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PD: Basta con la strategia del “fare il morto”.
Raccolgo gli spunti offerti da un interessante intervento di Luigi Guglielmelli a commento degli impietosi sondaggi che danno il PD vicino al dato del 4 marzo 2018.
Il 19 per cento circa è un dato dal quale, pur nella generale crisi di tutte le forze dell’attuale quadro politico, sembra difficile schiodarsi. Si aggiunga che, nonostante un lieve incremento dei 5 stelle, attorno al 15 per cento e quindi ben al di sotto del 32 per cento delle elezioni del 2018, il centro destra, pur arretrando lievemente, attrae ancora il 50 per cento dell’elettorato italiano. Cosa consegue da questi dati, pur nel quadro della alea tipica di tutti i sondaggi? Che il PD e il centro sinistra nel suo complesso (vedi anche i dati debolissimi degli altri, dalla sinistra bersaniana a Italia Viva passando da Più Europa fino a Calenda) non hanno alcuna prospettiva di governo quando le elezioni ci saranno. Eppure siamo al governo da 1 anno circa. È anzi assai probabile che il prossimo governo sarà appannaggio del centro destra a forte trazione di Salvini e Meloni. Con qualunque sistema elettorale sarà utilizzato. Del resto le elezioni che si sono svolte finora a livello locale confermano questa tendenza. È sufficiente questo per aprire una riflessione nel PD? Io credo proprio di sì. Eppure sembra prevalere la strategia del “fare il morto”, preoccupandosi soltanto di appianare i contrasti con gli alleati, a cominciare dai 5 stelle. Quando si formò questo governo io fui d’accordo. Molti di noi hanno sperato in una “romanizzazione” dei barbari, vale a dire lo spostamento su posizioni riformiste del corpaccione populista dei 5 stelle. In verità pare che ci siamo imbarbariti noi. La giustizia, al netto dell’esplosione dello scandalo Palamara e della offensiva di Di Matteo contro Bonafede, resta terreno di scontro di un giustizialismo becero e rozzo, tendente ad affermare una “repubblica dei PM” che ha nel travaglismo” (sic) il suo punto di orientamento quotidiano. Non parliamo poi delle politiche sulla immigrazione, con i decreti sicurezza di Salvini che restano ancora lì, intonsi, dopo un anno di governo PD! E gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Il PD finora ha fatto finta di essere “morto”. Il gruppo dirigente nazionale si preoccupa al massimo di amministrare l’esistente, a gestire (piuttosto male e con lo sterzo di uno “stalinismo dei poveri”, vedi il caso Calabria sul quale stendiamo un velo pietoso) le candidature in attesa di un voto che verrà prima o poi e che, male che vada dovrebbe consentire di scegliere un centinaio di parlamentari se restano (orrore!) le liste bloccate. Mi chiedo e chiedo a chi ha ancora un residuo di onestà intellettuale, può un partito ridursi a questo? Può la sua prospettiva essere solo quella di offrire una borsa di studio di seggio parlamentare a qualche fido di corrente? E anche lo sforzo di governo può ridursi a far fare il ministro o il sottosegretario a qualcuno per continuare ad amministrare un esistente sempre più ristretto e autoreferenziale? O, invece, è necessario misurarsi, qui ed ora, con una grande politica riformatrice che offra al Paese, oltre che agli alleati, una agenda di cambiamento profondo resa ancora più urgente dalla crisi del corona virus? Io vedo praterie aperte per una politica di questo tipo di fronte alla crisi del populismo. E invece rispetto al populismo continuiamo ad essere subalterni ed afoni. Al PD si chiede solo di fare la cosa per cui è nato: essere una grande forza riformista e di cambiamento del Paese. Sperando che si capisca una volta per tutte che “facendo il morto” prima o poi si annega davvero.
Leggere l’astensionismo
Sull’astensionismo che si è manifestato domenica scorsa credo che si debba rifuggire da analisi frettolose e superficiali.
Diciamo subito che in Italia l’astensionismo fa molto più notizia.
Nel nostro Paese, infatti, la partecipazione politica è sempre stata più alta sia rispetto al resto dell’Europa che degli USA.
Ma in quei paesi la politica è vissuta in genere con maggiore distacco senza che questo si traduca in forme di rifiuto delle istituzioni democratiche.
In Italia il calo progressivo dei votanti va avanti da più anni.
Domenica scorsa hanno inciso diversi fattori di carattere generale: il voto fuori da un turno nazionale e quindi scarsa attenzione dei media e la disaffezione verso la politica che viene percepita sempre più come incapace di risolvere i problemi della gente.
Accanto a questi ce ne sono di particolari, come il crollo del centrodestra e la stessa crisi dei M5S.
I loro elettori sono frastornati: i primi non ne possono più di una vicenda politica tutta avvitata attorno ai destini di Berlusconi i secondi sono delusi dalla assoluta inconcludenza di una forza politica che, pur avendo eletto 140 parlamentari, non riesce a cavare il classico ragno dal buco.
Questo dato ha pesato soprattutto in Calabria, dove la tradizione astensionista si è sommata alla debolezza della proposta politica del centrodestra e dei cinque stelle. Accanto a ciò un diffuso sentimento di sfiducia che ha accompagnato queste elezioni regionali non solo nei confronti della classe politica ma della stessa speranza che le istituzioni democratiche possano essere in grado di risolvere i problemi di questa terra. Un sentimento pericoloso, i cui esiti, comprendiamolo bene, non potranno certamente essere forieri di “magnifiche sorti e progressive”, ma di un ulteriore degrado della vita pubblica.
A questo pericolo dovrà dare una risposta la sinistra calabrese, oggi chiamata a responsabilità di governo.
I veri riformisti
I parlamentari 5 stelle sono saliti sul tetto di Montecitorio per protestare contro le possibili riforme costituzionali. Singolare che chi ha preso i voti per cambiare tutto oggi protesti per non cambiare niente, neanche la legge elettorale. In realtà sono veri riformisti: dal momento che il Parlamento fa acqua da tutte le parti sono andati ad aggiustare le grondaie.