processo mediatico

La sindrome di Girolimoni e il processo mediatico

Girolimoni ormai anziano

Pubblicato “Il Garantista” del 29 settembre 2015

Gino Girolimoni era un poveraccio accusato ingiustamente di essere un pedofilo autore di alcuni atroci delitti di bambine nella Roma degli anni Venti. Arrestato e processato, la polizia (eravamo in pieno regime fascista) fabbricò un cumulo di prove contro di lui che, tuttavia, non ressero in sede processuale. Assolto “per non aver commesso il fatto” e liberato, rimase però per tutti il “mostro di Roma”. Il vero autore dei delitti pare fosse un pastore anglicano inglese che, però, non sarà mai condannato. A questa storia il regista Damiano Damiani si ispirò nel 1972 per realizzare un bellissimo film interpretato dal grande Nino Manfredi.

L’arresto di Girolimoni e l’esibizione delle false prove contro di lui furono oggetto di una poderosa campagna di stampa che lo dipinse come un pervertito, mettendo in rilievo aspetti della sua vita privata che potevano avvalorare la sua colpevolezza. Era infatti orfano e scapolo, condizioni moralmente deprecate durante il fascismo e, per di più il fatto che fosse elegante e più o meno benestante (proprietario di una macchina, cosa assai rara a questi tempi) contribuivano a renderlo piuttosto “antipatico” ad un’opinione pubblica orientata dalla retorica populista e “antiborghese” del fascismo. Continua a leggere

Enza Bruno Bossio: “Assolta perché innocente, non innocente perché assolta”

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“Finalmente sono uscita da un incubo”. E’ quanto afferma, in una nota, Enza Bruno Bossio sulla conferma in appello della sentenza di assoluzione nel processo Why Not. ”Un incubo – aggiunge – che aveva provato a distruggere la mia vita e quella dei miei figli. Al quale ho resistito non solo con la consapevolezza di non aver fatto mai nulla di illecito, ma anche grazie all’affetto di moltissimi amici. Non mi sono mai sottratta ai processi in tribunale, anche se vivevo fino in fondo l’ingiustizia morale e materiale di quello che mi stava accadendo. Ma nonostante tutto ho avuto fiducia nel compimento dell’azione della magistratura, soprattutto di quella giudicante. Anche perché non mi sento di essere innocente perché assolta, ma assolta perché innocente. Dunque esiste il merito dei processi che si svolgono nelle aule dei tribunali, che sono altra cosa dei processi mediatici che condannano le persone sulla piazza prima ancora di essere giudicate da chi è preposto a questo compito”.
Enza Bruno Bossio è felice. La giustizia, quella vera, quella dei processi che si svolgono nella sola sede preposta dal nostro ordinamento, ha detto definitivamente la parola fine sulla sua vicenda giudiziaria iniziata nel 2006 dall’allora PM Luigi De Magistris.
Sono stati anni terribili in cui è stata messa alla gogna, condannata nelle piazze e sui media, messa alla berlina senza alcuna possibilità di contraddittorio secondo le regole del cosiddetto “processo mediatico” e della “macchina del fango”.
Una carriera brillante stroncata da una macchina infernale, accuse assurde che la mettevano al centro di un fantasioso teorema accusatorio che, tra l’altro, arrivò fino a Prodi e a Mastella e fu una delle cause della fine del governo dell’Unione.
L’inchiesta “Why not” oggi si sta rivelando per quella che è: un enorme, colossale flop, l’ennesimo per un PM che nella sua carriera non è mai riuscito a far condannare nessuno, ma che è stato invece abile nel costruire la sua immagine che gli ha consegnato una carriera politica prima come parlamentare europeo poi come Sindaco di Napoli.
Enza Bruno Bossio oggi è felice, ma quanto ha sofferto in questi anni difficilmente verrà cancellato. Né ci saranno trasmissioni televisive e articoli di giornale che daranno altrettanto spazio alla sua certa ed accertata innocenza come invece era stato fatto per dimostrare la sua “presunta colpevolezza” ed incensare il suo improbabile ed improvvisato Torquemada.
E’ questa la nota più amara di tutta questa vicenda e che ci dice, ancora una volta, come il sistema informativo e mediatico che ruota attorno alla giustizia italiana evidentemente non funzioni.

Malagiustizia, lombrosismo, processo mediatico. Il caso di Ciccio e Tore di Gravina di Puglia

Ciccio e Tore

Pubblicato su “Processo Mediatico” marzo 2011
Il tema giustizia è assai controverso e dà spesso origine a scontri epocali tra i cosiddetti giustizialisti e i cosiddetti garantisti.
La presenza di Berlusconi, politico che sulla giustizia spesso proclama un garantismo peloso che egli traduce con richiesta di impunità e l’idea che il consenso lo metta al di sopra delle regole dello Stato di diritto non aiuta una discussione serena, anzi la ideologizza fino all’estremo.
Eppure il problema giustizia in Italia esiste a prescindere da Berlusconi ed è un tema che riguarda i cittadini comuni e non solo i politici e i potenti.
Porterò un esempio concreto per comprenderci, un fatto che non riguarda un politico ma una persona comune, un lavoratore di Gravina di Puglia accusato di una cosa terribile, di aver ucciso i suoi figli, forse lo ricorderete, ne parlarono TV e giornali, una cosa terribile.
Due bambini, Ciccio e Tore, assai vivaci come ce ne sono tanti, come potrebbero essere i nostri figli, appartenenti ad una famiglia di separati in lite fra di loro, ad un contesto familiare difficile, spariscono la sera del 5 giugno del 2006.
Il padre, Filippo Pappalardi, li cerca tutta la notte e la mattina va dai carabinieri a denunciarne la scomparsa e si reca al lavoro.
Le ricerche si sviluppano tutto intorno a Gravina e arrivano fino in Romania nell’ipotesi del rapimento da parte dei soliti “zingari”.
Nel frattempo i due genitori separati cominciano ad accusarsi vicendevolmente di essere responsabili della sparizione dei figli. Comincia la caccia al “mostro” in una comunità che si trova proiettata sulla ribalta televisiva in cui tutti esprimono opinioni a cronisti disponibili a raccogliere qualsiasi voce, qualsiasi congettura.
Perfino il parroco del paese si lascia andare ad analisi da investigatore e invita ad “indagare sulla madre”, che sembra troppo “fredda” e indica persino due piste: “o lei o la malavita”.
La pressione mediatica cresce, le immagini dei due bambini imperversano su giornali e TV, l’Italia è commossa e attonita, si appassiona ad una vicenda di violenza, di degrado familiare, si alimenta nei talk show e nella morbosa ricerca del colpevole, l’ipotesi della sparizione accidentale, dell’allontanamento accidentale o dell’incidente fortuito sparisce, non tira mediaticamente.
Gli inquirenti ne sono travolti, trascurano le ricerche nei posti più ovvii, intanto quelli dove i due ragazzini sono stati visti l’ultima volta, si convincono della tesi del delitto maturato in famiglia. Vengono compiuti scavi attorno alla casa della madre, Rosa Carlucci, perché una segnalazione indica che lì sarebbero stati sepolti i cadaveri dei due bambini. Intanto tutte le TV trasmettono un video in cui si vede il piccolo Francesco ripreso da una telecamera di sorveglianza di una banca del paese la sera della scomparsa.
Il 7 settembre del 2006 Filippo Pappalardi riceve un avviso di garanzia dopo essere stato iscritto nel registro degli indagati per sequestro di persona. Emilio Marzano, procuratore della Repubblica di Bari, riferisce inoltre di perquisizioni e del sequestro a Pappalardi dell’auto, del camion e di alcuni terreni sui quali si stanno svolgendo ricerche accurate con particolari tecnologie.
Spuntano inoltre testimonianze come quella di un bambino, compagno di giochi di Ciccio e Tore, che riferisce che la sera della scomparsa stavano giocando a palloncini d’acqua davanti alla Cattedrale di Gravina e che il padre li avrebbe raggiunti, sgridati e caricati in macchina con lui portandoli via, circostanza sempre negata da Pappalardi.
L’avvocato di Pappalardi, inoltre, annuncia l’intenzione del suo assistito di presentare una formale denuncia contro un dirigente della squadra mobile di Bari, Luigi Liguori, per metodi non ortodossi nella conduzione delle testimonianze di persone informate dei fatti.
Il 24 ottobre 2006 si aggiunge anche la dichiarazione del Sindaco di Gravina che dice che i due bambini sono vivi secondo una fonte che non può rivelare.
Il 27 novembre 2007, dopo ben 17 mesi di indagine, Filippo Pappalardi viene arrestato con l’accusa di sequestro di persona, duplice omicidio volontario aggravato dal vincolo di parentela ed occultamento di cadavere. L’uomo avrebbe ucciso i suoi due figli lo stesso giorno in cui ne aveva denunciato la scomparsa, nascondendo poi accuratamente i loro cadaveri. Pappalardi è inoltre indagato per aver indotto la convivente a rendere dichiarazioni false alla magistratura.
Secondo la ricostruzione fornita dal procuratore della Repubblica presso il tribunale di Bari, Emilio Marzano, Pappalardi non voleva più quei due figli. “Non li sopportava più. La nuova famiglia di Pappalardi, quella formata con Maria Ricupero, era già gravata da altri tre figli, Ciccio e Tore davano fastidio, disobbedivano, mentre Pappalardi voleva che rispettassero le regole”.
L’uomo continua a proclamarsi innocente e a nulla valgono le iniziative del suo difensore tendenti a denunciare non solo la debolezza del movente ma anche di tutto l’impianto investigativo. Resta in carcere, in isolamento.
Il 25 febbraio 2008, a quasi tre mesi dall’arresto del padre e quasi due anni dalla scomparsa dei due bambini, vengono ritrovati i cadaveri nel pozzo di uno stabile abbandonato nel pieno centro di Gravina. Sin dai riscontri e dalle autopsie si delinea con nettezza la dinamica accidentale della morte: i due cadaveri non hanno su di sé segni di violenza a parte le ferite procuratesi nella caduta. La cosa più agghiacciante è che i due avevano avuto una lunga e terribile agonia.
Com’è possibile che a nessuno era venuto in mente di andare a cercare nei pozzi e negli stabili abbandonati, almeno in quelli nelle immediate vicinanze dove i bambini erano stati visti l’ultima volta ? Come si faceva ad ignorare che esistevano posti così pericolosi dove due bambini vivaci potessero cadere ? Come si faceva ad ignorare che lo stesso nome Gravina deriva dalla presenza di crepacci erosi in terreni calcarei ?
Nonostante questi riscontri il povero Filippo Pappalardi rimane in carcere da dove esce solo il 4 aprile 2008. Nel mezzo la Procura resiste attaccandosi al baby-super-testimone: l’ipotesi adesso è che i due bambini sarebbero caduti nel pozzo per sfuggire alla punizione del padre che li cercava e che quindi si configurerebbe quantomeno l’omicidio colposo o l’eccesso di mezzi di correzione o la negligenza grave.
Intanto crolla anche la testimonianza del baby-super-testimone: dice che sin dall’inizio aveva dichiarato di non ricordare se il giorno era proprio quello della scomparsa, ma che loro (gli inquirenti) volevano “cose precise”, erano passati due mesi e noi abbiamo raccontato “quello che avevamo in mente”.
Ma la Procura resiste, nonostante le prove dell’innocenza di Pappalardi si accumulino ora dopo ora. Questi, ancora in carcere, denuncia, “l’avevo detto di cercare lì”, ma la Procura insiste: l’ipotesi dell’incidente è stata scartata sin da subito perché “’l'ipotesi di duplice e contemporanea disgrazia appariva scarsamente probabile dato che, salvo pensare a un crollo che avesse coinvolto entrambi o all’ipotesi di una disgrazia accorsa al secondo che magari tentava di soccorrere il primo (per esempio caduto in un vascone per l’irrigazione), resta il fatto insuperabile che Gravina di Puglia non e’ un comune di alta montagna, con crepacci, burroni e slavine pronti a seppellire per sempre i corpi dei malcapitati” (e allora perché si chiama Gravina ?).
Alla fine il GIP è costretto a prendere atto dell’innocenza del Pappalardi e riconoscere la tesi dell’incidente, nonostante la Procura continui ad insistere e per giustificare le evidenti discrepanze investigative, se la prende con i due poveri genitori, con la gente di Gravina. La dottoressa Romanazzi ne ha per tutti. Dice a pagina 12 della sua ordinanza: “si è profilato sin dalla primissima fase delle indagini, un groviglio di omissioni, reticenze, bugie, indugi, con inevitabili ripercussioni negative sull’attività investigativa”.
Questa vicenda non credo abbia bisogno di commenti: un padre accusato ingiustamente di aver ucciso i propri figli che intanto morivano orribilmente perché nessuno li cercava in quanto tutti si erano appassionati alla tesi dell’orco, una lunga pena detentiva e la pervicacia nel sostenere, anche di fronte all’evidenza dei fatti una tesi accusatoria che non stava in piedi sin dall’inizio soltanto se si fosse lavorato con scrupolo, evitando scorciatoie investigative e la ricerca di facili capri espiatori.
Ma ci dice anche un’altra cosa, che è più terribile, se vogliamo, di tutto il resto: Filippo Pappalardi è stato vittima di uno stereotipo quasi lobrosiano: era il colpevole perfetto, un semianalfabeta con una vita familiare confusa, severo con i figli cresciuti in un ambiente degradato in una piccola comunità del Sud, scorbutico e manesco, magari antipatico a tanti.
Quanti ne conosciamo di persone così ? Quante ne incontriamo ? E sono tutte potenziali assassini ?
Sulla base di questo è stata costruita l’inchiesta, non sulla effettiva rilevazione di reati e di riscontri indiziari.
Contro Pappalardi, non c’era nulla sin dall’inizio, solo questo teorema che, per colpevole faciloneria, per rispondere alla pressione mediatica, per soddisfare la “piazza”, è diventata un’accusa, un’inchiesta e una prova. E’ agghiacciante pensare che, se i corpi di Ciccio e Tore non fossero stati ritrovati Filippo Pappalardi sarebbe ancora in galera oppresso dal dolore per i figli perduti e dall’accusa drammatica di averli uccisi.
Per la cronaca i magistrati protagonisti di tutto ciò sono ancora lì, al loro posto, non essendone stato disposto neanche il trasferimento.

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Il luogo dove sono stati ritrovati

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