Togliatti
ESSERE ALL’ALTEZZA DELLA…BASE
Perché una classe dirigente deve essere in grado di dirigere e non essere diretta.
Ricorre in questi giorni di animate discussioni il ricorso alle formule magiche: “ascoltare la base”, “rispettare la volontà della base”, ecc.. La base di cui si parla assume contorni mitologici, è una specie misteriosa, la personificazione dell’altrettanto mitica (e talvolta evocatrice di storici e feroci “terrori”) “volontà del popolo”.
La democrazia moderna, sin dalla sua nascita, ha dovuto fare i conti con la cosiddetta “volontà del popolo” che talvolta si esprimeva nei cangianti umori delle folle spesso agitate da spregiudicati demagoghi. Infatti, ogni volta che ci si è affidati agli umori incontrollati del cosiddetto “popolo”, i guai sono stati sempre assai grossi.
Si decise così di ricorrere alla democrazia rappresentativa: il popolo elegge col metodo “una testa un voto” i propri rappresentanti che ne interpretano la volontà collettiva pur dentro il principio di maggioranza.
Insomma, se riflettiamo bene il problema del rapporto tra rappresentante e rappresentati è l’essenza della democrazia e, se vogliamo, della politica stessa. La politica ha, come scopo essenziale, proprio quello di trasformare una volontà diffusa (e spesso confusa) in scelte, in governo. Il tutto nella consapevolezza che non sempre ciò che si urla in piazza corrisponde davvero alla volontà della maggioranza del popolo o, comunque, ai reali e concreti interessi della maggioranza del popolo.
Sta, dunque, al rappresentante essere all’altezza della base che lo ha eletto, avendo anche la capacità di saper spiegare e orientare, insomma, essere classe dirigente che, appunto, dirige.
Ciò che vale per gli stati, vale, ovviamente, anche per i partiti.
Faccio due esempi: dopo la guerra se Togliatti avesse ascoltato, sic et simpliciter, la base del PCI mai avrebbe concesso l’amnistia agli ex fascisti. Invece Togliatti fece proprio questo (magari anche esagerando in clemenza) perché la pacificazione serviva al Paese e al suo stesso partito per farlo diventare una forza di massa pienamente inserita in un sistema democratico maturo.
Ancora, negli anni ’70 nella base del PCI tanti guardavano al terrorismo se non con favore, con una certa comprensione, coniando il termine “compagni che sbagliano”. Per fortuna nel gruppo dirigente del PCI di allora non solo nessuno li ascoltò ma contro queste posizioni fu condotta una fortissima battaglia politica interna. Per fortuna della democrazia italiana completamente vinta.
Insomma, a me piacerebbe un partito con gruppi dirigenti in grado di fare i dirigenti e di essere all’altezza della propria base. E’ chiedere troppo ?
Fascismo e antifascismo a Cosenza. L’omicidio di Paolo Cappello.
Pubblicato su “Calabria Ora” di venerdì 16 marzo 2012.
Contrariamente a quanto certa vulgata, anche storiografica, racconta, l’avvento del fascismo in Calabria fu tutt’altro che semplice e “indolore”. Pur non raggiungendo i livelli di mobilitazione contro gli oppositori politici caratteristici di altre parti d’Italia, lo squadrismo fu presente anche nella nostra regione collezionando la sua bella sequela di intimidazioni, aggressioni e crimini.
Tra questi l’omicidio di un giovane operaio socialista cosentino, Paolo Cappello. Trovatello, come si diceva allora, sposato senza figli, di professione muratore, aveva inizialmente aderito al Partito repubblicano per poi passare ai socialisti. La sera in cui fu ucciso tornava da una riunione del direttivo della sezione “P.Rossi”. Militante attivo, arrestato qualche tempo prima e fatto liberale proprio dalla difesa di Mancini, era amato da tutti i suoi compagni e particolarmente odiato dai fascisti proprio per questa ragione. Insieme a Nicola Adamo, un altro muratore socialista (nonno dell’attuale consigliere regionale) che fu aggredito la stessa sera proprio nel tentativo di andare a soccorrerlo, erano tra i più attivi nel lavoro di propaganda e pronti ad accorrere al richiamo dei loro compagni aggrediti (questa circostanza ha fatto pensare che l’agguato di quella sera fosse premeditato e non casuale).
Siamo nel settembre del 1924. Benito Mussolini siede alla Presidenza del Consiglio da quasi due anni, ma è tutt’altro che tranquillo. Siamo, infatti, nel pieno della crisi seguita al delitto del deputato socialista unitario Giacomo Matteotti, assassinato a Roma dopo la sua vibrante protesta in un memorabile discorso alla Camera il 30 maggio, con il quale aveva denunciato le violenze e le intimidazioni che avevano caratterizzato la campagna elettorale per le elezioni del 6 aprile chiedendone l’invalidazione. Le chiare responsabilità nel delitto del gruppo dirigente più ristretto del fascismo e dello stesso Mussolini, avevano scatenato una ondata di indignazione nell’opinione pubblica e la vibrata protesta delle opposizioni che decidevano di ritirarsi dal Parlamento sull’Aventino per segnare l’illegittimità di una maggioranza e di un governo colpevoli di tale atto nella speranza di un intervento del re Vittorio Emanuele III che, com’è noto, non avvenne, aprendo la strada all’instaurazione della dittatura e alla messa fuori legge di tutte le opposizioni.
In quel clima rovente lo squadrismo aveva ripreso vigore in tutto il Paese. A Cosenza, dove socialisti e comunisti avevano eletto per la prima volta i loro deputati (Pietro Mancini e Fausto Gullo, la cui elezione fu però annullata dalla giunta per le elezioni e i resti assegnati in maniera del tutto arbitraria al popolare Nicola Siles), aggressioni ed intimidazioni si succedevano in un crescendo sempre più drammatico e violento.
In città era attiva una squadra di camicie nere, La Disperata, comandata da Nicola Zupi, che si era resa protagonista di numerose azioni contro esponenti ed organizzazioni della sinistra. L’anno prima era stata bruciata la Camera del Lavoro in Largo Vergini. Tra la primavera e l’estate del 1924 si erano succedute numerose aggressioni ad esponenti socialisti, comunisti e repubblicani nei pressi del rione Massa, il cuore “rosso” e operaio della città. Persino una festa popolare in piazza del Carmine (l’odierna Piazza Matteotti) e un concerto musicale a Donnici erano stati l’occasione di scontri, agguati e bastonature.
“La Parola Socialista”, che all’epoca era stampata con una tiratura di 3000 copie, era stata sequestrata da due militi fascisti e bruciata pubblicamente in Piazza Prefettura. Il tutto avveniva, secondo un copione comune in tutta Italia, con la sostanziale connivenza delle autorità di PS, che spesso arrestava le vittime e non gli aggressori con il pretesto della “provocazione sovversiva”.
La sera del 14 settembre, una domenica, la squadra fascista, diretta ancora una volta verso la Massa, intercettava all’altezza delle scalinate che danno sul Ponte di San Francesco (via Sertorio Quattromani) un gruppo di operai a loro ben noti come attivisti di sinistra e li faceva oggetto di numerosi colpi di rivoltella. Riporto da questo punto in poi, l’articolo de “La Parola Socialista” dovuto alla penna di Pietro Mancini: “gli aggrediti retrocedettero mentre qualcuno degli aggressori girava pel vicolo dei Casciari allo scopo, evidentemente, di imbottigliare gli operai. Nel contempo, un nostro compagno, – Paolino Cappello – solo ed inerme anche lui, ritornava a casa. Quando fu nei pressi del ponte di San Francesco fu fatto segno a vari colpi di rivoltella. Colpito gravemente, potè reggersi in piede fino alla Piazza Grande ove cadde svenuto. Un altro socialista, Nicola Adamo, ch’era uscito da casa appena saputo il fatto nel quale un suo compagno era rimasto ferito gravemente, avvistato dai fascisti nei pressi della Piazza Piccola, venne raggiunto e bastonato a sangue. Per tutta la notte di domenica la città fu scorsa da un capo all’altro dalla banda vittoriosa e si procede all’arresto di alcuni…operai”.
Il giorno dopo, nonostante un maldestro tentativo di alibi, Nicola Zupi veniva arrestato. I due operai socialisti, ricoverati in ospedale, venivano piantonati per evitare nuove aggressioni.
Le condizioni di Paolo Cappello apparvero subito gravi. Morì alcuni giorni dopo per le conseguenze delle ferite riportate chiedendo di avere all’occhiello della giacca un garofano rosso. Nicola Adamo se la cavò non senza dolorosi strascichi con una lunga degenza in ospedale. I funerali furono imponenti, tutta la classe operaia di Cosenza vi partecipò, con alla testa l’intero gruppo dirigente socialista, comunista e repubblicano.
Il clima in città restava dunque incandescente e lo squadrismo era più attivo che mai: scritte “Viva Zupi” facevano la loro comparsa sui muri. Il processo sull’assassinio di Paolo Cappello si tenne a Castrovillari perché Cosenza veniva considerata una piazza “ostile”. Cito ancora le parole di Pietro Mancini, difensore di “parte civile”, come si direbbe oggi, insieme a Fausto Gullo, in quel processo: “rammento il processo e la istruttoria difficoltosa, nella quale tanti galantuomini calpestarono per viltà la propria coscienza. (…)Ho nelle orecchie le invettive volgari con le quali ‘gli eroi’ dalla gabbia salutavano l’apparire nell’aula di Fausto Gullo e di me (…). Vedo l’aula gremita di fascisti urlanti e indisturbati, il pubblico ministero venuto da Catanzaro, fraternizzare con i difensori, il Presidente Graziani scandalizzato e impotente, i giurati premuti ed insidiati; e poi il verdetto scandaloso e l’apoteosi degli assassini per le vie di Castrovillari”. Un processo farsa, quindi, con Mancini e Gullo costretti a rifugiarsi in una casa amica per evitare le rappresaglie degli imputati liberati e dei loro scherani.
Dopo la guerra e con il ritorno della democrazia gli imputati del processo rinunziarono alla pregiudiziale di innocenza per poter usufruire della amnistia di Togliatti.