Mezzogiorno

UN’ANALISI DEL VOTO VERA…

urna-elettorale

Guai se si riconducesse il successo elettorale di Grillo a fattori locali che, caso per caso, territorio per territorio potrebbero essere piegati a ragioni strumentali di lotta politica autoreferenziale. Il fenomeno Grillo si esprime in maniera omogenea sul territorio nazionale. Se non si capisce che nel voto del 24 e 25 febbraio scorsi si è manifestata prima di tutto una sedimentata rabbia sociale, non si va da nessuna parte. Soprattutto il Sud, ancor di più rispetto al passato, ha cercato da una parte protezione secondo il vecchio cliché (voto al Centrodestra) e dall’altra ha manifestato un vero e proprio ribellismo. Il PD che nel Mezzogiorno vince solo in Basilicata, non ha saputo intercettare questo duplice sentimento. Avrebbe dovuto osare di più con una convincente proposta che rispondesse ad una domanda che in altri tempi si sarebbe detta “di pane, lavoro e libertà”. Se non facciamo i conti con i temi della garanzia dei diritti primari, dell’aumento della domanda di occupazione, della redistribuzione della ricchezza e della modernizzazione del contesto ambientale, prevarrà sempre un senso di insicurezza sociale che si colloca facilmente nell’alveo dell’antipolitica. Anche il ricambio delle classi dirigenti dovrà essere portatore di risposte a queste incalzanti domande. Se ci si attarda solo nei nominalismi sarà sempre peggio.

Una storia parallela: cangaceiros brasiliani e briganti italiani

Immagini articolo una storia parallela con didascalia
Cosa possono mai avere a che fare i briganti meridionali con un paese lontano e completamente diverso come il Brasile ? Può sembrare strano ma quasi contemporaneamente alle vicende del brigantaggio italiano nel Sud si sviluppò nelle aree più povere dell’immenso stato-continente brasiliano un fenomeno di brigantaggio con caratteristiche assai simili, non solo per il legame con le aspirazioni sociali di una popolazione rurale alla quel venivano conculcati i diritti fondamentali, ma anche per i brutali metodi repressivi adottati per debellarlo.
Fu chiamato “cangaco”, letteralmente “giogo”, per l’abitudine che questi banditi avevano di portare il fucile di traverso sul collo appunto come un giogo dei buoi. L’area in cui questo fenomeno si sviluppò sin dal settecento finendo per assumere caratteri quasi di massa fino alla fine degli anni ’30 del 900 è quella del cosiddetto Nord-Este, caratterizzato dal “sertao”, letteralmente deserto, in realtà una specie di pampa attraversata da pochi fiumi, con scarsissime precipitazioni e da una bassa vegetazione fatta di arbusti e piccoli alberi spinosi denominata “caatinga”. Niente a che vedere con i boschi montani del Mezzogiorno che invece furono il teatro del brigantaggio meridionale, ma simili i problemi sociali: la presenza di grandi proprietari terrieri che avevano monopolizzato il possesso delle rare fonti d’acqua, fondamentali per l’attività prevalente, quella del pascolo di bovini, equini e ovini.
La popolazione del “sertao” (che si estende per gli stati di Cearà, Piauì, Rio Grande do Norte, Paraìba, Pernambuco, Alagoàs, Sergife e Bahia) i “sertanjas”, era composta prevalentemente da meticci dispersi in un territorio immenso e dediti ad attività legate alla pastorizia e ad una agricoltura di sussistenza, sfruttati indiscriminatamente dai “coroneis” (colonnelli). Il termine “coroneis” non aveva un valore militare ma definiva generalmente i grandi latifondisti, alcuni discendenti dei vecchi feudatari portoghesi a cui la corona lusitana aveva affidato il governo politico e militare di quegli immensi territori e che avevano conservato il loro potere con l’indipendenza del Brasile, altri feroci uomini “nuovi” che si buttavano nell’aspra lotta per la conquista della ricchezza rappresentata dalla terra, soprattutto quando, tra la fine dell’800 nei primi decenni del ’900, esplose la febbre del caffè, del cacao e del caucciù che porterà il Brasile ad un poderoso sviluppo economico.
I “coroneis” erano dei padroni assoluti, controllavano la polizia, la magistratura, il governo locale: imponevano il loro potere con la violenza anche direttamente,servendosi di bande armate assoldate alla bisogna, spesso delinquenti comuni ai quali era data licenza di uccidere, stuprare e compiere ogni nefandezza ai danni dei poveri “sertanjas” che erano, nei fatti privati di ogni diritto. Quando la siccità imperversava erano costretti a drammatiche migrazioni in condizioni ambientali terrificanti, senza alcuna speranza di riuscire a sostentare se stessi e le proprie famiglie.
In questo drammatico contesto sociale nacque il “cangaco”: alcuni si ribellavano ad una vita fatta di stenti e sofferenze e si davano alla macchia. Come i briganti, infatti, i “cangaceiros” erano ribelli individuali. Le loro azioni non avevano motivazione sociale, spesso la scelta di vivere come banditi era motivata dalla volontà di vendicare un torto subito da parte di qualche “coronel” o di un loro sgherro. Non disdegnavano, tra l’altro, di mettersi al servizio di qualche “coronel” contro altri o di partecipare a qualcuna delle tante guerre private che si sviluppavano in ragione di antiche faide motivate dalle rivalità tra famiglie (il “sertao” era caratterizzato da una complessa rete di parentele e da forti rivalità tra di esse).
Di fronte ad una vita di stenti e di sopraffazione alcuni sceglievano, quindi, di vivere liberi, imbracciando le armi, abbigliandosi in maniera pittoresca (copricapo a forma di feluca rovesciata e adornato da stelle variopinte, giubba di cuoio e cartucciere a bandoliera incrociate sul petto, revolver, un lungo coltello e fucile, questo era l’abbigliamento e l’armamento tipo del “cangaceiro”). Proprio per questo, nonostante le loro contraddizioni e il fatto di essere non meno violenti e criminali della polizia e degli sgherri dei “coroneis” non disdegnando di taglieggiare gli stessi “sertanjas”, furono subito circondati da un alone di leggenda e di consenso popolare, che determinò il fiorire di una letteratura e di una vera e propria “cultura del cangaco” che dura ancora oggi in varie forme anche se ha conosciuto il suo massimo splendore negli anni ’50 e ’60 con l’uscita di film, libri e dischi ispirati alle loro gesta.
Come tutte le forme di banditismo organizzato il “cangaco” sparì quando il Brasile imboccò con decisione la strada della modernizzazione e mutarono le condizioni economiche e sociali che lo avevano generato.
Contro di esso la repressione da parte dell’esercito e della polizia (che i “cangaceiros” chiamavano con disprezzo “macacos”, scimmie) fu feroce. L’ultima banda di “cangaceiros”, quella del Capitao Virgulino Ferreira detto Lampiao, fu sterminata il 28 luglio del 1938 ad Angico una località montagnosa dello stato di Alagoas. Le teste dei “cangaceiros” furono tagliate dai corpi ancora vivi e messe in recipienti pieni di alcol di canna per essere mostrate in tutti i villaggi del “sertao”, come avveniva qualche decennio prima nel Mezzogiorno d’Italia con le teste dei briganti. Rimarranno esposte nel museo antropologico di Salvador de Bahia fino al 1969, quando il governatore di quello Stato le fece pietosamente seppellire. Sul luogo dell’eccidio proprio uno dei loro implacabili cacciatori, il capitano Joao Bezerra, fece erigere delle croci a ricordo.
Ancora oggi, nel moderno e democratico Brasile di Lula, il posto è oggetto di un flusso di visitatori che ripercorrono la loro triste e avventurosa storia. Film, telenovelas e libri con protagonisti i “cangaceiros” sono ancora oggi prodotti in Brasile riscuotendo un grande successo di pubblico che ci vede un pezzo importante della propria giovane storia.
Una storia drammatica, come si vede, parallela a quella del nostro brigantaggio, con una notazione che riteniamo doverosa. Il cranio del brigante Villella, oggetto degli studi del criminologo Lombroso, è ancora custodito nel museo lombrosiano di Torino. Sarebbe ora che si accogliesse l’appello del sindaco di Motta, il comune che diede i natali a Villella, e gli si desse degna e pietosa sepoltura. E che in Calabria e nel Mezzogiorno si guardasse a quella storia valorizzandone i tratti identitari di una lotta disperata contro la modernità, certo, di persone destinate alla sconfitta perché tentavano di mettersi di traverso ai necessari cambiamenti di una società che evolveva, sicuramente, ma non per questo non meno degna di rispetto e di conoscenza.

Bocca antitaliano e antimeridionale…

Giorgio Bocca
Si parla molto del volumetto pubblicato da Rubbettino (“Aspra Calabria”) che riprende una parte di un vecchio libro di Giorgio Bocca uscito nel 1992 (“L’Inferno”).
Gli scritti di Giorgio Bocca, introdotti da una autorevole prefazione di Eugenio Scalfari non ci sorprendono più. Non ci sorprende il tono moralistico, la tendenza manichea tipica di certa cultura azionista a cui Bocca appartiene.
Il Partito d’Azione, che riprendeva una vecchia dicitura mazziniana, fu un’effimera formazione politica protagonista della guerra partigiana, di tendenza laica, radical-democratica e socialista liberale che finì schiacciato dalla presenza di grandi partiti di massa come il PCI, il PSI e la DC.
I suoi uomini erano personalità assai colte che sognavano un’Italia che si mondava dal fascismo ma anche da certi suoi atavici mali morali che elencavano nella sua tendenza alla corruzione, nell’influenza clericale, nella dimensione politicista della sua politica.
I libri di Bocca sono tutti intrisi di questa rabbia di sconfitti politici costretti a vivere in un Paese che li guarda spesso senza comprenderli, diffidente rispetto alla loro tendenza ad ergersi a giudici sulla base di una superiorità etico-morale che pochi sono disponibili a riconoscergli.
Bocca e molti come lui appartengono a quella categoria delle classi dirigenti progressiste che sono portati a scambiare i loro desideri con la realtà, intrisi comunque da un’ansia pedagogica che non li fa amare. Non amano la realtà che li circonda e la declinano con un tono pessimista, odiando la politica che invece con quella realtà deve misurarsi quotidianamente, anche e soprattutto se vuole cambiarla. Anzi, la fatica riformista risulta essere loro detestabile, la scambiano spesso con il compromesso o, peggio, la compromissione.
Sono giustizialisti, nell’accezione che il termine ha assunto negli ultimi anni, perché convinti che il bene sta tutto da una parte (la loro) e il male dall’altra.
La visione che costoro hanno del Mezzogiorno risente di questa tara culturale: lo guardano, lo giudicano, ma non lo comprendono. Spesso scambiano le cause con gli effetti.
Per loro, ad esempio, mafia ed illegalità sono una tara quasi genetica dei meridionali, il frutto stesso del loro sottosviluppo più culturale che economico e sociale. Da qui la loro tendenza a dividere la società meridionale in buoni e cattivi, a rappresentarla solo come lotta tra difensori della legge e dello Stato e delinquenti e mafiosi.
Il parallelo con il Vietnam del Sud sconvolto dalla guerra degli anni ’70 è significativo: nel Sud d’Italia c’è una guerra non la lotta per la legalità che invece è normale in un Paese democratico. Gli USA hanno avuto ed hanno una delle mafie più pericolose del mondo eppure a nessun giornalista americano è venuto mai in mente un paragone con il Vietnam o l’Afghanistan.
Il libro si legge dunque per quello che è: l’ennesima operazione editoriale a cui si presta ora una casa editrice calabrese prestigiosa come “Rubettino” che riprende con la prefazione di Scalfari uno scritto datato: la mafia aspromontana dei sequestri di persona, per esempio, è sparita da tempo proprio grazie alle leggi dello Stato democratico ed alla sua azione repressiva che ha reso non vantaggiose per i sequestratori operazioni di questo genere (a proposito del fatto che la Sud non cambia mai niente).
I mali del Sud e della Calabria restano tanti e grandi ma si possono affrontare con la legge dello Stato, la crescita, come pure sta avvenendo, della sensibilità antimafia e per la legalità che sta interessando anche le regioni meridionali. Il Sud sta lottando e deve essere aiutato, sostenuto nella sua lotta. Intanto va aiutato sul piano dello sviluppo economico, facendo al Sud né più e né meno di quello che si fa al Nord. E invece non avviene ciò, anzi, al contrario. Gioia Tauro, citata nel testo, rischia di diventare l’ennesima speranza delusa con la chiusura del porto, così come lo fu il polo siderurgico ai tempi di Bocca. E la scusa è sempre la stessa: in Calabria c’è la mafia, alimentando il circolo vizioso che vede meno sviluppo, più mafia e la mafia utilizzata per giustificare il mancato sostegno allo sviluppo del Sud.
Per questo il libro di Bocca non mi piace, così come non mi piace anche il dibattito che si è sviluppato attorno ad esso: troppe voci indignate e ipocrite spesso silenti, spesso subalterne a quanto invece si fa e si dice al Nord.
Il grande storico Gaetano Cingari diceva che le grandi testate giornalistiche al Sud scendono, non salgono. Voleva denunciare da una parte la mancanza di una voce meridionale di portata nazionale capace di sostenere lo sforzo di un Mezzogiorno che voleva riscattarsi, ma anche la subalternità della cultura e della intellettualità meridionale a stereotipi confezionati nelle parti più ricche del Paese.
Cingari aveva ragione. Facciamo in modo che questa indignazione, salutare, possa sostenere una politica, non rappresenti solo orgoglio ferito o protesta sterile.
Noi calabresi e meridionali siamo Italia e non altro. Dimostriamolo.

La proposta di Bersani rischia di alimentare un autonomismo straccione e subalterno al Sud…

Calabria ora
Il Direttore di Calabria Ora ha stigmatizzato giustamente l’intervista del Segretario del PD Pierluigi Bersani all’organo ufficiale della Lega, la “Padania”, nel quale impegna tutto il PD nel voto del federalismo “purché la Lega stacchi la spina a Berlusconi”. Sinceramente da iscritto e dirigente del PD e da cittadino del Sud considero questa iniziativa un vero e proprio pugno nell’occhio.
Alcuni amici e compagni me l’hanno giustificata come una iniziativa puramente tattica, utile per battere il “nemico del popolo” Berlusconi.
Ora io considero Berlusconi il problema più grande del nostro Paese e spero che al più presto lo si possa rimuovere dal posto che occupa e dal quale sta facendo danni irreparabili alla democrazia.
Nello stesso tempo penso che la sinistra abbia il dovere di proporre all’Italia non solo una nuova alleanza politica elettorale per poterlo battere ma anche un progetto di rilancio e di sviluppo economico, sociale e democratico che sia alternativo a quello proposto dalla destra e dal berlusconismo in questi anni. E una delle componenti fondamentali dell’azione di governo berlusconiana è stata proprio la Lega, la sua irriducibile caratterizzazione egoistica (egoismo dei territori, egoismo economico e sociale, egoismo etnico, antimmigrazione, ecc.).
Il federalismo leghista si presenta ed è un progetto che tende non ad unire i diversi e responsabilizzarli di fronte ad un comune patto nazionale come nel resto del mondo, ma a dividere ciò che, nel bene e nel male è stato unito in questi ultimi 150 anni. A questa impostazione il PD, la più grande forza di centrosinistra del Paese, ha il dovere non solo di opporsi, ma di proporre un progetto alternativo che rilanci nel futuro le radici della nostra storia unitaria e ridisegni in senso federalista (perché no ?) un nuovo patto nazionale capace di far reggere all’Italia intera, al nord come al sud, le sfide di un futuro globale assai incerto e difficile.
Per questo l’iniziativa di Bersani è profondamente sbagliata sia se essa ha una dimensione puramente tattica sia, peggio, se ha invece un respiro strategico.
Questa proposta rischia di avere nel Mezzogiorno un effetto disastroso: perché i meridionali dovrebbero votare PD alle prossime elezioni ? Quelli che hanno già votato Berlusconi saranno portati a fare un ragionamento semplicissimo, teniamoci l’originale e non la fotocopia. Dall’altro lato, quelli che hanno votato il centrosinistra perché dovrebbero continuare a votarlo se intravedono nella proposta nazionale del loro partito una idea di federalismo che li taglia fuori e li considera solo oggetto e non soggetto responsabile di una nuova politica di sviluppo ? Non finiranno, molti di questi, per essere attratti da nuove forze autonomiste che già sorgono un po’ dovunque nel Mezzogiorno e in alcune regioni, vedi la Sicilia, hanno già percentuali di consenso a due cifre ? Con l’aggravante che molte di queste forze autonomiste sono del tutto prive di quella carica sanamente “antagonista” che la Lega Nord, soprattutto ai suoi inizi, aveva e sono piuttosto il frutto del riposizionamento di un vecchio ceto politico nato e cresciuto dentro le maglie dell’assistenzialismo e della mediazione clientelare dei grandi partiti della Prima Repubblica.
Nella proposta di Bersani ci leggo anche un giudizio, la considerazione che il Sud, nella migliore delle ipotesi, debba essere abbandonato a se stesso, la conferma di un cedimento culturale ad una visione puramente emergenziale del Sud, una rinuncia ad una analisi più complessa e articolata a proporre una nuova strada di cambiamento. La negazione stessa di una impostazione riformista che dovrebbe invece essere il pane quotidiano per un partito come il PD.
Non ci si rende conto, ad esempio, che le elezioni negli ultimi anni, le grandi coalizioni nazionali le hanno sempre vinte al Sud dove ci sono stati i voti necessari per garantire il governo dell’intero Paese e dove si è mostrata, con alterne vicende, una certa mobilità elettorale decisiva per dare la vittoria a questo o a quel schieramento.
Il governo Berlusconi-Lega ha operato in questi anni solo per tagli e trasferimenti di risorse al Nord, in nome dei suoi “superiori interessi di “motore economico del Paese.
Publbicato su “Calabria Ora” 18 febbraio 2011
Mi si deve spiegare, come se fossi un bambino di sei anni, cosa c’entra con la “responsabilizzazione del Sud” e il federalismo il taglio dei fondi FAS per pagare le multe UE degli allevatori del Nord.
Mi chiedo, ancora una volta come se fossi un bambino di sei anni, come facciamo a spiegare agli insegnanti precari del Sud ai quali è stata tolta anche la possibilità di emigrare al Nord con il meccanismo delle graduatorie a coda bocciate dalla Consulta e reinserite dalla Lega nel Milleproroghe, che adesso Bossi è un interlocutore, non è razzista, che la sua è una grande forza popolare con la quale dobbiamo dialogare ?
Siamo sicuri, infine, che facendo così cacceremo Berlusconi ? La grande alleanza costituente (che riceve ogni giorno più no che si da parte dei possibili interlocutori) che D’Alema e Bersani avanzano, ha chiarito i termini della sua proposta per il Paese ? Io non riesco a vederla questa proposta e mi considero un lettore assiduo ed un osservatore attento. Se poi vedo che addirittura si guarda alla Lega come possibile interlocutore “democratico”, confesso di provare un po’ di paura, ci vedo una rincorsa alla conquista del potere per il potere, non per fare qualcosa di diverso.
Sansonetti auspica la nascita di una nuova forza meridionalista che punisca i partiti nazionali che si sono alleati contro il Sud. Sono meno ottimista di lui: colgo infatti i rischi di una deriva di ulteriore frammentazione politica e sociale magari anche in nome di un autonomismo che avrebbe ben poco di nobile collocandosi in una dimensione ancora più stracciona e subalterna. Un futuro tutt’altro che roseo e il PD e il centrosinistra non possono e non devono metterci la firma sotto.

SLOGAN PER UNA BATTAGLIA DEMOCRATICA AL SUD

Calabria ora

Sta facendo molto discutere l’iniziativa assunta da Piero Sansonetti di mettere in campo lo slogan Boia chi Molla per definire la sua battaglia che, in qualità di Direttore di “Calabria Ora”, sta conducendo per affermare le ragioni del Sud e della Calabria al di là  di una certa impostazione mediatica che, anche “da sinistra”, tende a porli sotto la luce della sola “emergenza criminale”.
La coraggiosa battaglia di Sansonetti per ridefinire i termini di una questione politica che pone il Mezzogiorno e la Calabria rappresentandolo solo o prevalentemente come “Gomorra” è stato sintetizzato con uno slogan che nella nostra regione evoca, essenzialmente, la rivolta di Reggio Calabria e l’egemonia che seppero conquistarvi i neofascisti di Ciccio Franco.
Sansonetti ha spiegato bene l’origine di quello slogan che è tutt’altro che legato alla storia della destra italiana: campeggiava nelle manifestazioni della repubblica partenopea e nelle riflessioni di una donna straordinaria come Eleonora De Fonseca Pimentel, prima intellettuale-giornalista del Mezzogiorno. Lo stesso slogan fu utilizzato da Giustizia e Libertà, la formazione di due illustri vittime del fascismo, i fratelli Rosselli.
D’altro canto non è la prima volta che la destra si impossessa di slogan e simboli della sinistra per piegarli alle sue impostazioni ideologiche. Come dimenticare, ad esempio, che Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà durante la guerra era una formazione antifascista e partigiana, mentre nel 1972 il nome Fronte della Gioventù fu assunto dall’organizzazione giovanile neofascista del MSI !
Lo slogan Boia chi Molla potrà anche non piacere ma il suo significato originario era legato alla lotta contro l’assolutismo e l’autoritarismo per la libertà e l’uguaglianza dei cittadini.
Durante la repubblica napoletana si utilizzava quello slogan danzando la Carmagnole sotto gli Alberi della Libertà che furono innalzati un po’ dovunque nelle città del Mezzogiorno (a Cosenza di fronte Palazzo Arnone, il Palazzo di Giustizia e sede dell’Intendenza, simbolo stesso del dispotismo borbonico come la Bastiglia a Parigi, e all’ingresso della città, a Portapiana) per affermare la lotta senza quartiere nei confronti dell’assolutismo, contro l’uso della tortura e della pena di morte stigmatizzati da Cesare Beccaria nei suoi Delitti e delle Pene (1763).
Si voleva costruire, insomma, una società di liberi e di eguali, senza più tiranni e senza il loro braccio più odioso, i boia appunto, affermare il principio della separazione dei poteri e quello della ragione e della tolleranza che oggi sono alle basi della democrazia moderna.
Purtroppo, come spesso accade, anche certa riflessione che ama definirsi “di sinistra” (e soprattutto quella sul Mezzogiorno) si ferma in superficie, non ha il coraggio di andare oltre la pigrizia degli schemi precostituiti, dei pregiudizi.
L’iniziativa di Sansonetti avrà anche il sapore della provocazione, che per un giornalista è spesso il sale della vita, ma è tutt’altro che infondata storicamente e non può essere archiviata senza un minimo di ragionamento politico sul merito delle questioni che pone.
Personalmente trovo lo slogan un po’ troppo forte, ma se serve a far discutere della Calabria in termini nuovi, ben venga.
Ricordando le ultime parole di Eleonora De Fonseca Pimentel sul patibolo, dopo aver subito umilianti torture e mentre i lazzari scatenati dalla reazione borbonica la ingiuriavano e le sputavano addosso, Forsan et haec olim memisse juvabit (Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo), facciamo in modo che quel giorno sia oggi.

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