UDC
Ragazzi, giuro che se sento parlare di rinnovamento chiamo i carabinieri…
Scelgo questo titolo volutamente provocatorio per cercare di esprimere un concetto che mi sta molto a cuore dopo la “batosta” di domenica scorsa. Dico subito quindi che la sinistra ha bisogno come il pane di un profondo e radicale rinnovamento dei suoi gruppi dirigenti e, soprattutto, di una grande innovazione politica e programmatica.
Tuttavia trovatemi uno in Calabria, in Italia e nel mondo che non dica la stessa cosa con toni enfatici ed apodittici anche tra coloro che di questa batosta sono i principali responsabili.
Si, perché parlare di rinnovamento è la cosa più facile di questo mondo ed è il modo migliore per mantenere tutto esattamente com’è. I più grandi proclamatori di novità sono, in realtà i peggiori conservatori perché intendono il rinnovamento sempre a partire dagli altri, mai da se stessi.
La vicenda calabrese del PD ne rappresenta la plastica dimostrazione: sono mesi che novelli giacobini predicano il rinnovamento, agitano questioni morali e acuiscono le profonde fratture del gruppo dirigente solo ai fini di ritagliarsi un posticino nel sempre più residuo e marginale bacino del PD. Poco importa se molti di questi predicatori sono cresciuti all’ombra di coloro che oggi considerano il male assoluto, se si sono ingrassati con incarichi e prebende o comodi posticini in liste bloccate.
Ma, francamente, del destino di questi sono poco preoccupato perché gli elettori li hanno già giudicati e pesantemente bocciati.
Sono invece preoccupato del fatto che, anche rimuovendoli dai posti che occupano risolveremo solo parte dei nostri problemi. Si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente.
Perché il rinnovamento, quello vero, non riusciremo a farlo se non costruiremo finalmente il PD, vale a dire un partito di massa, inclusivo e capace di promuovere davvero nuove classi dirigenti sul terreno dell’innovazione politica. Un partito che tenga tutti dentro, vecchi e nuovi e promuova davvero i nuovi sulla base della selezione democratica, nel fuoco della battaglia politica consentendo anche all’ultimo dirigente dell’ultimo circolo di poter crescere ed affermarsi senza cooptazioni ma in base alle cose che sa esprimere e sa fare. Perché sulle macerie si è sempre costruito poco, se non nulla. Perché il rinnovamento senza innovazione è solo nuovismo senza contenuti destinato ad essere spazzato via al primo alito di vento. Perché la lotta politica interna ha senso e si motiva se si è portatori di progetti, di proposte, di visioni strategiche che vadano al di là delle pur legittime ambizioni personali.
Rinnovare non significa cooptare in posti di responsabilità qualche ragazzo che serva da vetrina, ma consentire a migliaia di ragazzi di crescere e produrre politica insieme a chi ha maturato esperienza ed anche errori. Così si faceva nei vecchi partiti, così dovremmo fare nei nuovi (dopo averli costruiti, ovviamente).
Il voto di domenica e lunedì ci consegna intanto due problemi grandi quanto una casa: un PD da prefisso telefonico ed un centrosinistra minoritario, marginale e parolaio incapace di porsi come interlocutore credibile e di governo per combattere l’egemonia del centrodestra in questa regione.
Il centrodestra vince perché regge la sua alleanza con l’UDC, alleanza frutto della miopia di quei dirigenti che consentirono a Loiero di ricandidarsi alla guida di una coalizione ormai minoranza in Calabria convinti che la sola gestione del potere regionale fosse sufficiente a farci vincere. Nel “Rendano” di Cosenza ancora non si sono spenti gli echi di una manifestazione convocata dagli strateghi cosentini (gli stessi della sconfitta cosentina, rossanese e sangiovannese) che urlavano “Agazio, sei l’unico candidato possibile” nelle stesse ore in cui Bersani tentava l’interlocuzione con l’UDC che ci avrebbe fatto vincere davvero.
Ora tutto è più difficile, per cui è davvero assurdo dividersi tra chi urla più forte “rinnovamento, rinnovamento”. E’ venuto invece il momento innovare davvero interrogandoci fino in fondo sul come.
Volevano candidare Angelo Vassallo alla Camera, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra, Veltroni e Bettini lo ignorarono.
In un articolo pubblicato oggi su il Venerdì di Repubblica, si apprende che nel 2008 il PD di Pollica aveva scritto a Veltroni e Bettini per proporre la candidatura del sindaco Angelo Vassallo, alla Camera.
In quell’occasione i dirigenti democratici di Pollica non ebbero neanche la “confidenza” di una risposta. Pare che il Sindaco, all’oscuro dell’iniziativa assunta dai suoi amici si arrabbiò moltissimo con loro quando venne a saperlo e ci rimase ancora più male sapendo che essa non aveva avuto alcun riscontro.
In verità in quei mesi le liste venivano gestite come un “casting” per usare l’espressione di Matteo Renzi (mettiamo l’operaio, l’imprenditore, il giovane, lo scrittore…) e in Campania si scatenò la battaglia contro Bassolino e contro De Mita, il “vecchio” che aveva la pretesa di ricandidarsi con il PD (finendo poi parlamentare europeo con l’UDC).
Si inseguì la candidatura di Roberto Saviano che rifiutò parlando di un PD altrettanto camorrista del PDL…ma questa è storia.
L’episodio però deve farci riflettere al di là del merito della vicenda. Il povero Vassallo, un sindaco che nella Campania dell’emergenza rifiuti aveva realizzato uno dei comuni più avanzati dal punto di vista dell’ecosostenibilità e anche per questo inviso alle organizzazioni criminali che ordinarono la sua brutale eliminazione, non fu candidato nonostante avrebbe potuto dare molto al PD e al Centrosinistra.
Al suo funerale c’erano tutti, anche coloro che all’epoca non lo degnarono neanche di una risposta, a piangerlo, giustamente, e ad indicarlo come esempio di una buona amministrazione possibile anche nel Sud e come coerente testimonianza di lotta alla criminalità.
Non c’è in questo mio dire un giudizio di valore: solo l’amara constatazione che il Sud non è tutto “Gomorra” e che forse un atteggiamento meno “liquidatorio” su quanto esprime la politica del Mezzogiorno avrebbe consentito di valorizzare.
Un problema di approccio, quindi, che continua ad essere condizionato da pregiudizi e preconcetti, che non aiuta nella lotta contro i mali del Sud, a partire dalla criminalità organizzata. Ma è anche un problema, grande quanto una casa, di democrazia. Se ci fosse stata un’altra legge elettorale probabilmente Vassallo sarebbe stato in Parlamento a portare la sua esperienza in un contesto nazionale, meglio di tanti altri che sono stati “nominati” secondo il criterio della fedeltà ai gruppi dirigenti nazionali.
Dico di più, forse sarebbero bastate anche le primarie per farlo candidare e dare un contributo positivo ad una campagna elettorale difficile.
Questo episodio è la prova drammatica, che fermo restando questa legge, i parlamentari non possono più essere nominati né indicati attraverso “casting”, ma scelti dai cittadini attraverso le primarie.