loro debiti con la giustizia e oggi vivono le loro vite godendo di tutte quelle libertà che volevano conculcare con le loro azioni, che il loro destino è stato sicuramente molto migliore di quello che hanno riservato alle vittime della loro aberrante ideologia.
Ha pesato, a mio parere, su questa decisione, la pressione di alcuni intellettuali della sinistra francese che di Battisti hanno fatto una vera e propria icona negli ultimi anni e il passato di oppositore di una terribile dittatura militare dello stesso Lula, un dramma che ha segnato gran parte della sinistra sudamericana negli anni della guerra fredda. Una decisione sbagliata che schiaffeggia la giustizia e la democrazia italiana che il nostro Paese deve far rivedere usando tutto ciò che il diritto internazionale mette a sua disposizione.
A noi italiani questa equiparazione tra l’Italia degli anni ’70 e le contemporanee dittature militari sudamericane appare assurda. Cesare Battisti, poi, è solo un volgare assassino e rapinatore che della politica ha fatto solo una comoda coperta di cui si serve, con spudoratezza, ancora oggi. Ci deve ancora spiegare quale azione rivoluzionaria rappresenti l’omicidio di un gioielliere o di un macellaio. Ma quella coperta di Battisti, purtroppo, l’hanno cucita in molti, anche in Italia.
Un solo auspicio, dunque: che questa vicenda sia di insegnamento a tanti superficiali commentatori: negli anni ’70 in Italia non si combatté una guerra civile, ma uno Stato democratico sconfisse, pagando un duro prezzo in termini di vite umane, un terribile disegno eversivo, vincendo con le armi della giustizia e della democrazia.
Le ragioni e i torti sono, dunque, chiari: che nessuno lo dimentichi, perché questo è il nostro Paese, nonostante tutto.