politica

Per fare politica ci vuole la politica

Ignazio Marino

Pubblicato su “Il Garantista” del 10 ottobre 2015

Le dimissioni del sindaco di Roma Ignazio Marino sono l’ennesima dimostrazione del grande equivoco in cui si dimena il nostro dibattito pubblico.

Affermare che per potere governare comuni, regioni o nazioni sia sufficiente essere persone perbene ed oneste, come se questo non fosse nient’altro che un prerequisito, sta dimostrando tutta la sua vacuità. Si continua a non comprendere una cosa elementare: che per fare politica ci vuole la politica.

Ignazio Marino, invece, sono anni che si candida dappertutto da “non politico”: come senatore, come segretario del PD e come sindaco di Roma.

Peccato che quando si tratta di “fare politica” non sono sufficienti i master americani e i proclami al vento, soprattutto quando si devono fronteggiare crisi enormi come quella che ha investito Roma dopo l’inchiesta “Mafia Capitale”. Continua a leggere

Amici e nemici…

Roberto Calderoli

In politica bisogna sempre riconoscere chi sono gli amici e chi sono i nemici.
Per Roberto Calderoli della Lega la norma a favore degli LSU LPU calabresi è solo sfacciato assistenzialismo.
Ricordiamolo a Salvini quando verrà in Calabria a cercare voti e ricordiamolo anche a quei calabresi che gli vanno appresso.

Matteo Salvini

Facile ridere degli strafalcioni di Razzi e non dell’ignoranza compiaciuta ed ostentata di tanti altri.

Buona Pascuetta di Razzi

Nella tanto bistrattata prima repubblica c’erano senatori e deputati con appena la terza elementare o che avevano imparato a leggere e scrivere in maniera fortunosa. A loro poteva scappare uno strafalcione ma nessuno ne metteva in dubbio la competenza politica nei settori in cui i partiti li facevano “specializzare”. La differenza stava nel fatto che questi vivevano la loro scarsa cultura con vergogna, si facevano assistere nella stesura di relazioni e scritti (a parlare in pubblico, in generale, se la cavavano tutti avendo imparato sul campo). Sentivano, infatti, tutto il peso di una ignoranza, sia pure subita perché frutto della loro condizione sociale subalterna, e cercavano quotidianamente di migliorare. Continua a leggere

C’era una volta Mario Monti

Mario Monti

Confesso che con Monti avevo completamente sbagliato valutazione. Sarà stata la mia grande ammirazione per Giorgio Napolitano, ma sposai con favore l’idea di un Governo di emergenza nazionale affidata ad un tecnico di grande spessore internazionale.

La storia ha dimostrato che avevo torto, non tanto per la scelta di Napolitano, che era in sé giusta, ma per la persona alla quale fu affidata.

Monti si è dimostrato il classico tecnocrate, che pensa che tutto si possa risolvere in laboratorio o con ardite slides, senza comprendere che la realtà è sempre tirannamente diversa. Poi, ubriacato dalla tanto disprezzata politica (che è come quelle prostitute da tutti disprezzate ma da tutti cercate) il nostro si fece un partito, che ottenne il magnifico risultato da una parte di far perdere quel PD e quel centrosinistra che lealmente lo aveva sostenuto al Governo mentre il venditore di tappeti nazionale (alias Berlusca) abilmente si sfilava e dall’altra di regalare all’antipolitica sconclusionaria di Grillo il 26 per cento dei voti.

È una storia vecchia che si ripete. I cosiddetti moderati italiani che del senso di responsabilità della sinistra sanno fare buon uso alla bisogna e dalla quale pretendono i voti a patto di metterci loro le classi dirigenti.

Oggi Monti è un pensionato di lusso di quella politica dei partiti brutta, sporca e cattiva che tanto disprezzava. Tanto disprezzabile da abbandonare persino il partito da lui fondato e che oggi, mestamente, celebra il congresso della sua scomparsa. Così come penso sarà della Passera solitaria.

L’antipolitica è sempre eversiva

Giorgio Napolitano

Lo dico subito: sono d’accordo con il Presidente Napolitano e, anzi, ritengo la sua presa di posizione anche moderata. L’antipolitica ha quasi sempre sbocchi eversivi o comunque si traduce in un degrado della qualità della vita democratica.

Un conto è contestare il politico o i singoli politici corrotti un conto è dire che, quasi lo avessero scritto nel DNA, tutti i politici sono per loro stessa natura dei corrotti. Infatti, quando si fanno generalizzazioni semplicistiche sulla “casta” alla fine, tranne pochi capri espiatori o, peggio, qualche innocente, i veri corrotti la fanno franca e addirittura hanno anche la faccia tosta di fare i moralisti e i capipopolo. La storia, alla quale non guardiamo mai per imparare, ci insegna come una società democratica senza politica semplicemente non ha senso. I grandi regimi totalitari sono nati dal rifiuto della politica preesistente e sulla base di grandi campagne di caudillos moralizzatori. Chi oggi difende e propina l’antipolitica o è un imbroglione demagogo o un povero illuso. Categorie entrambe assai pericolose, entrambe eversive. Perché bollando tutta la politica, senza distinzione, come monnezza, spesso, consapevolmente o inconsapevolmente si finiscono per buttare nel cassonetto anche le istituzioni democratiche e la libertà dei cittadini.

Quando c’era Berlinguer…

Funerali di Berlinguer

Dico subito che il film merita di essere visto.

Poi si può discutere sulle interpretazioni da dare sulla ricostruzione che Veltroni fa di alcuni momenti storici della vicenda politica del PCI e del suo leader Enrico Berlinguer. Io, per esempio, ho molte perplessità soprattutto nella ricostruzione del rapporto col PSI di Craxi, sulla scelta di intervistare l’ex leader delle Brigate Rosse Franceschini e di non intervistare anche altri protagonisti di quella stagione come ad esempio Achille Occhetto o Massimo D’Alema che fu Segretario nazionale dei giovani comunisti del PCI berlingueriano.

Diciamo pure che dal punto di vista storiografico il film non mi ha convinto molto. Una riflessione critica e storicamente fondata sul segretario del PCI e su quella stagione credo non sia stata ancora compiuta.

Confesso però che alcune testimonianze ed alcune immagini mi hanno commosso profondamente.

Quella di Giorgio Napolitano, ad esempio, che richiama l’esperienza di Berlinguer e alla fine si commuove quando rievoca quella “comunità” nella quale vissero l’impegno politico. O una lettera inedita nella quale Berlinguer spiegava come l’apoliticità non fosse altro che una forma più o meno esplicita di fascismo alla quale si deve contrapporre la politica che altro non è che l’attività umana più alta e nobile.

Nel sentire poi l’intervista dell’operaio veneto che assistette agli ultimi istanti di vita di Berlinguer nel suo comizio a Padova, non ho potuto fare a meno di pensare come quel bello e musicale dialetto che raccontava di grandi emozioni collettive e nazionali, oggi è usato come paravento ideologico di razzismi da bar dello sport che sproloquiano su secessioni da imporre dalla torretta di un trattore taroccato da carro armato. Un altro segno di come sia cambiato in questi ultimi trent’anni questo nostro Paese.

enrico_berlinguer

Tuttavia una speranza mi è rimasta accesa: ho visto il film insieme ad un amico con i nostri figli nati decenni dopo la morte di Berlinguer.

Proprio sulla politica, su quelle piazze stracolme di popolo e bandiere rosse, sulla nostra commozione ci hanno fatto più domande alle quali siamo stati felici di rispondere. Segno che un futuro, forse, è ancora possibile.

Cinquecento anni da Il Principe di Machiavelli e scoprire che da esso poco si è imparato finora…

defintestolungo

Tra il luglio e il novembre del 1513 Niccolò Machavelli, diplomatico repubblicano ormai estromesso dalla vita politica di Firenze dal ritorno dei Medici, scrisse Il Principe.

Quello che sarebbe diventata l’opera fondamentale della politica moderna fu scritto di getto da un uomo politicamente tagliato fuori dalle vicende storiche del suo tempo.

Un’opera di cui spesso si è discusso senza leggerla, soprattutto per stigmatizzarla, per la nota affermazione de “il fine giustifica i mezzi” che, tra l’altro Machiavelli non ha mai pronunciato.

Lo stesso termine “machiavellismo” è diventato sinonimo di opportunismo politico.

Nulla di più distante dal pensiero del Nostro, il quale, se rimprovero può essergli mosso, è solo quello di essere uomo di crudo realismo e di lettore attento del suo tempo.

Machiavelli non ci dice che il fine giustifica i mezzi ma rileva semplicemente che l’agire politico non può essere subordinato ad un sistema di valori esterno alla politica stessa che si presenta nient’altro che come una scienza umana retta, appunto, da iuxta propria principia, come diceva il suo contemporaneo Bernardino Telesio.

Certo al tempo di Machiavelli la politica si esprimeva attraverso l’agire concreto di re e principi i quali, pur proclamandosi cristianissimi e cattolicissimi, praticavano nell’agire politico ogni nefandezza pur di mantenere il proprio potere ed accrescere la potenza dei propri stati.

Il diplomatico fiorentino, che con quella politica era venuto a contatto guardandola da vicino, si limita a fornire un quadro realistico di essa, individuando modelli di comportamento e interrogandosi sulla natura del potere, sulle azioni che un principe accorto deve intraprendere per mantenere il suo principato, sul modo come comportarsi nei confronti dei sudditi, su come evitare i rovesci della “fortuna”, cioè quella serie di fattori contingenti, diremmo oggi, che spesso condizionano lo sviluppo della politica nella storia.

Al fondo c’è un forte pessimismo sulla natura umana, giudicata di in sé né buona né cattiva anche se il buon governante deve partire dal presupposto che l’uomo spesso è portato più al male che al bene nel suo agire quotidiano.

L’ideale politico di Machiavelli resta però la repubblica, in particolare la repubblica romana, in cui i cittadini sono sottoposti alla legge e dove il governo è della legge non dei singoli. Ma la realtà del suo tempo era ben diversa e drammatica.

In questo Machiavelli non è dissimile da Tommaso Moro che, di fronte alla crudele realtà della politica del suo tempo (che alla fine lo ucciderà) disegna un ideale di stato con la sua Utopia (o come il nostro Campanella con la Città del Sole).

In assenza di un sistema statale in cui la legge prevalga sull’arbitrio anche dello stesso principe (si farà una rivoluzione in Francia due secoli dopo proprio per affermare questo principio) Machiavelli esamina la politica per quella che è e cerca di fare in modo che l’agire dei governanti sia almeno retto da principi di buon senso e dalla necessità di fare il bene dei propri sudditi.

Siamo ancora lontani da Max Weber e dalla sua “etica della responsabilità”, ma il principio moderno per cui la politica non si riduca al solo esercizio e mantenimento del potere ma si ponga come strumento in grado di dirigere le cose umane per soddisfare esigenze collettive mi sembra già enunciato.

In questo senso l’agire politico non può essere sottoposto a nessuna visione ideologica, di qualsiasi segno sia (religiosa, etnica, politica, ecc..) ma seguire regole proprie che trovano la loro ragione nella responsabilità verso il bene comune e collettivo dei cittadini.

Quando la politica comincia a rispondere a dimensioni ideologiche esterne ad essa i danni per la collettività sono sempre terribili e provocano orrori.

Spiace rilevare che la lezione machiavelliana (e di tutti coloro che l’hanno seguito) sia ancora oggi disconosciuta.

Purtroppo assistiamo da una parte allo spettacolo di una politica che, di frequente, persegue solo l’opportunistico mantenimento di un potere fine a se stesso, dall’altra la solita ed ideologica denuncia moralistica che non solo è incapace di compiere un’analisi realistica dei problemi sociali e della maniera con la quale è possibile dare ad essi risposte concrete, ma che spesso non fa altro che spianare la strada a nuovi e più forti opportunismi politico-ideologici non di rado peggiori di quelli contro i quali si era levata.

Una politica che sia in grado di leggere la realtà, interpretarla e governarla senza farsi condizionare da chiacchiere ideologiche e che sia in grado di dirigere davvero le cose umane senza rincorrere le farfalle sotto l’arco di Tito resta, soprattutto in Italia, ancora un’utopia.

INNOVAZIONE NON NUOVISMO

il futuro del partito nelle mani dei giovani

State certi che se volete strappare unanime consenso anche in una discussione informale prendendo un caffè al bar è sufficiente una tirata sulla necessità di novità: in politica, in TV, nello sport, ecc..

Il nuovo è affascinante per tutti, persino per i conservatori.

D’altro canto, come diceva Catalano buonanima, è retorico chiedersi se è meglio mettere un vestito vecchio e rotto o un vestito nuovo e sano.

La questione è assai più complessa quando si declina il nuovo come categoria della politica, soprattutto in una società come la nostra che, nei fatti, chiude ai giovani ogni prospettiva e ogni opportunità.

Liberare la società italiana e consegnarla alle giovani generazioni rappresenta una vera e propria emergenza democratica ed è uno dei primi compiti della politica, soprattutto della politica di una forza democratica.

Il tema che, però, viene quasi sistematicamente eluso, una volta enunciata la necessità del nuovo e del rinnovamento è quello di come questo nuovo e questo rinnovamento debbano essere effettivamente costruiti.

Qui vediamo che ci si ferma, per incapacità o per calcolo doloso, alla semplice enunciazione, alla proclamazione retorica ed indignata.

In questi anni, invece di costruire per davvero il nuovo si è messa in piedi una insopportabile retorica del nuovo, un nuovo senza alcun pensiero dietro, spesso semplificato al puro dato anagrafico, in una parola si è semplicemente declinato il “nuovismo del vuoto spinto”.

Le ultime elezioni ci hanno consegnato, ad esempio, un forte svecchiamento del Parlamento, ma non mi pare che le cose, almeno finora, stiano andando meglio, anzi.

Assistiamo infatti allo spettacolo di bravi ragazzi che, è l’esempio del Movimento 5 Stelle, per settimane e settimane hanno discusso di scontrini e ricevute. Oppure, nel PD, a giovani deputati così permeabili agli umori di pancia della rete da non garantire al partito che li ha eletti un minimo di tenuta nei momenti cruciali delle prove parlamentari.

La verità è che il nuovo senza un progetto politico, senza una idea di società, senza modelli di riferimento che lo sostengano è destinato a soccombere e a provocare, questo il danno maggiore, un effetto di reazione conservatrice che si riaffida spesso, per insicurezza e per tutela, sotto le ali del peggiore del vecchio.

Vi siete chiesti, ad esempio, perché, nonostante tutta la retorica del nuovo di cui è disseminato il nostro dibattito pubblico i sondaggi danno in crescita un vecchietto di 77 anni e in politica da venti di nome Silvio Berlusconi ?

La rivoluzione francese, il ’68, i grandi movimenti di massa che hanno prodotto profondi cambiamenti nella storia furono prodotti da grandi idee di liberazione portate avanti da persone nuove, non soltanto giovani ma soprattutto giovani.

Perché per produrre cambiamento e innovazione ci vogliono nuove idee non idee nuove.

LE PAROLE UCCIDONO NON MENO DELLE PALLOTTOLE. STIAMO ATTENTI !!!

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Ciò che è successo oggi non va né sopravvalutato né sottovalutato. Certamente è il frutto di un brutto clima, di anni di campagne contro la politica.
Intendiamoci, la politica ha molte colpe, soprattutto quella di non essersi assunta fino in fondo le sue responsabilità e di aver alimentato la rabbia sociale quando è apparsa non solo inefficiente ma anche detentrice di privilegi assurdi e spagnoleschi.
Ma va anche detto che questa campagna antipolitica è stata spesso indiscriminata, ha fatto di tutte le erbe un fascio e spesso ha trascurato di denunciare le tante sacche di privilegio presenti nella società italiana anche più insopportabili di quelle della politica.
Come sorprendersi che un poveraccio senza lavoro e oppresso dai debiti si procuri una pistola, si vesta di tutto punto e vada davanti a Palazzo Chigi a cercare qualche politico da sparare ? In mancanza di un politico non ha trovato di meglio che prendersela con due poveri carabinieri che stavano lì a fare il loro dovere.
Per questo quando leggo post del tipo: “solidarietà ai carabinieri e non ai politici”, oppure “ha solo sbagliato bersaglio” mi preoccupo e dico, stiamo attenti tutti, anche noi semplici cittadini. Le parole sono importanti, le parole possono uccidere non meno delle pallottole.
Questo è un Paese che ha già conosciuto, in passato, la violenza politica spesso generata da parole in libertà.
La critica anche aspra è sempre legittima. Ma deve saper essere critica, saper distinguere e soprattutto essere corretta. Perché non ha ragione chi grida più forte o insulta di più, ma chi sa portare ragioni ed argomenti a quello che dice.
Dire questo non è né scontato, né buonista, né pedagogico. E’ semplicemente la regola fondamentale della democrazia. E, come si dice, repetita iuvant.

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